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Il concerto di Manu Chao a Sarzana

di Benedetto Marchese

“Ciao Sarzana, è bello essere qui cento anni dopo la resistenza contro il fascismo”. Manu Chao si è preso così Piazza Matteotti, ancora prima di attaccare il primo pezzo, ricordando i fatti del 21 Luglio 1921 appena celebrati da una città che questa sera ha vissuto uno di quegli eventi che valgono una stagione intera.
Con una piazza gremita – nei limiti di quanto concesso dalle norme – le persone alle finestre, i locali pieni e la gente assiepata anche nelle vie limitrofe. Ma soprattutto con un’atmosfera carica di attesa ed entusiasmo che non si respirava da tanto tempo, periodo pre covid incluso.
Merito del neo sessantenne cittadino del mondo, riapparso in Italia per il ventennale del G8 e invitato a chiudere con un sold out da ricordare la terza edizione di Moonland, festival che in una settimana ha rimesso Sarzana al centro dell’attenzione del pubblico dei concerti. Un carisma intatto il suo, capace di riportare tutti indietro alla spensieratezza ma anche alle ferite di inizio Millennio.
Ricordi più che nostalgia, ed emozioni da trasmettere ai figli che tanti hanno voluto con loro per vedere dal vivo l’iconico inventore della patchanka, capace di trascinare tutti per oltre due ore anche in versione acustica, accompagnato da Luciano Falico alla chitarra e Mauro Mancebo alle percussioni, con l’aggiunta in alcuni brani del trombettista spezzino Andrea Paganetto, ingaggiato all’ultimo minuto.

Una platea carica fin dai primi minuti ma che si infiamma quando Manu attacca “La vida tombola” dedicata a Diego Armando Maradona e subito dopo “Mr.Bobby” per Marley a cui dedica anche “Iron, lion, Zion”.
Con l’immancabile tema di Pinocchio a scandire ogni pezzo la scaletta passa in rassegna tutti i brani più famosi e coinvolgenti come “Malavita”, “King of the bongo” e gli altri di “Clandestino”, album che segnò un’epoca conquistando anche le classifiche.
Con la gente ormai tutta in piedi da un po’ sventolano in prima fila le bandiere di Palestina e Paesi Baschi, magliette dell’Argentina e del Boca Juniors, mentre sul palco Manu Chao suona con con un fazzoletto partigiano adagiato vicino alla chitarra. Un coro in ricordo di Carlo Giuliani diventa così una dedica che precede “Como que no”, mentre dopo l’ennesimo saluto il cantante torna sulle note di Bella ciao per regalare l’ultima “Licor Cafè” ad una piazza entusiasta ed emozionata per la grande serata vissuta.
“Grazie Sarzana antifascista” saluta definitivamente Manu Chao, dando la sensazione di poter continuare senza problemi fino a notte fonda, con lo stesso sorriso e la voglia di regalare canzoni alla sua gente, testimone di un concerto storico.

(Pubblicato su Cittadellaspezia il 26 Luglio 2021)

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Da Gabbani a De Gregori, storie e ritratti di Daniele Barraco

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(@dettobene)

Dalla musica al cinema l’immagine ha da sempre un ruolo fondamentale per identificare la copertina di un album o per esprimere la personalità di un attore o di un cantante. Molte fra quelle che capita di vedere su riviste come Venerdì di Repubblica, Sportweek, Rolling Stone, Wired o Sette del Corriere della Sera, portano la firma di Daniele Barraco. Fotografo sarzanese classe 1980, dopo aver riposto le bacchette della batteria suonata per anni con ottimi risultati, si è avvicinato alla fotografia imponendosi in breve tempo a livello nazionale come uno dei più richiesti ed affermati nel mondo dello spettacolo. Davanti al suo obiettivo hanno posato personaggi come John Malkovich, Iggy Pop, Christopher Walken e Pierfrancesco Favino, ma anche Luciano Ligabue, Malika Ayane o gli abitanti di Ameglia dove vive con la compagna e foodblogger Alice Lombardi. Fra i soggetti più recenti ha immortalato i vincitori dell’ultimo Festival, gli Stadio e Francesco Gabbani, curando le copertine dei rispettivi album con lo stile e il talento che gli hanno permesso di ritagliarsi uno spazio molto importante nel settore grazie ad un percorso che Daniele Barraco mi ha raccontato per CdS.

Recentemente hai collaborato con Daniele Silvestri il cui nuovo album è uscito nei giorni scorsi, la vittoria a Sanremo di Francesco Gabbani ha dato ulteriore visibilità alle tue foto e un marchio importante del settore come Hasselblad ti ha da poco scelto come ambasciatore per l’Italia. Come stai vivendo questo bel momento?
“E’ davvero un bel periodo, sicuramente intenso, ma queste grandi soddisfazioni ti alleggeriscono la fatica fisica e ti danno una carica emotiva non indifferente. Ho conosciuto Daniele Silvestri grazie alle nostre reciproche compagne (che sono amiche da decenni), è un artista che ha influenzato il mio percorso musicale quando ero ancora un musicista e scattare recentemente con lui è stato fantastico. Poi c’è Hasselblad, che uso da parecchi anni ed è per me uno strumento insostituibile. All’inizio della mia carriera, di tanto in tanto, finivo sul sito dell’azienda e fantasticavo pensando che un giorno avrei avuto una di quelle macchine tra le mani, ora ne sono diventato ambassador, il sogno è diventato realtà. E infine Francesco Gabbani, un amico fraterno. Francesco è stato una delle mie prime “cavie fotografiche”, siamo cresciuti artisticamente insieme cercando di aiutarci vicendevolmente e supportandoci (ma talvolta anche sopportandoci) l’un l’altro, per me era normale che Francesco si affermasse, doveva solo arrivare il momento giusto. La sera della sua proclamazione come vincitore tra le nuove proposte del Festival, ero in auto, accostato sul ciglio di una strada romana, stavo rientrando da un lavoro e così per non perderlo mi sono fermato ed io e la mia compagna Alice abbiamo seguito le ultime fasi vedendo Sanremo in streaming sul cellulare. Dopo la sua proclamazione abbiamo pianto di gioia, la sua vittoria è un vero e legittimo punto di partenza per una carriera importante che si merita davvero”

Per lui ti sei cimentato anche con la regia per il singolo di “Amen” e con ottimi risultati visto che il video ha già passato un milione e 300mila visualizzazioni. Come ti sei trovato con questa nuova esperienza? Pensi di ripeterla?
“E’ tutta colpa di Francesco, è stato lui, parecchi anni fa, a tirare fuori il potenziale registico in me, ci siamo divertiti a sperimentare. Il primissimo video l’ho fatto con lui ed è un videoclip di un suo vecchio brano, abbiamo portato un pianoforte a coda in mezzo ad un bosco. Oggi siamo arrivati ad Amen che ci sta portando grandi soddisfazioni con i numerosissimi consensi. I primi ad emozionarci siamo stati noi, nel girarlo e nel vederlo montato la prima volta. E’ l’ennesima dimostrazione che è necessario metterci dei sentimenti per poter emozionare gli altri. Quindi si, la ripeterò sicuramente, anzi ormai vedo la fotografia e la regia come due cose strettamente legate, quando scatto penso anche alla regia, quando filmo penso alla fotografia, è inevitabile”

Sei ormai un fotografo affermatissimo con un portfolio ricco di nomi di primo piano, ma quando hai deciso di passare dalla musica alla fotografia e quanto le tue esperienze acquisite in quell’ambito ti sono servite per sviluppare la tua nuova attività?
“Non mi sento e non mi vedo come un fotografo affermatissimo, piuttosto penso a me come ad un artigiano che lavora con grande passione, che tenta ogni giorno di superare i propri limiti, di soddisfare la propria curiosità, di conoscere persone e mezzi che gli permettano di potersi esprimere al meglio.
E’ proprio dall’esigenza espressiva che ad un certo punto la mia carriera da musicista si è interrotta, vuoi un po’ la frustrazione provata in un Paese che fa di tutto per ostacolare le arti e in particolar modo la musica, vuoi perché mi sentivo un po’ oppresso da quel mondo lì, ho deciso di fare un cambio inaspettato, E’ stata la mia compagna Alice ad averci visto lungo spingendomi in questa direzione, senza di lei io non esisterei come fotografo. Le esperienze si miscelano, ci si influenza a vicenda, ci si scambiano paure e incertezze e, nella migliore delle ipotesi, si esce cresciuti”

Cosa ti ha portato a concentrarti principalmente sui ritratti e cosa cerchi nei tuoi soggetti per stabilire l’empatia necessaria?
“Avevo iniziato fotografando oggetti inanimati, still-life, ma ho capito che mi mancava l’interazione con il soggetto.
Nasco molto timido, cresco abbastanza timido, maturo espansivo e sicuramente invecchierò animatore da villaggio turistico. La fotografia per me è una terapia contro la timidezza e il dover “affrontare” ogni volta persone nuove, è stata una sfida per aprire il mio carattere di base piuttosto introverso. Col passare degli anni ho capito che il materiale umano è la cosa più interessante, al di là delle fotografie, quello che più mi interessa è entrare in contatto con la persona e fare in modo che si crei empatia, cercando così di tirare fuori quella vera ed emozionante umanità. E cerco di farlo sempre con estrema educazione e tanto rispetto, elementi chiave per entrare in contatto con l’anima delle persone. Spesso questa scintilla scocca con naturalezza e il risultato è inevitabilmente un successo”

In questi anni hai avuto la possibilità di lavorare con grandi artisti nazionali ed internazionali, e con alcuni hai collaborato diverse volte. Penso ad esempio a Francesco De Gregori che ti ha scelto per numerosi progetti, come è nato il feeling con lui?
“Il rapporto con Francesco non è nato proprio nel migliore dei modi, le mie parole dopo il nostro primo incontro sono state testuali: “questo signore non lo voglio più vedere”. Sono passati i mesi, ci siamo rivisti e sempre per “colpa” della mia testarda compagna Alice è scoccata la scintilla. L’ho seguito nel tour di “Sulla Strada” poche foto, mirate, mai invadenti, pensando sempre molto prima di scattare, un bell’esercizio per me. Poi c’è stata la copertina di Vivavoce, il libro fotografico “Guarda che non sono io” del quale ho curato anche tutto il restauro dell’archivio privato. Adesso, quando io e Francesco ci troviamo attorno ad un tavolo e pensiamo al nostro primo incontro/scontro ridiamo di gusto. Negli anni ci siamo conosciuti meglio e apprezzati e penso di aver contribuito, in minima parte, a farlo aprire un po’ di più alla fotografia e alla versione De Gregori 2.0 che ora conosciamo”

La tua “collezione” di artisti è già molto ricca ma c’è qualcuno che ti piacerebbe ritrarre oppure poter fotografare di nuovo?
Tutti i soggetti che passano davanti al mio obiettivo diventano immancabilmente persone con un posto speciale nel mio cuore, nessuno escluso, dal cantautore famoso alla massaia mia vicina di casa. Se proprio devo fare un nome dico Roger Waters soprattutto perché è un altro di quegli artisti molto schivi e questa cosa mi suscita molto interesse, amo le sfide!. Se devo dire invece chi mi piacerebbe fotografare di nuovo, tornerei a nominare De Gregori, perché con lui ogni occasione è davvero speciale, imparo sempre qualcosa in più, l’ultima volta siamo stati in Portogallo in mezzo ad una distesa di ancore ed ho mangiato il polpo più buono della mia vita in compagnia di persone speciali… una cosa meravigliosa!”.

Ti sei avvicinato alla fotografia in un momento di grande cambiamento con l’avvento del digitale e del “mobile”, a tuo avviso smartphone e social media come Instagram hanno interferito con il mondo della fotografia oppure ne hanno solo modificato alcune dinamiche convivendoci senza problemi?
“Io sono pro social, pro instagram, pro smartphone ma sono anche pro cultura che mi sembra invece stia latitando un po’ nel nostro Paese. Nello specifico, se avessimo un bagaglio di cultura dell’immagine sapremmo distinguere buone immagini da immagini meno buone così come si dovrebbe saper distinguere un buon film o un buon libro da contenuti senza nessun valore. Di sicuro questi nuovi mezzi hanno reso più semplice la partecipazione attiva legata a questo mondo. Facebook, ad esempio, conta una media di 350.000.000 foto postate ogni giorno, è facile capire che tutta questa massa di informazioni possa distrarre e far perdere di vista la qualità, la coerenza e lo stile di una fotografia. Sono una persona abbastanza “social”, cerco di aggiornare il più possibile le mie pagine e aggiornare i miei followers sulle mie attività in corso ma cerco di farlo sempre, sperando di riuscirci, con buoni contenuti”.

Ad oggi qual è la soddisfazione più grande che questo mestiere ti ha dato?
“Le soddisfazioni professionali sono proporzionali al percorso che un individuo fa durante la sua carriera, all’inizio sono poche e rare ma ti devi appigliare a qualsiasi minima cosa per trovare la forza di proseguire nella tua strada e non mollare.
Oggi, complice forse anche un po’ la stanchezza derivata dai molteplici impegni e “vittorie” degli ultimi mesi, mi va di dirti che la mia soddisfazione più grande, grazie anche alla presenza delle persone che mi sono sempre state vicine, sono io. Non lo dico assolutamente in senso autoreferenziale o egocentrico anzi, lo dico come stimolo per potere suggerire ad altre persone di credere in loro stessi senza cedere mai perché garantisco che non esistono scorciatoie: solo un percorso fatto di sacrificio e tanta, tantissima passione può portare a grandi risultati”

Su cosa lavorerai nei prossimi mesi?
“Non ne ho idea, come sempre. Ma non starò fermo”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 28 febbraio 2016)

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Pasolini e i Partigiani di Sarzana

12 dicembre

(@dettobene)

Fra l’intervista alla vedova Pinelli, la rivolta di Reggio Calabria e i morti delle cave di Carrara c’è anche un po’ di Sarzana con lo scontento degli ex partigiani “traditi” dalle scelte e dalle decisioni del Partito Comunista nel Dopoguerra. Ritratti della realtà operaia e politica dell’Italia poco dopo la strage di Bologna e la misteriosa morte dell’anarchico milanese, inseriti da Pier Paolo Pasolini nel documentario “12 dicembre” realizzato con Lotta Continua e pubblicato nel 1972. Una collaborazione quella fra l’intellettuale di cui oggi ricorre il quarantesimo anniversario della morte e il collettivo extraparlamentare, che per quanto inizialmente inattesa portò invece alla composizione di un viaggio politico e sociale in un periodo storico caratterizzato da tensioni, lotte operaie, povertà e appunto il malcontento di alcuni ex combattenti “traditi” dopo la Resistenza.

Sul documento recentemente restaurato è stata ormai chiarita anche la chiara paternità di Pasolini grazie al ritrovamento di una registrazione, riportata anche dal Centro Studi di Casarsa della Delizia, nella quale lui stesso spiega: “C’ho lavorato, l’ho montato io, ho scelto io le interviste ma non ho messo la regia, perché gli avvocati che l’hanno visto mi hanno detto che era pericolosissimo, che mi avrebbero messo in prigione. E allora abbiamo trovato una formula per cui il mio nome ci fosse, perché chi voleva capire capisse, ma formalmente non potessero procedere contro di me. Io ho girato circa un sessanta per cento, ma l’ho montato tutto io. Però – e questo è il punto – non ci ho messo la mia ideologia. Da una parte ho messo quella che è la realtà, dall’altra ho fatto dire le loro idee a questi di Lotta Continua”.
Nei crediti iniziali si legge infatti “da un’idea di Pier Paolo Pasolini” mentre soggetto e sceneggiatura sono attribuiti a Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi anche se come detto lo scrittore e regista girò in prima persone alcune sequenze.

La parte sarzanese venne invece affidata a Mario Schifano, altro protagonista di primissimo piano della cultura italiana dagli anni Sessanta in avanti. Straordinario pittore (ma anche regista) che fu a lungo sostenitore e finanziatore di Lotta Continua e che Sarzana girò la scena in un’osteria di via della Pace gestita allora da un certo Bastian. Pochi minuti che davanti al bancone riprendono seduti attorno ad un tavolo un giovane Andrea Ranieri, che in merito “a Stato e partiti che non riescono a mettere nell’illegalità il fascismo” replica con una battuta sullo “Stato che è fascista”, e i partigiani Ernesto Parducci, “Martin” Isoppo e Magnolia detto “Gas”, oggi tutti scomparsi.
“Quando siamo andati ai monti eravamo un nucleo di gente pura che lottava per un ideale – dicono gli ormai ex combattenti – volevamo realmente cambiare la situazione ma è stato un inganno, una truffa. Hanno venduto quello che era il movimento partigiano”.

Una frustrazione per quello che non è stato dopo una stagione di lotta sanguinosa anche in Val di Magra, ben spiegato anche da Martin: “Quando tornai a casa nel maggio del 1945 mi dissero “cerchiamo di fare l’Italia con un altro sistema democratico e avanzato, con le riforme, senza tirrania o monarchia. Ma le cose non erano cambiate – osserva – cominciavano le lotte, gli scioperi, cominciavano di nuovo a sparare, mi dicevo “che Repubblica abbiamo fatto quando ci sono morti, la polizia che spara e Togliatti che concede l’amnistia ai fascisti?”. Che Repubblica abbiamo fatto, dicevo fra me e me, ma loro mi rispondevano: “Un passo alla volta, un passo alla volta, un passo alla volta”. Passi che sono sempre stati fatti nello stesso posto, tanto che per conto mio dove il Partito Comunista mi diceva di fare quei passi c’è un buco di due metri”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 2 novembre 2015)

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Tracce di street art a Sarzana

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(@dettobene)

Nata come espressione artistica prevalentemente urbana la street art da qualche anno è ormai uscita dai centri e dalle periferie delle grandi città diventando pratica diffusa un po’ ovunque. Anche a Sarzana, dove nei mesi scorsi ne sono apparse tracce inequivocabili come gli omaggi al “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich e alle vittime di “Charlie Hebdo” su alcuni muri del Parentucelli o le scritte “Do it” sulle strisce pedonali di Piazza Ricchetti fino alla particolare coppia di innamorati su una centralina Enel di Sarzanello. Graffiti e stencil che portano la firma di “untitled_” , gruppo che qui racconta la propria attività.

Quando avete iniziato e come vi siete avvicinati alla street art?
“Il progetto Untitled_ è iniziato circa un anno fa. Spinti dalla curiosità e dalla passione per le opere di autori come BluBlu e in parte (soprattutto per gli stencil) da Banksy abbiamo deciso di esprimerci così. Il nostro è un collettivo aperto e non ha un numero preciso di membri, c’è un ricambio continuo con ragazze e ragazzi che ci danno un mano. Abbiamo un’età media di vent’anni e abbiamo scelto di restare anonimi perché vogliamo essere giudicati in base alle cose che facciamo, i nostri pezzi possono piacere o meno ma questo non deve dipendere da chi li realizza, non importa chi c’è dietro ma quello che comunicano. Nella società dell’immagine non rifiutiamo proprio quest’ultima perché per noi questa è una passione e non un lavoro, cerchiamo solo di esprimere quello che pensiamo e che ci piace”

Cosa influenza i vostri lavori e cosa volete comunicare?
“Le ispirazioni arrivano dalle nostre passioni, dall’arte ai fumetti e alla letteratura. A questo aggiungiamo magari un significato più originale e nostro. L’obiettivo è quello di trasmettere qualcosa alle persone che camminano per strada e s’imbattono nelle nostre cose, suscitare sentimenti ed emozioni, far sorridere o riflettere uno sconosciuto che magari ha visto quel muro grigio mille altre volte. Non pensiamo di fare vere e proprie “opere”, ci fa piacere che siano gli osservatori a trovare un significato che può variare in base alle esperienze di ciascuno. L’ultimo lavoro con i due scheletri abbracciati davanti all’esplosione è piaciuto molto e siamo contenti. Per noi può essere l’amore che resiste anche di fronte alle guerre, per altri ad esempio potrebbe rappresentare il ricordo delle troppe persone morte nei vari conflitti e delle quali è rimasto un ricordo”.

Come scegliete i luoghi sui quali dipingere? In molte città le stesse amministrazioni affidano a street artists la riqualificazione di alcune aree, voi accettereste?
“Scegliamo muri in disuso o pareti che a nostro parere potrebbero essere migliorate con qualche graffito, per nessuna ragione al mondo sceglieremmo facciate o spazi di interesse storico o artistico. Tuttavia soprattutto in centro ci sarebbero molte pareti male intonacate o coperte da scritte orribili che potrebbero essere abbellite con qualche pezzo. Noi non le prendiamo in considerazione perché sono dei privati e perché ci dispiacerebbe vederli coperti in seguito dopo aver speso tempo e denaro per crearli. Il Comune potrebbe concedere alcuni spazi, non solo a noi ma in generale a chiunque voglia esprimersi tramite questa forma d’arte. Nel caso però questi graffiti dovrebbero essere tutelati impedendo che vengano rovinati subito dopo dalle brutte tante scritte che ci sono anche su molti muri del centro storico”

Non mancano purtroppo i casi di artisti come Alice Pasquini o altri denunciati proprio dopo aver realizzato dei graffiti alla luce del sole
“Purtroppo si commette l’errore di associare l’arte ad atti vandalici che nulla hanno a che vedere. La street art non è vandalismo e soprattutto in Italia molti dovrebbero iniziare a capirlo. Scrivere insulti con una bomboletta sul muro di una chiesa o del comune è sbagliato e non è quello che facciamo. Per noi è passione ed espressione di idee e sentimenti che altrimenti rimarrebbero sconosciuti ai più. La street art è sacrificio e spesso comporta anche dei rischi, anche legali”.

Il successo planetario di Banksy, Mr.Brainwash e tanti nel corso degli anni ha cambiato anche alcune dinamiche del fenomeno, molte opere dalla strada sono entrate nelle gallerie d’arte e nelle case dei collezionisti, voi cosa ne pensate?
“Crediamo che questa cosa debba restare legata alla strada. Quando entra in museo viene snaturata diventando arte contemporanea. Troviamo sbagliato che uno debba pagare per ammirare una cosa pensata e sviluppata per stare in strada dove tutti la possono vedere. Per noi, che non pensiamo di essere artisti, è una differenza molto importante, siamo studenti e le uniche cose che abbiamo fatto su commissione sono state vendute per finanziare quello che facciamo in strada”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 15 ottobre 2015)

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Incontro con una madre di Plaza de Mayo

Lapide per i desaparecidos (foto Benedetto Marchese)

(@dettobene)

“Le vendette non servono, quello che chiedo è che non ci sia mai più silenzio, perché la cosa peggiore che abbiamo dovuto soffrire è stato il silenzio della stampa, della Chiesa, di tutti i complici delle persecuzioni. Di fronte a guerre e genocidi dovete parlare, senza mai essere indifferenti o guardare altrove”. E’ stato un messaggio molto significativo quello lasciato  agli studenti di tre classi del Parentucelli da Vera Vigevani Jarach, rappresentante delle “Madri di Plaza de Mayo” ospite di “Incontrare la memoria”, appuntamento autunnale del Festival Sconfinando tenutosi nella sala consiliare di Sarzana. Testimone diretta del dramma dei desaparecidos durante il regime di Videla ha infatti raccontato la propria esperienza nei fatti che fra il 1976 ed il 1983 segnarono una profonda ferita nell’Argentina che vide sparire nel nulla, dopo torture ed umiliazioni, più di 30mila dissidenti la maggior parte dei quali giovanissimi.
Accolta da Carmen Bertacchi, direttrice artistica della manifestazione che si è spesso occupata anche di minoranze e solidarietà e da Patrizia Rossi e Rossana Pittiglio in rappresentanza dell’amministrazione e del consiglio comunale, Vera Vigevani è stata accompagnata da Daniele Zuffanti dell’associazione “24 marzo” e introdotta da Gerardo Victorio Giffuni, insegnante venezuelano del linguistico “Manzoni” di Milano il quale ha sottolineato: “Sono grato a Sarzana per come ha aperto le porte a queste tematiche, prima con lo spettacolo “Los Justos” e oggi incontrando una grande testimone della storia di due continenti”.
“La parola “sconfinare” mi piace moltissimo – ha esordito la minuta e tenace ospite – perché è fondamentale andare oltre i confini ed i limiti, avvicinarsi e discutere. Le parole hanno un valore e di questi tempi si cita spesso la “tolleranza” ma noi non dobbiamo tollerare, dobbiamo rispettare, perché anche quello dei migranti è un genocidio che riguarda persone che hanno bisogno di solidarietà ed accoglienza. Come avvenuto in Argentina dove gli emigranti furono accolti e fatti integrare”.
Accade anche a lei e alla sua famiglia di origine ebraica quando nel 1938 all’età di dieci anni raggiunse il paese Sudamerica in seguito alle leggi razziali. “Sono andata via dall’Italia per sfuggire al nazismo – ha raccontato – mio nonno è finito ad Auschwitz e come mia figlia non ha avuto una tomba, solo vent’anni dopo ho scoperto che anche lei è passata da un campo di concentramento (il famigerato “Esma” di Buenos Aires) prima di sparire su un volo della morte. Il passato è importantissimo – ha detto rivolgendosi agli studenti che l’hanno seguita con grande attenzione – ma bisogna guardare avanti perché è necessario conoscere i fatti per evitare che certe cose si ripetano. Cercate sempre di capire e di non fermare testa e gambe, anch’io finché potrò girerò con questo fazzoletto”.

Il pezzo di stoffa bianco annodato sotto il collo è infatti il simbolo delle mamme e delle nonne che affrontarono pacificamente il regime sfilando in Plaza de Mayo. Ognuno porta il nome di una persona scomparsa, nel caso di Vera Vigevani quello di Franca, svanita nel nulla a soli 18 anni. “Il colpo di stato del 1976, nel 24 marzo come l’eccidio della Fosse Ardeatine, avviò l’ultima di sei dittature, quella “civico militare” sostenuta dai poteri forti con lo scopo di evitare quei cambiamenti che avrebbero potuto portare ad una giustizia sociale per tutti. Da quel giorno tutto si intensificò e visto che fra genitori ci conoscevamo decidemmo di riunirci in piazza, da sempre luogo di contatto fra il popolo e chi lo governa. C’era lo statoo di assedio e non si poteva stare ferme in gruppo così camminavamo senza fermarci, avevamo paura ma stavamo lì mentre i mariti ci guardavano da lontano per non correre il rischio di essere portati via, sorte toccata a tre di noi e ad una suora che erano state sequestrate, torturate ed uccise. Erano trattate un po’ meglio solo le donne incinte i cui figli venivano poi dati alle famiglie dei militari. Le abuelas, le nonne, ebbero invece il compito prezioso di preservare l’identità delle famiglie ed evitare che i bambini crescessero con gli assassini dei loro genitori. Chi sopravvive diventa fondamentale. Ci definivano “le locas”, le pazze – ha proseguito – ma volevamo solo sapere dove erano finiti i nostri figli. L’idea dei fazzoletti bianchi o dei pannolini di stoffa dei neonati sulla testa nacque durante una marcia, per distinguerci ma anche per ricordare i nomi dei nostri ragazzi che la dittatura voleva cancellare. Dopo i fazzoletti vennero le foto con i loro volti per creare una resistenza esclusivamente pacifica. In Argentina nessuno si è fatto giustizia con le proprie mani”.
Ex giornalista dell’Ansa e memoria storica di quei giorni, Vigevani Jarach ha ricordato anche collaboratori e colpevoli di quel regime: “L’ambasciatore italiano Enrico Carrara chiudeva tutte le porte, si mandavano le notizie ma non arrivava nulla, solo il Corriere della Sera iniziò a pubblicare qualcosa interrompendo questa censura. Tutti mi chiedono del comportamento della Chiesa: quella del popolo era con noi, quella dei prelati e del Vaticano è sempre rimasta in silenzio, il nunzio apostolico ci diceva “poverette” ma noi volevamo azione non compassione. Solo il presidente Sandro Pertini – ha affermato – ruppe il silenzio dichiarando “io sono indignato per quanto sta succedendo in Argentina per i nostri connazionali”. C’è sempre chi mi parla di ‘obbedienza dovuta’ ma questa non è e non era obbligatoria, anche Priebke, che a Bariloche ha fatto una vita normale da cittadino comune, si è sempre difeso dicendo “ho ubbidito agli ordini” nonostante abbia commesso altri crimini oltre al noto eccidio di Roma. Preferisco ricordare ‘i giusti’, quelli che si sono adoperati per gli altri come il Console Enrico Calami (detto anche “lo Schindler di Buenos Aires”) o i cittadini di Nonantola che salvarono molti adolescenti ebrei”.
Nel corso della mattinata, in cui sono stati citati anche genocidi come quello armeno le drammatiche situazioni attuali di Venezuela o Messico, è emerso anche il legame diretto fra l’Argentina di allora e Sarzana dove fra il ’76 ed il ’78 trovarono rifugio molti esuli con le loro famiglie. Un episodio di solidarietà e generosità tuttora ricordato da una targa nel centro cittadino.  “Unitevi e pensate in gruppo – ha poi concluso Vera Vigevani Jarach parlando agli studenti – affidatevi all’amicizia e alla fratellanza e impegnatevi con la ragione per cambiare le cose”.

Vera Vigevani Jarach a Sarzana

(pubblicato su Cittadellaspezia il 12 ottobre 2015)

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Libera in goal: L’égalité in trasferta a Scampia

L'égalité in trasferta a Scampia

(@dettobene)

“Napoli non è solo Gomorra, a Scampia abbiamo trovato una solidissima cultura della legalità e le persone incontrate ci hanno lasciato valori importantissimi”. Inizia da questa considerazione il racconto di Ilenia Morachioli – presidente dell’associazione L’égalité di Sarzana – dei quattro giorni vissuti con gli altri compagni di viaggio nel quartiere partenopeo tristemente noto per i fatti di cronaca legati alla camorra. L’associazione, nata dal presidio cittadino di Libera “Dario Capolicchio” e affidataria dal Comune del bene confiscato di via Landinelli, ha infatti anche una squadra di calcio a 7 iscritta al campionato Uisp Val di Magra che per il secondo anno consecutivo ha preso parte al torneo “Libera in goal” organizzato proprio a Scampia. “Ci siamo classificati decimi su tredici squadre partecipanti – sottolinea sorridendo – un risultato non entusiasmante ma il calcio è stato solo un pretesto per portare il nostro contributo in una manifestazione di grande impegno e riscatto sociale che ha dato modo, soprattutto a chi non c’era l’anno scorso, di conoscere una realtà che dopo il forte impatto iniziale, si rivela in tutta la sua complessità ma anche nella forza delle persone che la vivono quotidianamente in modo diverso dagli stereotipi proposti da media e tv”.
La comitiva di giocatori e accompagnatori (tutti di età compresa dai 17 ai 29 anni) e completata da Gabriele Bellè, Johan Gritti, Carmine Napoletano, Benedetta Valletta, Marco Lorenzo Baruzzo, Paolo Rissicini Alessio Vargiù, Enzo Alfarano e Francesco Baruzzo, è partita all’alba di giovedì dalla stazione di Sarzana dove ha fatto ritorno lunedì sera.
“Arrivando noti subito le strutture pubbliche dissestate e il degrado di un luogo apparentemente spopolato nonostante i palazzoni immensi – prosegue – poi però vedi anche il grosso cartello con la scritta “Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia”. Ecco, noi quel bene lo abbiamo trovato incontrando gli organizzatori dell’iniziativa che ci hanno condotto nella Scuola Calcio Arci, luogo colorato ed accogliente, pieno di bambini, adolescenti e genitori e dove abbiamo soggiornato in campeggio”.

Giunto alla sua quarta edizione il torneo è stato organizzato da RIME di Trieste (Responsabilità Impegno Memoria Educazione) e da Vo.di.Ca, acronimo dell’associazione di promozione culturale Voci di Scampia, e come sempre dedicato alla memoria di Antonio Landieri, ragazzo disabile ucciso per sbaglio il 6 novembre 2004 in un agguato ai “Sette Palazzi”. “La sua è una storia terribile – spiega Morachioli – visto che essendo stato scambiato per un affiliato ai clan era stato seppellito senza nemmeno un funerale. Solo l’anno scorso ne è stata accertata l’estraneità e la famiglia ha potuto svolgere una cerimonia pubblica. Tutto viene fatto in sua memoria e nei giorni del torneo abbiamo potuto conoscere i suoi genitori, persone dalla forza straordinaria che sono state sempre con noi e i ragazzi delle altre squadre provenienti da tutta Italia”.
Oltre alle partite e ad una visita nell’affascinante centro di Napoli i giovani della squadra sarzanese (unica rappresentante della Liguria) hanno avuto modo di confrontarsi anche con altre realtà dell’associazionismo che operano a Scampia. “Abbiamo conosciuto le mamme che ogni giorno portano i figli ai campi di calcio e sono coinvolte in altre iniziative extracalcistiche, e i membri dell’associazione “Chi rom ..e chi no” che si occupa dell’integrazione della comunità rom; i Pollici verdi e il Gruppo Gridas fondato da Felice Pignataro e che dagli anni Ottanta promuove l’arte tramite murales e il Carnevale di Scampia. Con “Resistenza Anti Camorra” – spiega poi Ilenia – abbiamo invece visitato una parte dell’immensa ex scuola chiusa per le poche iscrizioni e divenuta una centrale dello spaccio che loro nel tempo hanno in parte ripulito dal tappeto di siringhe che si era formato. Alcuni spazi recuperati ed intitolati a Gelsomina Verde, altra vittima estranea alla camorra, vengono ora usati per finalità sociali”.

Un contatto diretto dunque con un contesto lontanissimo dalla quotidianità della Val di Magra, utile anche in vista della prossimo avvio del progetto “Quarto piano” nell’appartamento confiscato in via Landinelli dove L’ègalitè sta creando un luogo di cultura, formazione e legalità. “L’esperienza è stata bellissima – afferma ancora Ilenia – tornare a casa non è stato facile proprio per la quantità di emozioni e sensazioni che quei luoghi hanno saputo trasmetterci. Abbiamo trovato una realtà complessa e abbiamo compreso il disagio vissuto dagli abitanti per l’immagine che viene raccontata di Scampia come ‘Gomorra’. L’impegno di queste associazioni permette di guardare oltre certi fatti verificatisi anche nei giorni scorsi, comunica motivazioni e voglia di fare anche in un contesto che non nasconde le proprie difficoltà. Grazie al calcio e a “Libera in goal” abbiamo trascorso tempo libero e momenti di approfondimento con altri ragazzi che come noi portano avanti certi valori perché in tutta Italia si parla di beni confiscati ma è importante uscire dal proprio territorio per vedere cosa succede altrove. Nell’Arci della scuola calcio ad esempio si fanno cose di una grandissima valenza sociale, inoltre abbiamo illustrato il nostro progetto del “Quarto Piano” raccogliendo ottimi riscontri e la promessa di visite a Sarzana. Nel frattempo – conclude – continuiamo a lavorare per ultimare gli interventi in vista dell’apertura e a preparaci per il campionato di calcio che riprenderà ad ottobre con base al campo sportivo di Canale a Castelnuovo Magra”.

(pubblicato su Cittadellaspezia l’8 settembre 2015)

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Mentina e ParallelaMente: c’è vita oltre il Festival

Festival della Mente 2015

(@dettobene)

“Il Festival della Mente? Bello ma una volta finito non resta nulla”. Di anno in anno questa considerazione si è sempre affermata come una delle più gettonate e realistiche sulla manifestazione che si è chiusa ieri a Sarzana dopo un’altra edizione baciata dalla presenza di migliaia di persone ma anche dal sole, visto che alla vigilia le previsioni meteo avevano costretto gli organizzatori ad allestire un efficiente piano b in caso di pioggia. I tre giorni della cultura sono invece filati via senza intoppi macroscopici accontentando tutti: dal Comune alla Fondazione Carispezia, fino a commercianti, pubblico e relatori – questi ultimi sempre piacevolmente sorpresi dall’attenzione che viene rivolta loro – ma registrando anche la crescita dei due eventi collaterali.
Da venerdì pomeriggio a ieri sera le strade cittadine hanno vissuto tutte le situazioni più tipiche: corse e code davanti alle location degli eventi, caccia compulsiva ai biglietti e ai posti (con momenti surreali come quello di sabato al Moderno dove l’ospite Adolfo Cerretti ha dovuto sedare un diverbio per una poltroncina) passando per l’affettuoso assedio al termine di ogni incontro per autografi e complimenti, con Massimo Recalcati costretto al bis e agli straordinari. Scene entrate ormai di diritto nel sommario di un festival che tradizionalmente pone con merito per tre giorni Sarzana al centro dell’agenda culturale italiana.
Ma la grande affluenza ha premiato anche la scelta dei due direttori Pietropolli Charmet e Benedetta Marietti di alzare ulteriormente l’asticella dei contenuti, concedendo le ormai ambite poltroncine del palco anche a volti meno noti al grande pubblico ma molto conosciuti nei rispettivi ambiti, segno tangibile dell’autorevolezza raggiunta dal Festival che, giunto al dodicesimo capitolo, procede in maniera autonoma avendo ormai tracciato un solco seguito da molti nel panorama delle manifestazioni nazionali.
Nell’edizione andata in archivio con 45mila presenze e nella quale si è però sentita la mancanza di luoghi come il chiostro di San Francesco e il Teatro Impavidi, il cui fascino resta insostituibile come evidenziato anche da Matteo Melley, l’aspetto più rilevante è emerso proprio in relazione alla considerazione iniziale: terminata la kermesse sul territorio resta qualcosa su cui lavorare. Lo ha confermato ad esempio la seconda edizione di ParallelaMente, programma collaterale fortemente voluto dall’assessore Accorsi e dal sindaco Cavarra per valorizzare artisti ed associazioni culturali del territorio sfruttando l’impareggiabile vetrina data dal festival maggiore. Ventuno appuntamenti con altrettante realtà che promuovono le arti tutto l’anno, coordinate nell’occasione dal lavoro di Massimo Biava ed Alessandro Picci. Due che hanno avuto l’ulteriore merito di averli perfettamente contestualizzati nel centro storico in piazzette, dimore storiche e spazi inaspettati, capaci di sorprendere gli stessi sarzanesi come i tanti visitatori abituati ad assistere a certe performance artistiche in ambiti prettamente urbani e con atmosfere molto differenti. Installazioni, teatro, danza, poesia e sfumature musicali diversissime fra loro hanno fatto emergere in modo ancora più netto rispetto all’anno scorso talento e vitalità di una scena culturale sulla quale Comune e Fondazione credono in modo lodevole visto che ParallelaMente avrà un’appendice autonoma il 28 e 29 novembre prossimi.

Diversa origine ma stesso risultato anche per il Festival della Mentina giunto alla sua terza edizione ed uscito con successo dal Lavoratorio Artistico di via dei Giardini fino a piazza De Andrè. In questo caso il merito è tutto dell’associazione Raso Terra e del collettivo guidato da Simone Ricciardi ma anche dell’assessorato alla cultura che ha dato da subito il proprio sostegno ad un’iniziativa quasi interamente autofinanziata e in grado di allestire un programma molto ricco. Dalla satira sfrenata dell’Espo riduttivo passando per il momento di riflessione sulla strage ferroviaria di Viareggio, la sorprendente esibizione dei Mechanics for Dreamers e il teatro di Astori e Tintinelli la ‘Mentina’ ha confermato il fermento creativo e culturale di una realtà che opera tutto l’anno in città e in provincia, con entusiasmo e passione tangibili nella festa conclusiva di ieri sera, e che come ParallelaMente ha anche il pregio di dialogare meglio con un pubblico più giovane.
A differenza di quello che accadeva fino a due-tre anni fa dunque la fine del Festival della Mente non coincide più con la brusca interruzione di una vita culturale che, al netto delle tante difficoltà, riesce ad avere un seguito grazie all’impulso dell’evento ma soprattutto all’energia e all’impegno di chi vive e lavora sul territorio ogni giorno. Qualcosa resta e non è poco.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 7 settembre 2015)

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Berengo Gardin, il mestiere del fotoreporter

Berengo Gardin

(dettobene)

Non mi interessa il lirismo né la poesia, a me interessa documentare le cose”. Intervenuto nel secondo giorno del Festival della Mente di Sarzana ieri Gianni Berengo Gardin ha sintetizzato così il suo approccio alla fotografia, che ha contribuito a renderlo uno fra i più importanti fotoreporter in Italia e all’estero. Classe 1930, nato a Santa Margherita ma cresciuto nella Roma occupata, ha iniziato a fotografare con la macchina della madre, prima di intraprendere la carriera vera e propria a Venezia. “Inizialmente avevo velleità artistiche, facevo foto ai tramonti in Laguna – ha detto di fronte alla platea del Canale Lunense – poi più tardi leggendo i libri che mio cugino di mandava dall’America ho capito che sarebbe diventato un lavoro vero”. Un’esperienza alimentata dalle influenze della letteratura di Faulkner, Hemingway e Steinbeck: “Quando mi sono recato per la prima volta nei luoghi da loro descritti mi sono reso conto di conoscerli alla perfezione”. 

Narrazione e fotografia sono sempre state una costante nella carriera di Berengo Gardin, come spiegato dall’editore di Contrasto Roberto Koch che ha dialogato con lui sul palco: “Nel suo caso – ha evidenziato – c’è sempre stato un impegno concreto nel narrare usando la macchina come una penna. Narrazioni diverse come architettura, inchiesta e denuncia sociale”.
Il primo successo editoriale è arrivato proprio con un libro su Venezia accompagnato dai testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani, poi “Morire di classe” con Carla Cerati, pubblicazione di denuncia sulla condizione dei manicomi italiani nel 1968. “Franco Basagalia – ha ripreso Berengo – si batteva per la chiusura dei manicomi e nessuno fino a quel momento aveva mai pubblicato immagini sulle case di cura. Abbiamo fatto vedere a tutta l’Italia come vivevano i pazienti, contribuendo all’approvazione della legge 180 in Parlamento. In sei mesi ci siamo recati in diversi manicomi, anche a Firenze che era considerato uno dei peggiori. I direttori non ci facevano entrare ed erano gli stessi malati ad aiutarci per farsi fotografare, facendoci passare come parenti. Capivano l’importanza di quegli scatti”.
In ambito sociale un altro importante lavoro di Gianni Berengo Gardin ha riguardato le comunità rom di Firenze, Padova ed altre città: “Si parla spesso di loro in termini negativi – ha sottolineato – ma conosciamo solo una minima parte, ho vissuto con loro ed è stata un’esperienza particolare, come la collaborazione con Renzo Piano per il quale fotografavo i cantieri ancora in corso dando un contributo indispensabile al suo lavoro”.
Con la sua macchina a pellicola prima a tracolla e poi appoggiata sulla scrivania del Festival, a margine del suo apprezzatissimo intervento si è sottoposto con grande disponibilità all’affetto delle tantissime persone che lo hanno avvicinato per un saluto e un autografo, ma anche per avere un parere sulla tesi. Il suo tono pacato e sereno è cambiato solo quando si è trovato a parlare del presente e del futuro della fotografia, influenzata dall’avvento del digitale e degli smartphone. “Il telefonino si usa per telefonare – ha puntualizzato – e non per scattare. Mi sembra che ormai siano tutti fotografi ma questo è un mestiere come tutti gli altri che necessita di esperienza e studio ed ha le sue regole ben precise. Evitate di immortalare cose inutili. Non ce l’ho con il digitale – ha precisato – ma con i programmi di fotoritocco, molti miei colleghi scattano a raffica tanto dopo possono aggiustare tutto, ma così si riempiono i giornali di immagini false. Credo che l’era dei fotografi sia finita, almeno in certi ambiti”. Una preziosa lezione sul mestiere del racconto per immagini fatta con la massima consapevolezza: “Se ho avuto un certo successo – ha concluso – è perché ho sempre conservato lo spirito del dilettante senza mai smettere di fotografare”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 31 agosto 2014)

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Via Mascardi, i Nirvana e il Partigiano “Joe il Rosso”

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Passeggiare in via Mascardi ha sempre il suo fascino. Ti capita di salutare i bottegai, gli amici che vendono ostriche e buon vino a ritmo di ska e rocksteady oppure puoi soffermarti nelle bancarelle dell’antiquariato durante ‘La Soffitta nella Strada’, ad agosto o durante il periodo pasquale come in questi giorni. In questa strada nel centro storico di Sarzana ormai una ventina d’anni fa c’era anche ‘D.O.C.” un meraviglioso negozio di libri, vinili e cd gestito da una tipa che all’epoca vendeva i dischi più interessanti di tutta Sarzana. Grazie a lei ho scoperto i Nirvana e i Temple of The Dog. Fra le tante cose avevo comprato anche un mini cd dei Beatles molto particolare, convinto che in futuro mi avrebbe fruttato parecchi soldi (in realtà dovrei ancora averlo da qualche parte).

Passo spesso da via Mascardi ma solo ieri, 21 aprile e giorno particolare per me per altri motivi, alzando la testa verso una facciata ho notato questa lapide dedicata a Gino Lombardi e Piero Consani, partigiani uccisi a pochi metri di distanza ma in giorni diversi. Esattamente 70 anni fa Lombardi, nato a Querceta di Seravezza nel 1920, aveva infatti perso la vita in un conflitto a fuoco con i fascisti all’interno di questo palazzo, mentre il suo grande amico Consani venne catturato, torturato e fucilato il 4 maggio, sempre del 1944, alla Cittadella.

Con il nome di battaglia “Joe il Rosso”, preso da un personaggio avventuroso di un film americano per via del colore acceso dei capelli, dopo l’armistizio Lombardi aveva dato vita alla prima formazione partigiana della Versilia con il nome di “Cacciatori delle Apuane”.

Il 17 aprile del 1944 – si legge sul sito dell’Anpi – i “Cacciatori” furono attaccati, sul Monte Gabberi, da centinaia di militi della Guardia nazionale repubblicana e della X-Mas. Nonostante fossero molto inferiori di numero e di armamento, i partigiani di “Joe il Rosso” riuscirono a sganciarsi infliggendo gravi perdite ai fascisti. Nei combattimenti cadde il suo aiutante, il partigiano sardo Luigi Mulargia (sul ferito i fascisti infierirono mozzandogli le orecchie e uccidendolo a calci). Dopo questo scontro, Lombardi pensò di spostare i suoi partigiani in posizione più favorevole nell’Alta Lunigiana e, con Piero Consoni e Ottorino Balestri, si diresse verso Equi Terme (Massa Carrara), per un sopralluogo. Fermati dai militi fascisti a Sarzana, i tre ingaggiarono combattimento, ma “Joe il Rosso”, dopo aver abbattuto due fascisti, cadde colpito a morte. Si salvò Balestri; Consoni, gravemente ferito, venne fucilato il 4 maggio. Le formazioni partigiane operanti sui monti della Versilia, si batterono, sino alla Liberazione, col nome di Brigata d’assalto “Gino Lombardi”. Una lapide lo ricorda oggi a Farnocchia di Stazzema (Luca), dove gli è stata intitolata una strada”. Solo nel 2005 invece Sarzana, in collaborazione con il Comune di Seravezza e l’Anpi hanno ricordato questo episodio, fra i tantissimi che hanno caratterizzato la storia del nostro territorio.

La sua storia e quella di Consani sono state ricostruite anche da Giovanni Cipollini e Pino Meneghini nel libro “Dalla Versilia a Sarzana” (qui il Pdf) che ripercorre la breve ma intensa esistenza. “Gino Lombardi – si legge nell’introduzione – è un personaggio di primissimo piano della Resistenza versiliese non solo per il ruolo svolto nella lotta partigiana ma anche per il valore simbolico assunto dopo la sua morte. Dopo aver dato un importante contributo alla creazione della rete organizzativa clandestina costituì la prima banda partigiana dimostrando di possedere doti innate di comandante: audacia e prudenza secondo le circostanze, carisma, intuito e decisione nelle scelte, anche quelle più difficili”. La narrazione parte dalle loro origini di antifascisti e arriva fino al 2005 e all’istituzione di questa lapide che ricorda a chiunque passi per via Mascardi il loro sacrificio e quello di tutti gli altri giovani della Val di Magra durante la Resistenza.

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Il rito della Marocca

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Il primo taglio è quello dell’attesa finita, della fragranza e delle diverse tonalità di marrone. Il secondo è più delicato e preciso, sottile, accurato. La terza fetta invece è più consistente, è quella che accoglie una fetta di salume, una spalmata di gorgonzola oppure un cucchiaino di marmellata, possibilmente di arance. È l’inizio di un rituale goloso e quasi automatico, che va avanti fetta dopo fetta fino quando una notifica sul cellulare o una voce estranea interrompono il momento idilliaco. Mi è capitato anche due giorni fa: solo in cucina con la mia Marocca di Casola appena tolta dal sacchetto di carta, un coltello, salsiccia e prosciutto crudo; quando è squillato il telefono ero già quasi arrivato a metà. Un pranzo frugale ma dal tempo dilatato grazie a questo prodotto speciale che nel secondo dopoguerra, quando il grano scarseggiava, era diventato il maggior sostentamento per la gente della Lunigiana e del piccolo comune in provincia di Massa-Carrara, medaglia d’oro al merito civile durante la Resistenza.
Le inconfondibili pagnotte rotonde infatti sono fatte sostanzialmente con farina di castagne, una piccola quantità di farina di grano, patate, olio e lievito madre. Un pane da sempre legato alle tradizioni gastronomiche popolari per la grande diffusione sul territorio dei suoi ingredienti e per la possibilità di poterlo mangiare anche dopo molti giorni. Oggi, grazie all’intuizione e al lavoro di Fabio Bertolucci, la Marocca di Casola è un presidio Slow Food e un prodotto che si può trovare facilmente anche al di fuori della Lunigiana. Dopo aver rilevato un forno nella località di Canoàra Fabio (qui il suo blog) ha riadattato ai ritmi più attuali un mestiere antico che vive ogni giorno distribuendo personalmente le sue marocche in attesa di perfezionare una distribuzione capillare. Il sabato mattina è possibile trovarlo al ‘Mercato della Terra’ di Sarzana, dove incontra Davide, giovane ristoratore che usa lo speciale pane per alcune portate nel suo locale ‘I Maestri’. Non solo, è anche il mio pusher di pagnotte, che mi fa trovare  accuratamente incartate e al riparo da sguardi bramosi. Al resto penso io.

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Un Chimico e il mare

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Nel caos della mia macchina occupano parecchio spazio anche tanti cd che in casa sarebbero solo soprammobili come gli altri visto che non ho più un lettore ad eccezione dell’autoradio. Fra quelli stipati nelle portiere in questi giorni sta girando parecchio “Non al denaro non all’amore né al cielo” di De André, uno dei miei preferiti di Faber nonostante la mia lacuna letteraria di “Spoon River” che dovrò colmare appena possibile. In quell’album ci sono alcuni brani straordinari come “Un ottico” oppure “Un giudice”, ma in questi giorni l’associazione più frequente è con il passaggio di “Un chimico” dove De Andrè canta “Primavera non bussa lei entra sicura, come il fumo lei penetra in ogni fessura, ha le labbra di carne, i capelli di grano, che paura, che voglia che ti prenda per mano. Che paura, che voglia che ti porti lontano”. Le vicende del farmacista Trainor di Edgar Lee Masters non hanno troppo a che vedere con la mia domenica anzi, non hanno proprio nulla, però oggi passeggiando sulla spiaggia di Marinella quel pezzo mi è tornato in mente più volte. Venti gradi e il cielo senza nemmeno una nuvola non sono cosa da poco, specie di marzo, e il mare d’inverno ha un fascino impareggiabile. Raccoglie tutto ciò che il Magra si porta dietro lungo il suo percorso lasciandolo poi sulla sabbia. Tronchi, legni, rifiuti e pezzi di vita. Con questi qualcuno ne ha fatto una zatterina abbandonata in riva in balia della marea.

 “Guardate l’idrogeno tacere nel mare, guardate l’ossigeno al suo fianco dormire: soltanto una legge che io riesco a capire ha potuto sposarli senza farli scoppiare. Soltanto la legge che io riesco a capire”.

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Fabrizio De Andrè a Sarzana: il concerto, la piazza e i ricordi

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“Non sono capace di recitare, mi considero un suonatore di chitarra. Non credo di essere l’interprete ideale per le mie canzoni”. La voce fuori campo è inconfondibile, così come lo è la figura che passeggia alla Fortezza di Sarzanello o in via Mazzini. Camicia rossa, jeans e l’immancabile sigaretta in mano: Fabrizio De Andrè si racconta così ai microfoni della Rai il 29 agosto del 1981 a poche ore dal suo concerto a Sarzana.
Un documento che anche oggi, nel giorno della su nascita, testimonia un passaggio importante e l’inizio di una storia culminata il 24 ottobre del 2009 con l’intitolazione di una piazza al cantautore genovese che era molto legato a Sarzana e al nostro territorio. “La frequentava spesso per motivi personali, fermandosi sempre volentieri quando andava a Carrara – racconta Mimmo Iorio, memoria storica di tutto ciò che riguarda Faber in Val di Magra e non solo – in zona ci sono molte cose che riguardano Fabrizio e la sua vita”.
Ci sono innanzitutto le immagini che lo ritraggono mentre chiacchiera con i fan e guarda dall’alto una città in espansione. Sfondo per le riflessioni sulla sua voglia di emergere in una famiglia medio borghese e sui dubbi e le incertezze del suo essere artista: “Quando noto delle carenze nella capacità di sintesi -rivela De Andrè mentre scorrono le immagini delle prove- mi faccio aiutare da chi è più giovane come fece anche Dylan in ‘Desire’. Credo di essere sempre riuscito a fare meglio i testi delle musiche, questo è un grosso limite. L’unico che è riuscito a cucire le due cose è Lucio Dalla”.
Del suo passaggio a Sarzana restano ovviamente anche la musica e i testi del tour dell’album l’Indiano che avevano caratterizzato l’esibizione del Miro Luperi, dove lo avevano accompagnato fra gli altri il figlio Cristiano, Mauro Pagani, Pepi Morgia e Massimo Bubola nel duetto di “Una storia sbagliata”.
“Negli anni scorsi – prosegue nel racconto Mimmo – ho impiegato quasi due mesi per riuscire a risalire al nome di chi aveva portato De Andrè a Sarzana. Era stato Paolo Bedini che all’epoca aveva solo diciannove anni ma era riuscito a contattarlo curando ogni minimo dettaglio. Quando finalmente i due si incontrarono, trovandosi di fronte un ragazzo così giovane, Fabrizio gli disse sorridendo: “siamo tranquilli?”. Paolo, che in seguito avrebbe organizzato altri eventi molto importanti, era molto agguerrito, aveva contattato anche la Rai per le riprese di quello che fu il suo primo concerto ad essere registrato, seguito molto tempo dopo da quello del Brancaccio. De Andrè si fermò per alcuni giorni con Dori Ghezzi alloggiando alla Locanda dell’Angelo. Qui stava molto bene e ci passava spesso, qualche anno fa qualcuno lo notò fra il pubblico ad un concerto nell’area di Gerardo. Io andai a trovarlo anche in Sardegna mentre nel ’98 gli inviai una bottiglia di “Creuza de mà”, vino delle Cinque Terre che gli era stato dedicato”.
Pochi infatti possono vantare un numero di riconoscimenti simile a quello di Faber al quale sono state intitolate scuole, strade, teatri, parchi, targhe e premi. Anche molte piazze, una delle quali a Sarzana, proprio grazie all’impegno di Mimmo Iorio e di tutti coloro che nel 2009 hanno avviato le procedure necessarie. “Avevamo iniziato la raccolta firme per far parlare della cosa – spiega Mimmo – ma non ci saremmo mai aspettati di arrivare a 5500 adesioni. La gente arrivava all’Arci con i moduli pieni e ne chiedeva altri: da Paolino Ranieri a Don Gallo, da Fiorella Mannoia a Piero Pelù tutti hanno dato il loro contributo. Anche Fabio Fazio, il quale firmando disse: “E’ importante che ci sia una piazza con il suo nome perché un giorno un ragazzo leggendolo andrà a scoprire e ad ascoltare le sue canzoni”.
L’iniziativa aveva trovato subito l’adesione del Prefetto che aveva dato l’ok raccogliendo l’invito della Giunta Caleo, ed era diventata realtà con l’inaugurazione nella piazza di via Landinelli alla presenza di tutte le autorità e della moglie”.
Mimmo e De Andrè si erano conosciuti qualche anno prima prima, dopo la data all’Astra della Spezia, quando nel 1993 aveva girato l’Italia con un tour caratterizzato da brani dedicati alle donne. “In quell’occasione Dori cantava nel coro – ricorda – mentre con lui mi ero trovato casualmente dietro le quinte. Cosa capitata diverse volte, anche in occasione di uno dei suoi ultimi concerti, proprio al Picco”. Era il 7 agosto 1998 e chi c’era la ricorda ancora come un’esibizione intensa ed emozionante con Faber già malato che il giorno dopo ad Arenzano tenne il suo ultimo concerto in Liguria.
“C’era un clima malinconico, mi ricordo che nel pomeriggio stavo parlando con Mauro Pagani quando lui apparve sul palco, da solo con la sua sigaretta, sapevamo già tutti della sua malattia. Al Picco si era esibito due volte, ma da giovane aveva frequentato spesso piazza Brin. Arrivava da Genova con un amico e andava da Biso a portare i suoi dischi da vendere. Erano gli inizi della carriera, eppure vendeva già più di Battisti”.
Oggi Fabrizio De Andrè avrebbe 74 anni e se fosse ancora qui potrebbe capitare di incontrarlo a passeggio in via Mazzini come in quel pomeriggio del 1981 quando sottolineava: “Siamo quasi tutti artisti ma non abbiamo il tempo o l’opportunità di esserlo”. Può darsi, ma Faber era uno solo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 18/02/14)

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Calligrafia e creatività, Luca Barcellona al Festival della Mente

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“La difficoltà più grande? Spiegare il mestiere che faccio”. Luca Barcellona ci è riuscito perfettamente la settimana scorsa nel suo intervento alla decima edizione del Festival della Mente di Sarzana, dove il calligrafo milanese ha raccontato la sua attività in quella che ha definito una “disciplina di artigianato che sconfina nell’arte”.
Scrittura elegante e regolare che pur avendo una grandissima tradizione in Italia viene difficilmente inquadrata come un mestiere vero e proprio ed è tenuta viva dal lavoro e dalla passione di veri e propri artigiani moderni come Barcellona – insegnante all’Associazione Italiana di Calligrafia-, che all’attento pubblico della manifestazione ha spiegato influenze, origini ed applicazioni della sua passione.
“Ognuno di noi ha avuto un modello di scrittura ma la generazione precedente alla mia a scuola studiava la calligrafia, mentre quando ho iniziato a frequentare grafica negli anni Novanta, iniziavano ad imperversare i pc. “Il futuro è digitale” si diceva, oggi siamo abituati a schiacciare un tasto da cui escono lettere tutte uguali ma allo stesso tempo si assiste ad un lento ma graduale ritorno all’interesse per il manuale.
La calligrafia non è nulla di vecchio  e nostalgico – ha raccontato – ma qualcosa che ci circonda. In ogni città ci sono insegne che rappresentano incredibili fonti di ispirazione, anche se i Beni Culturali non si preoccupano di conservarle e raccoglierle in un museo. Il vero problema è che i bottegai stanno sparendo e queste vengono sostituite da caratteri tipografici sempre simili, c’è omologazione della comunicazione visiva”.
Una formazione quella di Luca Barcellona che viene proprio dalla quotidianità urbana, espressa in passato con il rap – con lo pseudonimo di Lord Bean – e soprattutto con il writing, disciplina che ha caratterizzato tutto il suo lavoro: “L’esperienza dei graffiti – ha detto – mi è servita molto perché era un’attività diretta, che non si poteva studiare. Era la realizzazione di un progetto su una superficie enorme partendo da una piccola bozza. All’estero c’è il mito della calligrafia italiana ma noi abbiamo un po’ trascurato questo tipo di cultura”.

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I suoi tratti calligrafici (raccolti nel libro Take Your pleasure seriously) sono stati utilizzati per la realizzazione di logotipi ed artwork per marchi come Dolce & Gabbana, Carhartt e Nike, oltre che da artisti come Nina Zilli e Casino Royale mentre il regista Luca Guadagnino ha voluto le sue grafiche per il film “Io sono l’amore”. “Devo dire – ha rivelato – che andare al cinema e vedere i miei titoli sullo schermo è stato davvero emozionante. Il lavoro che mi ha maggiormente segnato ha riguardato invece la riproduzione di un mappamondo del Cinquecento per il museo nazionale di Zurigo. Un’opera realizzata interamente a mano, riprodotta fedelmente con i tempi e gli errori degli artigiani dell’epoca”.
Nell’era del digitale in cui anche a scuola si usa sempre meno la penna a favore di mouse, tablet e tastiere, il lettering conserva comunque la sua natura di arte che deve tenere conto dello spazio e del tempo: “59 minuti di pensiero per un minuto di azione” ha detto citando un detto giapponese. Impulso che dalla mente arriva alla mano senza filtri o ritocchi. “Ieri durante il suo intervento qui al Festival – ha ricordato Luca Barcellona – Freccero ha definito la creatività come rottura di regole o codici, io penso che però questi debbano essere conosciuti”. Estetica dunque ma anche contenuto, artistico o commerciale, da veicolare attraverso il tratto di un carattere che comunica storie ed emozioni.

(pubblicato su Cittadigenova l’1/9/13)

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Memoria e social network al Festival della Mente con Bauman, Testa e Battiston

di Benedetto Marchese

Quando sul finire del loro splendido ‘Italy’ Gianmaria Testa e Giuseppe Battiston intonano ‘Miniera’, nel cielo di Sarzana si scatena il più classico degli acquazzoni estivi, che in un primo momento fa scattare i duemila spettatori della Fortezza Firmafede dalle proprie sedie in cerca di riparo, ma che a poco a poco li riporta al proprio posto, non appena il cantautore e l’attore tornano sul palco per concludere lo spettacolo con la gente zuppa ed assiepata sotto al palco.
È accaduto ieri sera in occasione della prima giornata di eventi del Festival della Mente che per la sua ottava edizione ha fatto registrare il sold out per conferenze ed incontri, confermandosi come la rassegna più attesa e seguita nell’ormai affollatissimo panorama nazionale. Oltre ad un programma di altissimo livello con ospiti d’eccezione, la kermesse ideata da Giulia Cogoli può infatti contare su un’organizzazione capillare che grazie anche al lavoro dei tantissimi volontari permette alla città di sostenere la pacifica e curiosa invasione di migliaia di persone che ogni anno arrivano da tutta Italia per i primi giorni di settembre dedicati alla creatività ed alla cultura.
Un pubblico fedele che a tarda sera riempie lo spazio di Piazza Matteotti per ascoltare la prima delle tre lezioni di Alessandro Barbero dedicata all’uomo nel Medioevo, lì dove poco prima in centinaia si sono assiepati per ascoltare Zygmunt Bauman nel suo intervento sul ‘concetto di comunità e rete, sui social network e Facebook’.
Una lezione attesissima quella del sociologo e pensatore polacco che ha spiegato il rapporto fra informazione e società, analizzando le differenze fra Rete e comunità nell’era dei social network. Un punto di vista indubbiamente autorevole al quale è forse mancato un passaggio veramente convincente sul reale impatto dei social media nella nostra società.
Dai concetti di libertà e comunità del presente a quelli del passato raccontati in musica e parole dal duo Testa-Battiston nello spettacolo presentato in anteprima proprio al Festival di Sarzana per raccontare l’Italia di ieri e le nostre migrazioni attraverso le poesie di Giovanni Pascoli ed un processo mentale imprescindibile come la memoria.

(Pubblicato su www.cittadigenova.com il 3/9/11)

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Festival della Mente/ Davide Oldani, la cucina d’autore diventa Pop

Foto B.M.

Foto B.M.

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su Cittadigenova.com 06/09/09)

Alta cucina a basso costo, utopia? Nient’affatto, è la filosofia di Davide Oldani, chef milanese che questa mattina all’interno del Festival della Mente ha raccontato la sua idea di cucina “Pop”. Popolare, creativa e figlia della passione per il proprio mestiere del suo autore. Oldani, orgoglioso discepolo del maestro Gualtiero Marchesi, ha spiegato alla giornalista Camilla Baresani e al pubblico di Sarzana quello che è un vero e proprio manifesto concettuale che va ben al di là della semplice idea di ristorazione. Se il cliente riesce a godere di portate di altissimo livello spendendo 11.50 euro per un pranzo completo, è solo perché alle spalle c’è un lavoro che parte da lontano: “Ho lavorato con grandissimi maestri –racconta Oldani- ma anziché fare le cose in grande ho scelto di tornare alle origini, al mio paese, entrando nel mercato cercando d’imporre la mia idea”. Ecco allora la cucina accessibile a tutte le tasche ma assolutamente personale, a partire da un brand ben preciso nel nome: “D’O” non solo iniziali di Davide Oldani, ma anche lettere che accostate in giapponese significano “via”; il primo passo, quello della cucina tradizionale. “L’idea –ha aggiunto- è quella di far assaggiare nouvelle cousine e cucina destrutturata alla maggior parte delle persone. Io non ho inventato nulla, ho solo riscoperto delle tradizioni sulle quali mi baso applicando nuove idee”. Quelle che ogni giorno gli permettono di riempire il suo locale da 34 coperti e dove per un tavolo si possono attendere alcuni mesi o dove si mangiano solo prodotti di stagione e materie prime della tradizione. Ridurre i costi assicurando la qualità e rinunciando al superfluo; sembra un qualcosa di irrealizzabile e invece non lo è, almeno al “D’O” dove anche le stoviglie sono appositamente studiate: la posata unica che unisce le peculiarità di coltello, forchetta e cucchiaio; il bicchiere di cristallo spesso e più resistente; il piatto da zuppa o la tazzina con cucchiaino che preserva gli aromi del caffè. “Il compito del cuoco è nutrire e dare gusto” aggiunge lo chef la cui promettente carriera di calciatore era stata stroncata da un terribile infortunio, “Ogni passaggio nella preparazione di un piatto ha un perché, come nel classico riso allo zafferano nel quale gli ingredienti vengono cotti separatamente e il tocco finale lo da un elemento stagionale”. L’idea nuova di cucina pop affonda però le radici nella gavetta di Oldani con fuoriclasse come Ducasse e Roux oltre al già citato Marchesi, nell’esperienza maturata negli anni e rielaborata grazie ad applicazione e creatività, ma anche al diretto contatto con la gente: “Il confronto con i clienti è fondamentale, tutti mi portano qualcosa che posso assimilare, non mi sento un cuoco artista”. Tempi di servizio brevissimi, ingredienti sempre nuovi, personale essenziale e preparato; niente di rivoluzionario ma studiato nei minimi dettagli, negli accostamenti e negli equilibri dei sapori che fanno avvicinare la gente. “Anche se l’attesa per i tavoli –fa notare Camilla Baresani- rende il tutto molto Pop-chic”, definizione che piace allo chef e potrebbe essere al centro di nuove idee per un concetto di cucina sempre in evoluzione, nel quale anche il vino diventa secondario: “Perché un piatto ben cucinato non ha bisogno di liquidi” e dove il tartufo, ingrediente expensive per eccellenza, diventa pop se proposto come profumo all’interno di un soufflé. Un ristorante in cui la scarpetta a fine pietanza è incoraggiata e lo chef viaggia in 500. Nessuna utopia, solo gustosissima realtà.

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Festival della Mente/ Roberto Saviano e la forza delle parole

Foto Nicola Giannotti

Foto Nicola Giannotti

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su cittadigenova.com e cittadellaspezia.com il 7/9/09)

C’è chi aspetta anche un’ora sotto il sole e chi varca i cancelli della Fortezza Firmafede solo quando la giovane volontaria del Festival della Mente annuncia l’evento speciale: “Roberto Saviano, la libertà comincia con le parole”. Ci sono giovani e pensionati; politici, studenti, operai ed avvocati; immobili sulle sedie o in attesa assiepati ai lati della platea già parecchi minuti prima che l’autore di Gomorra faccia il suo ingresso sul palco, accompagnato dalla scorta e dall’applauso sentito dei duemila presenti. Cala il silenzio sulla Cittadella così come sul resto della città di Sarzana dove in centinaia seguono l’intervento davanti ai megaschermi; mentre lo scrittore inizia il suo monologo e due uomini della scorta si sistemano ai suoi lati. Un quadro quasi irreale che focalizza l’attenzione sulla sua figura in completo nero che contrasta con lo sfondo bianchissimo, in un clima dalla forte carica emozionale sia per il pubblico che per l’ospite più atteso della sesta edizione del Festival. Saviano comincia parlando al plurale, usando il “Noi” che racchiude il gruppo fidatissimo di persone che da anni condividono ogni momento della sua vita: “Per noi è sempre strano incontrare tante gente, i miei colleghi possono salutare i propri lettori, io posso solo guardarli”. E tutti coloro che hanno letto Gomorra, ogni articolo e ogni notizia riguardante la sua storia sono lì, incrociano il suo sguardo; seguono il gesticolare delle mani i cui anelli rappresentano l’unico vezzo di un ragazzo di appena trent’anni condannato all’esilio. “Le mie parole hanno il senso della libertà –continua Saviano- come quelle del fotoreporter Christian Poveda, ucciso per aver realizzato il film “La vida loca” su Le Maras, i narcotrafficanti del Salvador. Si è parlato poco di questo fatto perché si pensa che la gente sappia già tutto, ma non è così e le mafie sono terrorizzate dall’idea che la gente leggendo capisca. La responsabilità maggiore per chi racconta queste cose è arrivare alle persone. Nulla di ciò che scrivo fa paura, loro hanno paura di chi legge”. Il “Loro” che indica indistintamente i responsabili della morte di Poveda come di Anna Politkovskaja, il piccolo Giuseppe di Matteo o Don Peppe Diana. “L’ho difeso dalle calunnie –aggiunge Saviano sul prete ucciso dalla Camorra- per una questione d’onore e per fortuna Pecorella ha chiesto scusa. Spesso il destino è fra la morte e la delegittimazione, la calunnia, come per Padre Puglisi a Palermo. Falcone diceva che la calunnia si distrugge da sola, ma non ci sono mai pallottole senza denigrazioni”. La vergogna della gente nell’aver a che fare con qualcuno che ha “infangato” la propria terra: “La mia è una vita noiosa –aggiunge- ma mi ha permesso di vivere situazioni impensabili, come con i padroni delle case che abbiamo cercato, felicissimi di ospitare i Carabinieri ma non il sottoscritto. Quando ti occupi di certe cose ti si crea un deserto intorno, ma quando parli alle persone le parole cambiano, diventano concrete e i miei lettori hanno deciso che il meccanismo si rompesse. Le mafie sono terrorizzate dalla parole perché sono abituate alla penombra. Non puoi permetterti di scoraggiarti –sottolinea trasmettendo tutta la malinconia di una vita vissuta sotto scorta- ma mi capita spesso perché Gomorra mi ha rovinato la vita per sempre, però lo rifarei”. Parole che colpiscono, frasi già sentite o lette ma che assumono un valore ancora più forte se ascoltate dalla voce diretta di Saviano, che percorrendo il filo interminabile della malavita di casa nostra parte da alcune inchieste svolte negli Usa, nelle quali fra le cinque organizzazioni criminali più potenti figurano Camorra, Mafia e ‘Ndrangheta; per arrivare a Castelvolturno, “Luogo della diaspora degli africani, che ha visto morire Miriam Makeba davanti a poco più di trenta persone. Una morte della quale un po’ mi sento responsabile perché avvenuta in un concerto contro la Camorra”. Lei, un simbolo, perseguitata per trent’anni dal suo paese per una canzone gioiosa ed innocua come Pata Pata, “Perché la gioia mette paura”. Poi il riferimento alle domande poste dal quotidiano la Repubblica a Silvio Berlusconi, fatto senza citare nessuno dei protagonisti: “In passato ho ricevuto più volte attestati di solidarietà dal centrodestra, ora sogno che gli elettori si rendano conto che una risposta è necessaria, c’è bisogno di uno scatto di coscienza. Se non ci uniamo nella legalità non possiamo andare avanti”. L’applauso convinto del pubblico esalta il valore delle parole, come quelle riprese da Danilo Dolci: “Ciascuno cresce solo se sognato” e di Gustav Herling, o le frasi che chiudono l’incontro, questa volta un verso della poetessa polacca Szymborska. “Citare mi piace, mi fa sentire protetto da un esercito di alleati- conclude- “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”, è l’empatia la magia della letteratura”. È più semplicemente la forza delle parole di un pomeriggio da conservare come un qualcosa di speciale.

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Il Festival della Mente e la cucina d’autore, intervista a Carlo Cracco

Carlo Cracco

di Benedetto Marchese

(Pubblicata su Cittadellaspezia il 30/08/2008)

Abituato al suo teatro naturale, la cucina del suo ristorante, ci ha messo qualche minuto ad ambientarsi alle centinaia di persone che hanno affollato l’evento del Festival della Mente dedicato alla cucina d’autore. Ma lui, Carlo Cracco, classe 1965, vicentino trapiantato a Milano, cuoco di fama internazionale celebrato da guide e addetti ai lavori, ha affrontato la platea composta da colleghi, curiosi e appassionati di alta cucina, spiegando i processi lavorativi e intellettuali, che gli permettono di trasmettere emozioni attraverso i suoi piatti. Una cucina “cerebrale e di cuore” appunto, che parte dalle materie prime per fondersi con le alchimie di chi come lui attraverso profumi e sapori riesce a far provare sensazioni uniche ai suoi clienti. Modesto al punto di parlare al plurale perché con lui lavorano quotidianamente oltre trenta persone; capace di spiegare come l’anguria possa andare d’accordo con il sale o l’insalata russa stare pacificamente racchiusa in una glassa di caramello. O meglio ancora come da un semplice tuorlo d’uovo possano nascere capolavori d’ingegneria mentale applicati alla gastronomia; Cracco si è poi concesso con grande disponibilità a Cds per una breve intervista:

Quali insegnamenti ha tratto dalle esperienze con Gualtiero Marchesi, Alain Ducasse o presso l’Enoteca Pinchiorri di Firenze?
“Ho imparato quelli che sono i fondamentali della cucina, anche perché quando ho iniziato non c’erano riviste di settore, trasmissioni televisive dedicate, né Internet nel quale adesso si trova quasi tutto quello che riguarda la cucina. Mentre i libri dei grandi chef uscivano alla fine della loro carriera per cui erano già vecchi. L’unico modo che avevo per imparare e capire cosa faceva un maestro era andare ed imparare. Basi fondamentali che mi hanno permesso di fare tutto il resto. Diciamo che ora è tutto molto più semplice perché gli spunti quotidiani sono moltissimi, sta poi a ciascuno capire quali possono andare bene o meno per il proprio lavoro”.

Canali satellitari, blog, cuochi ospitati nelle trasmissioni più disparate e critici improvvisati.
Possiamo parlare di un’eccessiva spettacolarizzazione del cibo e della cucina?

“Una volta i cuochi erano considerati degli ubriaconi che a sessant’anni avevano esaurito il proprio corso, oggi sanno un minimo parlare e porsi anche in ambiti diversi, quindi la cosa non è negativa. Il problema principale è che bisognerebbe approfittare del momento di visibilità per lasciare un messaggio di qualità, evitando di dedicarsi esclusivamente allo spettacolo fine a se stesso altrimenti si rischia di banalizzare un mondo invece molto serio”.

Dal suo punto di vista, quello di interprete apprezzato, come sta andando la cucina d’autore italiana?
“Sta andando benissimo. Noi al contrario degli spagnoli o dei francesi non abbiamo un leader riconosciuto, cosa che a livello di prestigio ci limita, ma a livello pratico abbiamo la possibilità di avere molti più cuochi, molta più varietà e un movimento che cresce all’unisono. Si parla molto di cucina spagnola, ma in realtà è la cucina di Ferran Adrià, e non può farla nessun altro, il problema è che poi tutti si identificano in quella ma non con gli stessi risultati. Ed è per questo che forse noi siamo più fortunati, anche se probabilmente è un limite per certi aspetti, perché nominano lui e non noi, anche se siamo dieci o quindici di buon livello. ”.

Lei che è ormai un cuoco affermato, vede fra i giovani emergenti qualcuno che si sta distinguendo rispetto agli altri?
“C’è un esercito di bravi cuochi, io mi auguro vivamente col tempo possano uscire tutti. Il vero problema oggi è quello dei camerieri. Oggi come oggi nelle scuole alberghiere su cento alunni, novanta sono cuochi e gli altri camerieri. Ed è un dramma, perché ormai c’è uno squilibrio per il quale tutto ciò che è cucina va a mille, tutto il resto non funziona. Una volta il cuoco era l’ultimo gradino della scala, non era neanche considerato, mentre ora i ruoli si sono del tutto ribaltati. Il cuoco è tale anche solo, mentre il cameriere ha bisogno di una struttura alle spalle. Quella dello chef è ormai una figura a 360°, ci mette la faccia, la tecnica e il nome, ma in queste condizioni fatica a trasmettere il proprio concetto di lavoro a chi poi sta in sala”.

Per chiudere, i grandi cuochi vivono con il pensiero del giudizio: stelle, voti in ventesimi e forchette di merito. Com’è il suo rapporto con le guide?
“Penso che bisognerebbe fare un passo in avanti, così come sono impostate e sviluppate servono a poco, la guida cartacea è obsoleta perché ormai chi la consulta ha molteplici alternative a disposizione. Bisognerebbe andare oltre, ma ci vogliono i mezzi le idee e gli investimenti. Nel frattempo io continuo a fare il mio lavoro”.

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