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Da Gabbani a De Gregori, storie e ritratti di Daniele Barraco

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(@dettobene)

Dalla musica al cinema l’immagine ha da sempre un ruolo fondamentale per identificare la copertina di un album o per esprimere la personalità di un attore o di un cantante. Molte fra quelle che capita di vedere su riviste come Venerdì di Repubblica, Sportweek, Rolling Stone, Wired o Sette del Corriere della Sera, portano la firma di Daniele Barraco. Fotografo sarzanese classe 1980, dopo aver riposto le bacchette della batteria suonata per anni con ottimi risultati, si è avvicinato alla fotografia imponendosi in breve tempo a livello nazionale come uno dei più richiesti ed affermati nel mondo dello spettacolo. Davanti al suo obiettivo hanno posato personaggi come John Malkovich, Iggy Pop, Christopher Walken e Pierfrancesco Favino, ma anche Luciano Ligabue, Malika Ayane o gli abitanti di Ameglia dove vive con la compagna e foodblogger Alice Lombardi. Fra i soggetti più recenti ha immortalato i vincitori dell’ultimo Festival, gli Stadio e Francesco Gabbani, curando le copertine dei rispettivi album con lo stile e il talento che gli hanno permesso di ritagliarsi uno spazio molto importante nel settore grazie ad un percorso che Daniele Barraco mi ha raccontato per CdS.

Recentemente hai collaborato con Daniele Silvestri il cui nuovo album è uscito nei giorni scorsi, la vittoria a Sanremo di Francesco Gabbani ha dato ulteriore visibilità alle tue foto e un marchio importante del settore come Hasselblad ti ha da poco scelto come ambasciatore per l’Italia. Come stai vivendo questo bel momento?
“E’ davvero un bel periodo, sicuramente intenso, ma queste grandi soddisfazioni ti alleggeriscono la fatica fisica e ti danno una carica emotiva non indifferente. Ho conosciuto Daniele Silvestri grazie alle nostre reciproche compagne (che sono amiche da decenni), è un artista che ha influenzato il mio percorso musicale quando ero ancora un musicista e scattare recentemente con lui è stato fantastico. Poi c’è Hasselblad, che uso da parecchi anni ed è per me uno strumento insostituibile. All’inizio della mia carriera, di tanto in tanto, finivo sul sito dell’azienda e fantasticavo pensando che un giorno avrei avuto una di quelle macchine tra le mani, ora ne sono diventato ambassador, il sogno è diventato realtà. E infine Francesco Gabbani, un amico fraterno. Francesco è stato una delle mie prime “cavie fotografiche”, siamo cresciuti artisticamente insieme cercando di aiutarci vicendevolmente e supportandoci (ma talvolta anche sopportandoci) l’un l’altro, per me era normale che Francesco si affermasse, doveva solo arrivare il momento giusto. La sera della sua proclamazione come vincitore tra le nuove proposte del Festival, ero in auto, accostato sul ciglio di una strada romana, stavo rientrando da un lavoro e così per non perderlo mi sono fermato ed io e la mia compagna Alice abbiamo seguito le ultime fasi vedendo Sanremo in streaming sul cellulare. Dopo la sua proclamazione abbiamo pianto di gioia, la sua vittoria è un vero e legittimo punto di partenza per una carriera importante che si merita davvero”

Per lui ti sei cimentato anche con la regia per il singolo di “Amen” e con ottimi risultati visto che il video ha già passato un milione e 300mila visualizzazioni. Come ti sei trovato con questa nuova esperienza? Pensi di ripeterla?
“E’ tutta colpa di Francesco, è stato lui, parecchi anni fa, a tirare fuori il potenziale registico in me, ci siamo divertiti a sperimentare. Il primissimo video l’ho fatto con lui ed è un videoclip di un suo vecchio brano, abbiamo portato un pianoforte a coda in mezzo ad un bosco. Oggi siamo arrivati ad Amen che ci sta portando grandi soddisfazioni con i numerosissimi consensi. I primi ad emozionarci siamo stati noi, nel girarlo e nel vederlo montato la prima volta. E’ l’ennesima dimostrazione che è necessario metterci dei sentimenti per poter emozionare gli altri. Quindi si, la ripeterò sicuramente, anzi ormai vedo la fotografia e la regia come due cose strettamente legate, quando scatto penso anche alla regia, quando filmo penso alla fotografia, è inevitabile”

Sei ormai un fotografo affermatissimo con un portfolio ricco di nomi di primo piano, ma quando hai deciso di passare dalla musica alla fotografia e quanto le tue esperienze acquisite in quell’ambito ti sono servite per sviluppare la tua nuova attività?
“Non mi sento e non mi vedo come un fotografo affermatissimo, piuttosto penso a me come ad un artigiano che lavora con grande passione, che tenta ogni giorno di superare i propri limiti, di soddisfare la propria curiosità, di conoscere persone e mezzi che gli permettano di potersi esprimere al meglio.
E’ proprio dall’esigenza espressiva che ad un certo punto la mia carriera da musicista si è interrotta, vuoi un po’ la frustrazione provata in un Paese che fa di tutto per ostacolare le arti e in particolar modo la musica, vuoi perché mi sentivo un po’ oppresso da quel mondo lì, ho deciso di fare un cambio inaspettato, E’ stata la mia compagna Alice ad averci visto lungo spingendomi in questa direzione, senza di lei io non esisterei come fotografo. Le esperienze si miscelano, ci si influenza a vicenda, ci si scambiano paure e incertezze e, nella migliore delle ipotesi, si esce cresciuti”

Cosa ti ha portato a concentrarti principalmente sui ritratti e cosa cerchi nei tuoi soggetti per stabilire l’empatia necessaria?
“Avevo iniziato fotografando oggetti inanimati, still-life, ma ho capito che mi mancava l’interazione con il soggetto.
Nasco molto timido, cresco abbastanza timido, maturo espansivo e sicuramente invecchierò animatore da villaggio turistico. La fotografia per me è una terapia contro la timidezza e il dover “affrontare” ogni volta persone nuove, è stata una sfida per aprire il mio carattere di base piuttosto introverso. Col passare degli anni ho capito che il materiale umano è la cosa più interessante, al di là delle fotografie, quello che più mi interessa è entrare in contatto con la persona e fare in modo che si crei empatia, cercando così di tirare fuori quella vera ed emozionante umanità. E cerco di farlo sempre con estrema educazione e tanto rispetto, elementi chiave per entrare in contatto con l’anima delle persone. Spesso questa scintilla scocca con naturalezza e il risultato è inevitabilmente un successo”

In questi anni hai avuto la possibilità di lavorare con grandi artisti nazionali ed internazionali, e con alcuni hai collaborato diverse volte. Penso ad esempio a Francesco De Gregori che ti ha scelto per numerosi progetti, come è nato il feeling con lui?
“Il rapporto con Francesco non è nato proprio nel migliore dei modi, le mie parole dopo il nostro primo incontro sono state testuali: “questo signore non lo voglio più vedere”. Sono passati i mesi, ci siamo rivisti e sempre per “colpa” della mia testarda compagna Alice è scoccata la scintilla. L’ho seguito nel tour di “Sulla Strada” poche foto, mirate, mai invadenti, pensando sempre molto prima di scattare, un bell’esercizio per me. Poi c’è stata la copertina di Vivavoce, il libro fotografico “Guarda che non sono io” del quale ho curato anche tutto il restauro dell’archivio privato. Adesso, quando io e Francesco ci troviamo attorno ad un tavolo e pensiamo al nostro primo incontro/scontro ridiamo di gusto. Negli anni ci siamo conosciuti meglio e apprezzati e penso di aver contribuito, in minima parte, a farlo aprire un po’ di più alla fotografia e alla versione De Gregori 2.0 che ora conosciamo”

La tua “collezione” di artisti è già molto ricca ma c’è qualcuno che ti piacerebbe ritrarre oppure poter fotografare di nuovo?
Tutti i soggetti che passano davanti al mio obiettivo diventano immancabilmente persone con un posto speciale nel mio cuore, nessuno escluso, dal cantautore famoso alla massaia mia vicina di casa. Se proprio devo fare un nome dico Roger Waters soprattutto perché è un altro di quegli artisti molto schivi e questa cosa mi suscita molto interesse, amo le sfide!. Se devo dire invece chi mi piacerebbe fotografare di nuovo, tornerei a nominare De Gregori, perché con lui ogni occasione è davvero speciale, imparo sempre qualcosa in più, l’ultima volta siamo stati in Portogallo in mezzo ad una distesa di ancore ed ho mangiato il polpo più buono della mia vita in compagnia di persone speciali… una cosa meravigliosa!”.

Ti sei avvicinato alla fotografia in un momento di grande cambiamento con l’avvento del digitale e del “mobile”, a tuo avviso smartphone e social media come Instagram hanno interferito con il mondo della fotografia oppure ne hanno solo modificato alcune dinamiche convivendoci senza problemi?
“Io sono pro social, pro instagram, pro smartphone ma sono anche pro cultura che mi sembra invece stia latitando un po’ nel nostro Paese. Nello specifico, se avessimo un bagaglio di cultura dell’immagine sapremmo distinguere buone immagini da immagini meno buone così come si dovrebbe saper distinguere un buon film o un buon libro da contenuti senza nessun valore. Di sicuro questi nuovi mezzi hanno reso più semplice la partecipazione attiva legata a questo mondo. Facebook, ad esempio, conta una media di 350.000.000 foto postate ogni giorno, è facile capire che tutta questa massa di informazioni possa distrarre e far perdere di vista la qualità, la coerenza e lo stile di una fotografia. Sono una persona abbastanza “social”, cerco di aggiornare il più possibile le mie pagine e aggiornare i miei followers sulle mie attività in corso ma cerco di farlo sempre, sperando di riuscirci, con buoni contenuti”.

Ad oggi qual è la soddisfazione più grande che questo mestiere ti ha dato?
“Le soddisfazioni professionali sono proporzionali al percorso che un individuo fa durante la sua carriera, all’inizio sono poche e rare ma ti devi appigliare a qualsiasi minima cosa per trovare la forza di proseguire nella tua strada e non mollare.
Oggi, complice forse anche un po’ la stanchezza derivata dai molteplici impegni e “vittorie” degli ultimi mesi, mi va di dirti che la mia soddisfazione più grande, grazie anche alla presenza delle persone che mi sono sempre state vicine, sono io. Non lo dico assolutamente in senso autoreferenziale o egocentrico anzi, lo dico come stimolo per potere suggerire ad altre persone di credere in loro stessi senza cedere mai perché garantisco che non esistono scorciatoie: solo un percorso fatto di sacrificio e tanta, tantissima passione può portare a grandi risultati”

Su cosa lavorerai nei prossimi mesi?
“Non ne ho idea, come sempre. Ma non starò fermo”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 28 febbraio 2016)

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L’East End, l’Argentina e le vite fotografate da Erica Canepa

(@dettobene)

Nei giorni scorsi il Washington Post ha pubblicato alcune foto di Erica Canepa raccontando il suo progetto sull’East End londinese. Io aggiungo volentieri la chiacchierata fatta qualche mese fa con lei in occasione del suo ritorno a Sarzana. 

“Torno a casa sempre volentieri, un po’ per il mare e un po’ per la focaccia ma non solo, sto portando avanti da quattro anni anche un progetto di scatti personali”. Erica Canepa, fotografa molto attenta alle questioni sociali e alle differenze culturali e con un master in fotogiornalismo conseguito alla Westminster University, è rientrata a Sarzana da pochi giorni, nel luogo che conserva le sue radici ma dal quale negli anni è sempre ripartita alla volta di Argentina, Egitto, Sudafrica o Inghilterra, dove ha concentrato buona parte della sua attività, particolarmente influenzata da figure britanniche come Simon Norfolk, Leonie Hampton, Sander e dai sudafricani Pieter Hugo e Guy Tillim.

“Negli ultimi tempi sono stata a Londra – racconta a Cds – una fonte d’ispirazione continua ma anche un rifugio fra un lavoro e l’altro. Mio nonno era un pittore e i miei genitori fin da piccola mi hanno portata in giro per musei quindi ho sempre avuto un’attenzione particolare per l’arte visiva e sono da sempre affascinata da Caravaggio. Ho studiato restauro, mi sono diplomata poi sono stata presa per il master. In quel momento ho deciso di mettermi alla prova – prosegue – mi sono trasferita nella capitale britannica ed ho capito che la cosa poteva diventare reale. C’ho vissuto a lungo e lì sto cercando il materiale per il prossimo progetto”.
Altra tappa fondamentale del suo percorso personale e lavorativo è stata quella dello scambio interculturale con l’Argentina fra il 1998 e il 1999. “Ero in quarta liceo – ricorda – e quel viaggio mi ha fatto capire che avrei potuto camminare da sola per il mondo adattandomi alle varie culture e districandomi in luoghi che non erano quelli di casa. Un’esperienza fondamentale che ha acceso il mio interesse vero per le vite degli altri. In quei mesi si parlava pochissimo della dittatura (dal 1976 al 1983), io ne sapevo poco ma le persone erano restie a ricordare quei fatti. Proprio in quel periodo però si cominciò a parlare dei figli dei desaparecidos che erano stati presi e “adottati” dai militari, ragazzi cresciuti senza saperlo in famiglie che non erano le loro e complici dell’omicidio dei veri genitori”.
Qualche anno più tardi Erica è tornata a Buenos Aires trovando un ambiente molto diverso che le ha permesso di realizzare il reportage “The Remaining” fotografando i luoghi di detenzione e tortura degli oppositori del regime. “Quando è stato il momento di fare la tesi per il master – spiega – ho subito individuato questo tema come il più adatto così sono tornata per altri tre mesi. I centri di isolamento erano stati riscattati grazie al governo Kirchner e l’argomento non era più un tabù. Ero partita per concentrarmi sui figli ritrovati cercando le cicatrici della dittatura ma dopo alcuni giorni mi sono resa conto che quelle erano proprio nelle stanze, nelle luci e nei dettagli, nei luoghi che rappresentavano il vuoto di una generazione spazzata via dall’odio. Il progetto portava con sé anche dei ritratti ma non ne sono mai stata contenta anche se prima o poi tornerò per completare il percorso e chiudere quel periodo cercando un’altra angolazione”.

Dalle atrocità del regime di Videla a quelle domestiche che quotidianamente riguardano anche la nostra realtà di provincia. “Tornata dal Sudamerica – prosegue la fotografa che da pochi giorni ha pubblicato il suo nuovo sito ericacanepa.format.com – il tema della violenza è stato un filo conduttore che mi ha spinta a capirne di più sui centri antiviolenza che aiutano le donne. Mi sono recata a Genova dove sono stata accolta con grande interesse ed ammessa a partecipare ai colloqui con le ragazze le cui storie mi hanno riportata alle torture argentine. Ho visto le case rifugio nelle quali cercano di dare una svolta alla loro vita, un momento molto forte perché la difficoltà maggiore è proprio nel trovare il coraggio di denunciare le violenze subite affrontandole per la prima volta dopo averle accettate per anni”.
Un passaggio molto importante in un percorso che di recente ha portato Canepa anche in Sudafrica a Johannesburg, è stato quello in Egitto, vissuto in due occasioni fra il 2007, ben prima della “Primavera araba” e il 2014 dopo la rivoluzione. “La prima volta – afferma – ero andata per uno stage rimanendo per 4 mesi con una famiglia. I moti erano molto lontani e in quel periodo la gente non pensava ad un’alternativa a Mubarak mentre quando sono tornata sono andata a vedere cosa era rimasto rendendomi conto che la rivoluzione non aveva cambiato molto. Mi aspettavo un Egitto nuovo e più fresco ed invece era tornato a stagnare come durante il regime. Ho trovato una generazione di trentenni depressi che vivevano come un fallimento l’aver versato molto sangue inutilmente ed ho avvertito un paese ostile nei confronti degli stranieri occidentali, un sentimento dovuto anche alla grande attenzione mediatica che la zona aveva avuto durante le rivolte”.
Ovviamente in questi anni il suo lavoro si è concentrato anche sul nostro territorio ed in particolare sulle ultime alluvioni e sui veleni di Pitelli dove Erica ha svolto un reportage con Antonio Musella. “Non mi ero mai occupata della mia terra – rivela – ed è stato un po’ forte perché non c’era la distanza che ho sempre trovato in un mondo che non era il mio. Purtroppo però fatico a rimanere a lungo nello stesso posto, sento il bisogno di muovermi ed andare a vedere cosa succede altrove. Spesso – conclude – mi sento anche un po’ presa in giro per come vengono affrontati i problemi qui, da Pitelli alle tante discariche: ho mangiato muscoli per una vita per poi scoprire che provenivano da uno dei luoghi più inquinati”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 30 maggio 2015)

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