L’East End, l’Argentina e le vite fotografate da Erica Canepa

(@dettobene)

Nei giorni scorsi il Washington Post ha pubblicato alcune foto di Erica Canepa raccontando il suo progetto sull’East End londinese. Io aggiungo volentieri la chiacchierata fatta qualche mese fa con lei in occasione del suo ritorno a Sarzana. 

“Torno a casa sempre volentieri, un po’ per il mare e un po’ per la focaccia ma non solo, sto portando avanti da quattro anni anche un progetto di scatti personali”. Erica Canepa, fotografa molto attenta alle questioni sociali e alle differenze culturali e con un master in fotogiornalismo conseguito alla Westminster University, è rientrata a Sarzana da pochi giorni, nel luogo che conserva le sue radici ma dal quale negli anni è sempre ripartita alla volta di Argentina, Egitto, Sudafrica o Inghilterra, dove ha concentrato buona parte della sua attività, particolarmente influenzata da figure britanniche come Simon Norfolk, Leonie Hampton, Sander e dai sudafricani Pieter Hugo e Guy Tillim.

“Negli ultimi tempi sono stata a Londra – racconta a Cds – una fonte d’ispirazione continua ma anche un rifugio fra un lavoro e l’altro. Mio nonno era un pittore e i miei genitori fin da piccola mi hanno portata in giro per musei quindi ho sempre avuto un’attenzione particolare per l’arte visiva e sono da sempre affascinata da Caravaggio. Ho studiato restauro, mi sono diplomata poi sono stata presa per il master. In quel momento ho deciso di mettermi alla prova – prosegue – mi sono trasferita nella capitale britannica ed ho capito che la cosa poteva diventare reale. C’ho vissuto a lungo e lì sto cercando il materiale per il prossimo progetto”.
Altra tappa fondamentale del suo percorso personale e lavorativo è stata quella dello scambio interculturale con l’Argentina fra il 1998 e il 1999. “Ero in quarta liceo – ricorda – e quel viaggio mi ha fatto capire che avrei potuto camminare da sola per il mondo adattandomi alle varie culture e districandomi in luoghi che non erano quelli di casa. Un’esperienza fondamentale che ha acceso il mio interesse vero per le vite degli altri. In quei mesi si parlava pochissimo della dittatura (dal 1976 al 1983), io ne sapevo poco ma le persone erano restie a ricordare quei fatti. Proprio in quel periodo però si cominciò a parlare dei figli dei desaparecidos che erano stati presi e “adottati” dai militari, ragazzi cresciuti senza saperlo in famiglie che non erano le loro e complici dell’omicidio dei veri genitori”.
Qualche anno più tardi Erica è tornata a Buenos Aires trovando un ambiente molto diverso che le ha permesso di realizzare il reportage “The Remaining” fotografando i luoghi di detenzione e tortura degli oppositori del regime. “Quando è stato il momento di fare la tesi per il master – spiega – ho subito individuato questo tema come il più adatto così sono tornata per altri tre mesi. I centri di isolamento erano stati riscattati grazie al governo Kirchner e l’argomento non era più un tabù. Ero partita per concentrarmi sui figli ritrovati cercando le cicatrici della dittatura ma dopo alcuni giorni mi sono resa conto che quelle erano proprio nelle stanze, nelle luci e nei dettagli, nei luoghi che rappresentavano il vuoto di una generazione spazzata via dall’odio. Il progetto portava con sé anche dei ritratti ma non ne sono mai stata contenta anche se prima o poi tornerò per completare il percorso e chiudere quel periodo cercando un’altra angolazione”.

Dalle atrocità del regime di Videla a quelle domestiche che quotidianamente riguardano anche la nostra realtà di provincia. “Tornata dal Sudamerica – prosegue la fotografa che da pochi giorni ha pubblicato il suo nuovo sito ericacanepa.format.com – il tema della violenza è stato un filo conduttore che mi ha spinta a capirne di più sui centri antiviolenza che aiutano le donne. Mi sono recata a Genova dove sono stata accolta con grande interesse ed ammessa a partecipare ai colloqui con le ragazze le cui storie mi hanno riportata alle torture argentine. Ho visto le case rifugio nelle quali cercano di dare una svolta alla loro vita, un momento molto forte perché la difficoltà maggiore è proprio nel trovare il coraggio di denunciare le violenze subite affrontandole per la prima volta dopo averle accettate per anni”.
Un passaggio molto importante in un percorso che di recente ha portato Canepa anche in Sudafrica a Johannesburg, è stato quello in Egitto, vissuto in due occasioni fra il 2007, ben prima della “Primavera araba” e il 2014 dopo la rivoluzione. “La prima volta – afferma – ero andata per uno stage rimanendo per 4 mesi con una famiglia. I moti erano molto lontani e in quel periodo la gente non pensava ad un’alternativa a Mubarak mentre quando sono tornata sono andata a vedere cosa era rimasto rendendomi conto che la rivoluzione non aveva cambiato molto. Mi aspettavo un Egitto nuovo e più fresco ed invece era tornato a stagnare come durante il regime. Ho trovato una generazione di trentenni depressi che vivevano come un fallimento l’aver versato molto sangue inutilmente ed ho avvertito un paese ostile nei confronti degli stranieri occidentali, un sentimento dovuto anche alla grande attenzione mediatica che la zona aveva avuto durante le rivolte”.
Ovviamente in questi anni il suo lavoro si è concentrato anche sul nostro territorio ed in particolare sulle ultime alluvioni e sui veleni di Pitelli dove Erica ha svolto un reportage con Antonio Musella. “Non mi ero mai occupata della mia terra – rivela – ed è stato un po’ forte perché non c’era la distanza che ho sempre trovato in un mondo che non era il mio. Purtroppo però fatico a rimanere a lungo nello stesso posto, sento il bisogno di muovermi ed andare a vedere cosa succede altrove. Spesso – conclude – mi sento anche un po’ presa in giro per come vengono affrontati i problemi qui, da Pitelli alle tante discariche: ho mangiato muscoli per una vita per poi scoprire che provenivano da uno dei luoghi più inquinati”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 30 maggio 2015)

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