Al Fabrique con la tribù di Mace

di Benedetto Marchese

La voce di Blanco che canta “La canzone nostra”, un palco affollato sul quale tutti si abbracciano o si tengono per mano e il Fabrique, pieno zeppo, che alza mani e smartphone intonando il ritornello che è ormai il mantra della tribù di Mace. Lo sciamano che ha appena guidato i suoi fedelissimi al termine di quella che, se non è un’esperienza ultra corporea, resta comunque una delle più forti sensazioni di benessere dopo due anni difficilissimi per tutti. Il finale della tappa milanese dell’Obe Live 2022 è un condensato di amicizia, condivisione, calore e vibrazioni, che restituiscono anche vivo il valore e l’importanza di un lavoro con il quale il dj e produttore ha segnato un prima e un dopo nella scena italiana, aggregando nomi che non hanno prestato solo voce o strumenti ma molto di se stessi. La maggior parte sono ospiti della serata rinviata ben due volte e poi recuperata a due giorni dall’uscita di “Oltre”, nuovo album strumentale definito dall’artista “un diario irrazionale delle mie esplorazioni psichedeliche, sospese tra viaggio interiore e contemplazione della natura e della sua stessa coscienza. Un luogo altro che vive di immaginazione e sinestesia, un labirinto sonoro sospeso, dove perdersi a occhi chiusi e con lo spirito aperto. Ma soprattutto un invito a andare oltre le consuete percezioni sensoriali, oltre le paure, oltre i confini del proprio corpo, oltre le parole”. Lodevolmente oltre le logiche di un mercato che avrebbe voluto un secondo capitolo molto più simile al precedente e che, invece, vira verso sperimentazioni sonore che mettono alla prova un pubblico molto trasversale, che ha magari più dimestichezza con la club culture che non con il rap e la trap, e viceversa.

Un viaggio che inizia dove finiva “Hallucination” che nel locale di Linate assume i tratti di un rave londinese o berlinese, mentre le immagini sul telo di sfondo e le luci – perfetta traduzione visiva dei suoni – disegnano forme geometriche, occhi e suggestioni visionarie. Delineano anche i volti di chi si alterna al microfono pezzo dopo pezzo, accompagnato dalla gente sotto al palco che intona a memoria barre e versi: da Gemitaiz a Venerus, da Joan Thiele a Noyz Narcos, da Rkomi fino a Colapesce e Salmo, il cui ingresso sul finale è accolto da un’ovazione. Nessuno dei dodici ospiti esce di scena senza un abbraccio da parte di Mace che dalla sua postazione detta i tempi di un rito che attraversa generi, stili e dimensioni, restituendo un suono reso unico anche da un preziosissimo super gruppo che comprende anche i due Calibro35 Rondanini e Gabrielli e che lo accompagna in ogni passaggio di un’esibizione che lascia qualcosa di profondo. “La notte, quando lavoravo a Obe, non dormivo perché temevo che nessuno lo avrebbe ascoltato” dice Mace, invitando ad accettarsi e a seguire la propria strada; la sua tribù da milioni di ascolti digitali e dal sudore reale applaude e si prepara a seguirlo con totale fiducia in un altro viaggio.

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Il concerto di Manu Chao a Sarzana

di Benedetto Marchese

“Ciao Sarzana, è bello essere qui cento anni dopo la resistenza contro il fascismo”. Manu Chao si è preso così Piazza Matteotti, ancora prima di attaccare il primo pezzo, ricordando i fatti del 21 Luglio 1921 appena celebrati da una città che questa sera ha vissuto uno di quegli eventi che valgono una stagione intera.
Con una piazza gremita – nei limiti di quanto concesso dalle norme – le persone alle finestre, i locali pieni e la gente assiepata anche nelle vie limitrofe. Ma soprattutto con un’atmosfera carica di attesa ed entusiasmo che non si respirava da tanto tempo, periodo pre covid incluso.
Merito del neo sessantenne cittadino del mondo, riapparso in Italia per il ventennale del G8 e invitato a chiudere con un sold out da ricordare la terza edizione di Moonland, festival che in una settimana ha rimesso Sarzana al centro dell’attenzione del pubblico dei concerti. Un carisma intatto il suo, capace di riportare tutti indietro alla spensieratezza ma anche alle ferite di inizio Millennio.
Ricordi più che nostalgia, ed emozioni da trasmettere ai figli che tanti hanno voluto con loro per vedere dal vivo l’iconico inventore della patchanka, capace di trascinare tutti per oltre due ore anche in versione acustica, accompagnato da Luciano Falico alla chitarra e Mauro Mancebo alle percussioni, con l’aggiunta in alcuni brani del trombettista spezzino Andrea Paganetto, ingaggiato all’ultimo minuto.

Una platea carica fin dai primi minuti ma che si infiamma quando Manu attacca “La vida tombola” dedicata a Diego Armando Maradona e subito dopo “Mr.Bobby” per Marley a cui dedica anche “Iron, lion, Zion”.
Con l’immancabile tema di Pinocchio a scandire ogni pezzo la scaletta passa in rassegna tutti i brani più famosi e coinvolgenti come “Malavita”, “King of the bongo” e gli altri di “Clandestino”, album che segnò un’epoca conquistando anche le classifiche.
Con la gente ormai tutta in piedi da un po’ sventolano in prima fila le bandiere di Palestina e Paesi Baschi, magliette dell’Argentina e del Boca Juniors, mentre sul palco Manu Chao suona con con un fazzoletto partigiano adagiato vicino alla chitarra. Un coro in ricordo di Carlo Giuliani diventa così una dedica che precede “Como que no”, mentre dopo l’ennesimo saluto il cantante torna sulle note di Bella ciao per regalare l’ultima “Licor Cafè” ad una piazza entusiasta ed emozionata per la grande serata vissuta.
“Grazie Sarzana antifascista” saluta definitivamente Manu Chao, dando la sensazione di poter continuare senza problemi fino a notte fonda, con lo stesso sorriso e la voglia di regalare canzoni alla sua gente, testimone di un concerto storico.

(Pubblicato su Cittadellaspezia il 26 Luglio 2021)

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Le città dietro gli stadi, Cesena

di Benedetto Marchese

In una versione molto più innocua e provinciale di “Fedeli alla tribù” il panorama dietro alla tribuna di Cesena (temporaneamente adibita a “casa”) offre sedie di plastica piazzate con i primi caldi di maggio e lasciate fino a inizio ottobre, fazzoletti da sventolare per combattere un caldo improbabile e un pacifico disinteresse verso le tribolazioni dei foresti dirimpettai vestiti di un bianco e nero diverso dal solito.

John King invece scriveva: “Fanno vedere tutti i gol del campionato. Io sono stato su tutti quei campi e gli stadi li vedo in modo diverso dalle inquadrature del video. Per me sono delle città, colle loro strade, i pub, i negozi, la gente. Tutti i posti hanno il loro carattere. Fanno vedere l’Everton che le prende in casa sua e so che dietro alla tribuna piena di mangiagallette le strade sono tutte case a schiera, sembra un’altra epoca. Mentre il Villa taglia a fettine la difesa del Coventry io mi immagino il parco attaccato alla Holte End e i mattoni dell’ingresso principale del Villa Park. E mentre il Norwich rifila tre pere al West Ham mi viene da ghignare se vedo la strada dietro la tribuna dove io e Rod abbiamo preso la paga”.

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L’ultima partita a porte aperte

di Dettobene

L’atmosfera è strana, incerta e un po’ surreale. Probabilmente l’ultima partita a porte aperte del calcio italiano poteva capitare solo a noi che di situazioni balorde ne abbiamo vissute parecchie, tipo a Pescara costretti a star fuori perché non ci facevano i biglietti, o a Cesena la sera di Raciti.
In fondo non mi sorprenderei di arrivare sotto la Ferrovia e sentirmi dire “è cambiato tutto, non si può entrare”. Fortunatamente non è così anche se il clima è diverso e non c’è coda, alla fine sono le ultime quattro ore che si possono passare in mezzo a un po’ di gente.
A fianco a me al cancello un gruppo di ragazzi si sente dire dallo steward “non potete entrare, non avente quindici anni”, “perché? siamo sempre entrati” ribattono loro con documento e biglietto alla mano. Ma dai? Oltretutto stasera con sta situazione? Poi non sono mica dei bimbetti. Mentre loro si guardano indecisi se andarsene, mi vengono in mente i racconti degli amici che hanno vissuto il calcio senza tornelli e biglietti nominali – quello che io ho conosciuto al tramonto – quando i fanti entravano col primo signore che gli capitava a tiro. Allora prendo sotto braccio un ragazzo e dico allo steward “lui è mio figlio, entra con me”. La risposta è uno sguardo perplesso ma Davide mi viene dietro e ne prende un altro “lui è mio figlio, lo accompagno io” e così fa il tizio davanti che ha seguito la scena, altri due o tre nel frattempo si infilano mentre lo sguardo dello steward è rassegnato.
Tutti dentro, c’è da veder vincere gli aquilotti.

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L’attesa del tramonto

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di @dettobene

Mentre me ne vado verso i sei gradi del tardo pomeriggio il sole sta scendendo veloce verso la linea dell’orizzonte, quasi a metà fra il Tino da una parte e la Corsica dall’altra. La linea del mare cambia tonalità rapidamente, meritandosi foto, stories e sguardi sognanti, lasciando ancora qualche minuto a chi arriva in ritardo dalla stradina che riporta al paese. Dietro di me lascio almeno una ventina di persone: il signore educato con il teleobiettivo, il tizio che fra una birra e un pezzo di focaccia mi ha impallato il time-lapse, la signora esperta di erbe e piante aromatiche con il marito silenzioso e la nipote che ha riempito la memoria del cellulare. Rimangono anche la comitiva emiliana, la coppietta di ragazzi nell’angolo e quella lombarda – seduta poco prima vicino a me – con lui vessato dal datore di lavoro la vigilia dell’ultimo dell’anno.

Mi allontano probabilmente nel momento migliore ma posso essere soddisfatto. Dopo un piatto di ravioli e una bella chiacchierata ho scelto di salire verso Montemarcello anziché costeggiare il fiume fino a Bocca di Magra. Mi sono goduto la vista da Livorno a Tellaro, le campane e i gabbiani in sottofondo, i minuti senza voci e il tepore del sole da altra stagione, ho dato un’occhiata alla spiaggia di Punta Corvo, e soprattutto mi sono spinto avanti nel “Territorio Comanche” di Arturo Pérez-Reverte. Ho riguardato in lontananza la Capraia e ho pensato al primo progetto per il 2020. Niente male per un pomeriggio di fine decennio.

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Un trolley a Brick Lane

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di @dettobene

– Ohi quanto vuoi per quel trolley?

– 25

– No, 25 è troppo! Massimo 20

– No no amico, 25. E’ l’ultimo rimasto, lo vendevo a 30. E’ un affare, e poi lo puoi mettere anche in stiva.

– Ma non mi serve metterlo in stiva, lo imbarchiamo. Venti è un buon prezzo

.

– Ragazzi questo tizio è caro, io ho comprato i guanti per mia moglie ma vi conviene andare verso Liverpool Street, c’è un mercato dove trovate il trolley a venti sterline. L’ho preso anche io uguale a questo. Lui è caro.

– Bene grazie! Ora guardiamo là

– Ah ma siete italiani?

– Si

– Sentite come parlo bene italiano? Ho vissuto a Catania per nove anni, mio figlio è nato lì e ora fa l’avvocato. Poi siamo venuti qui.

– E qui come si trova?

– Bene! Vedete sono venuto a comprare i guanti per mia moglie, ha il salone di bellezza più bello di Tower Bridge, arriva la gente anche dall’America per andare da lei, cercatelo su Internet.

– Lo faremo, grazie!

– Buona giornata, e ricordate di passare da Liverpool Street!

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I Subsonica, Londra e l’Europa

di @dettobene

Non poteva mancare Londra nel tour europeo dei Subsonica che sta accompagnando l’uscita dell’ultimo album “8” e anticipando i concerti italiani che partiranno a febbraio da Ancona. Dopo Amsterdam e Dublino infatti Samuel e compagni ieri hanno fatto tappa nella capitale inglese – dove si erano già esibiti nel 2008 e nel 2014 – e ad attenderli hanno trovato l’O2 di Shepherd Bush gremita, calorosa e pronta a scoprire dal vivo i nuovi pezzi e rivivere, con la consueta empatia, gli estratti dei sette lavori precedenti. Aspettative pienamente soddisfatte per la platea dello storico locale di Hammersmith (dove fra gli altri si sono esibiti Oasis, Who e Bowie) che nelle due ore di set ha ascoltato le nuove “Bottiglie rotte”, “Jolly Roger”, “Fenice” e “L’incredibile performance di un uomo morto” (fra le migliori) e alcuni grandi classici come “Disco labirinto”, “Nuova ossessione”, “Nuvole rapide” e “Aurora sogna”, oltre all’immancabile “Il cielo su Torino”.
Ma nella città in cui vivono circa trecentomila italiani (spettatori interessati degli imminenti sviluppi della Brexit) il concerto ha avuto un valore ancora più significativo visto il concreto sostegno che la band sta offrendo all’associazione Europa Now!, che chiede più “unità e democrazia” in vista delle prossime elezioni, per un’Europa “federale, giusta e solidale”. Un’adesione testimoniata dalla campagna “#europasonoio” lanciata dai Subsonica alla vigilia del tour e dalle parole di Max Casacci nella seconda parte dello show. “Ci siamo anche inventati una bandiera dell’Europa (disegnata da Marino Capitanio ed unico elemento scenografico sul palco) quella che non c’è, o meglio che non c’è ancora – ha detto il chitarrista – visto che la narrazione attuale sembra sia limitata solamente a vincoli di bilancio, norme e istituzioni. Il sogno europeo – ha aggiunto – quello delle origini, era un’altra cosa. Mia madre da bambina si rifugiava in cantina perché arrivavamo i bombardieri e quaranta milioni di morti dopo è nata una un’idea di Europa che era differente. In questo momento siamo a metà del guado, c’è bisogno di un racconto diverso, del vostro racconto – ha sottolineato rivolgendosi ai tantissimi connazionali espatriati – diteci quale è la vostra idea di Europa e come la immaginate per il futuro. Siamo – ha concluso Casacci – per l’Europa delle persone e dei diritti ma posiamo concretizzarla solo con la nostra narrazione”.

Un breve ma intenso discorso chiuso con la citazione “We must build a kind of United States of Europe” fatta dall’eroe di casa Churchill nel 1946, mentre l’esibizione ha vissuto i suoi sudati ed applauditissimi momenti finali con “Tutti i miei sbagli” e una splendida versione di Preso Blu, dedicata ai volontari di Emergency presenti in sala e quanto mai attuale nonostante i suoi vent’anni.

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Kruder & Dorfmeister a teatro

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Il tempo è passato anche per loro, Peter Kruder e Richard Dorfmeister non sono più i ragazzi che giocavano a fare Simon & Garfunkel sulla copertina dell’ep del debutto “G-Stoned”. Venticinque anni dopo i due dj e produttori brizzolati sono un pezzo di storia dell’elettronica, padrini di un suono che da Vienna ha conquistato il mondo. Come tali arrivano sul palco del Teatro Comunale di Bologna, per l’unica data italiana (ma il 5 luglio saranno a Milano) che celebra la loro carriera ma anche l’importante anniversario di Estragon, e apre con largo anticipo il programma degli eventi estivi promossi dal Comune.

Dettagli illustrati sul palco, in modo inusuale per il tipo di evento e in un clima di grande attesa, dai diretti interessati, compreso il responsabile di Wind Tre che ha reso possibile l’esibizione. Tutti i biglietti dell’affascinante teatro infatti sono stati distribuiti gratuitamente ed esauriti nel giro di pochi minuti, e i fortunati che sono riusciti ad accaparrarseli arrivando anche da lontano, sono tutti al loro posto, in platea come nei palchetti del maestoso teatro.

Dopo l’introduzione di rito, l’attacco inconfondibile di “Bug powder dust” riporta subito alla fine del Millennio e a quel “K&D Sessions” che ha cambiato le loro vite e ne ha influenzate molte altre, creando un genere che oggi suona ancora con la stessa eleganza. Dietro la consolle Kruder seleziona e Dorfmeister gigioneggia, mentre sul megaschermo alle loro spalle si alternano disegni, immagini e giochi di luci (nulla però rispetto a questa esibizione). In platea il pubblico attende solo un segnale per rompere la formalità del contesto che fortunatamente dura solo pochi minuti.

Su un altro pezzone come “Rollin’ on Chrome” infatti dalle prime file qualcuno abbandona il proprio posto invitando anche gli altri a seguirlo. In pochi secondi il teatro del 1763 diventa un raffinato club nel quale si muovo appassionati di età diverse a testimonianza del profondo solco tracciato dai due con le loro produzioni. Una carriera condensate in un set di due ore, che seppur a volumi un po’ troppo bassi esplora anche sonorità meno morbide, prima di un epilogo dai due volti. Se un’improbabile e inutile versione di “Bella ciao” lascia spiazzati, il finale con l’immortale remix di “Useless” dei Depeche Mode è il momento più alto e più atteso di un inedito sabato a teatro con Kruder e Dorfmeister.

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La fiera del gol

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(@dettobene)

Questo settore ospiti sembra uno di quelli che vedi nelle foto degli stadi dell’Est. Ci sono le reti, il filo spinato e i seggiolini scoloriti. Sono pieni d’acqua che gocciola fin sotto nel tunnel pieno di scritte, dove cammini saltando le pozzanghere degli scarichi che escono dai cessi. Mancano solo gli orchi ultra tatuati e ultra nazionalisti e mancano anche le guardie con le mimetiche. Invece ci sono solo i ragazzini insieme ai genitori nella tribuna a fianco, ti mandano in culo mentre gli steward balcanici, massicci e di poche parole, se la ghignano sapendo che sarà un pomeriggio tranquillo.

La curva del Perugia si riempie subito prima del fischio d’inizio, noi invece siamo tutti qua e siamo questi, pochi. Non è un bel periodo, la trasferta è lontana e poi oggi c’è la fiera e da Spezia non esce nessuno. In questi miei quasi vent’anni è capitato altre volte di essere in trasferta nei giorni di San Giuseppe ed è sempre stata la stessa storia. Per me la fiera è un ricordo degli anni Ottanta: il viaggio interminabile in corriera con i miei nonni e col sorriso, le navi in arsenale e le bancarelle a caccia di giocattoli. Più tardi, quando è capitato, ha significato un settore ospiti con i soliti a fare il conto dei presenti, come a Lucca, quando abbiamo vinto grazie a quel pacco di Scoponi, oppure a Latina. Lo ricordo a Lore e al Gianca, gli dico “magari vinciamo anche oggi” anche se in trasferta non succede mai. Loro non mi danno nemmeno retta e fanno bene.

Lì davanti i ragazzi manco ci pensano. Cantano, tirano su le bandiere e mandano affanculo i perugini. Orgoglio che oggi vale anche più del solito e lo sanno, anche perché in campo va come sempre. Cerri oltre a essere grande e grosso ha anche del culo, segna e almeno non ci fa i versi come Ardemagni l’unica volta che sono stato qui prima di questa. Due a zero e non serve nemmeno cercare di vedere qualcosa, incrociando le maglie delle reti di metallo. All’intervallo siamo già finiti. I quattro passi a vuoto verso il bar, che è in realtà un bibitaro vecchio stile, servono solo per rivedere la scritta a bomboletta “Ma che siete venuti a fa?”. Ce l’hai sulla testa appena rientri sui gradoni e non puoi fare a meno di leggerla. Almeno chi non è venuto si è risparmiato anche questa, così come l’inutile secondo tempo di una partita che per noi è già finita. Segna anche Bianco che qualche anno fa a Bari mi aveva dato la maglia, la prima presa e subito regalata al piccolo Jimmy. Era quasi ferragosto ed eravamo in pochi. Avevamo perso.

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Romanticismo sottozero

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Il San Nicola mi fa sempre l’effetto di un’astronave fuori produzione, circondata da grovigli di tangenziali con il profilo di una città brulicante e ospitale sullo sfondo. Il cielo terso e il sole ne illuminano il cemento e i cancelli, mettendo in evidenza tutti i suoi ventott’anni, mentre l’aria fredda si abbatte sulle nostre facce stanche e incazzate. La terza volta qui è quella della beffa, di una partita che non si gioca per neve, anche se la neve è ormai sparita del tutto e al kick-off mancano più di quattro ore. Più ci guardiamo intorno e meno riusciamo a credere alla più grande presa per il culo da quando abbiamo sta passione malsana.

Decisamente peggio di Pescara, dove non ci fecero i biglietti nonostante lo stadio semi deserto, o di quella volta a Bolzano, quando ci toccò vederla dal terrazzino di una palestra perché non avevamo la tessera. Oggi due ore di neve sono bastate al Prefetto per togliersi il pensiero e rinviare tutto. Poco importa se lo slogan della Lega di B è “Il campionato degli italiani” e quell’hashtag #rispetto lo piazzano su ogni cartellone. Ferie, soldi, ottocento chilometri in macchina, pullman o furgone non meritano rispetto?. No, e non è una novità, altrimenti fra poche ore saremmo di nuovo qua in sto parcheggio ricongiunti a tutti gli altri e pronti sgolarci dentro quell’astronave troppo grande per questo campionato. Invece non arriverà nessun altro e fra un po’ ce ne andremo anche noi, per finire in città una giornata amara e surreale in questo gelo soleggiato.

Mentre faccio due passi per dar tregua alla schiena, fra una telefonata e una tremila notifiche di oggi, mi viene in mente Ale che qualche giorno fa m’ha detto “siete dei romantici”. Gli raccontavo che stavo guidando verso il Picco, che sarei arrivato più o meno all’intervallo ma che sarei andato comunque. Gli ho risposto “può darsi ma siamo anche un po’ coglioni, è così e non possiamo farci niente”. Se mi richiamasse adesso gli ridirei la stessa cosa con la stessa convinzione, per il freddo, le ore di viaggio e tutto il resto. Probabilmente gli ripeterei le stesse parole perché alla fine qua ci siamo arrivati anche oggi, nonostante tutto.

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Vincere a Chiavari

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(@dettobene)

Questa è una trasferta senza pathos. Sarà la terza o quarta volta che vengo in  sto stadio e ho sempre preso solo freddo, umidità e gol, non c’è mai stato nulla di particolarmente interessante o da ricordare. Non c’è rivalità, non è di quelle che non ti fanno dormire la sera prima e poi la distanza è troppo breve; c’è pieno di gente che non vedi mai quando ci sono da fare più di cento chilometri.

L’unica istantanea di Chiavari che mi viene in mente è quella di Ramon: lui che arriva accompagnato da Teresa e io che gli scatto una foto mentre salutano un amico di vecchia data, e sorridono. Intorno c’è il solito casino di macchine e corriere ma tutti e tre si distinguono nettamente. 
Non ho una confidenza particolare con loro, però fermare la scena mi sembra una cosa quasi naturale, dovuta verso chi ha fatto un pezzo di storia della curva ed è lì in trasferta nonostante tutto. Poi in fondo mi è sempre piaciuto fare foto allo stadio. Come in ogni altra situazione per me è come prendere un appunto da conservare e ricercare per ricordare quel momento, una giornata o su una situazione precisa. Questa non è nemmeno particolarmente bella, è sfocata e fatta da lontano ma qualche tempo dopo diventerà ancor più significativa.

Ripenso a quel pomeriggio mentre passiamo davanti all’ingresso per cercare un posto dove mollare la macchina. E’ buio, pioviggina e manca più di un’ora alla partita. Una cosa incredibile per le nostre abitudini e ne approfitto subito per rompere i coglioni agli altri e cercare un posto dove mangiare. Non potete uscire” fa lo steward in un impeto di autoritarismo inutile, il tempo di trovare la stradina lungo l’Entella e siamo fuori dal recinto a caccia di cibo. In cinque, in direzione opposta allo stadio e con Andre che sembra un orco col cappuccio, diamo parecchio nell’occhio, ma qui il calcio è cosa da due ore il fine settimana e poi non manchiamo di rispetto a nessuno. La fame invece è cosa seria altrimenti non accetterei di mangiare in un posto con le pizze che hanno il nome delle canzoni di Vasco e le pareti sembrano quelle di un museo tutto dedicato a lui. Manca solo la cameriera con la fascetta sulla fronte.

Marco gode e Dani mi prende per il culo ma almeno arriviamo al settore ospiti a pancia piena. In ritardo ovviamente, perché abbiamo già perso la coreografia e il minuto per quel gran personaggio di Vicini. Siamo un ammasso casinista di giacconi fradici, patch Stone Island e cerate stropicciate, che si spostano continuamente fra il bar, la rete e i gradini di lamiera scivolosa a tre metri dal campo. Giochiamo in casa e glielo facciamo notare con l’arroganza che qui diventa quasi spontanea. Viene da dirla come quel fesso del cugino di Frodo in Green Street: “Entella, gioco così così, tifo zero”. Quelli che ci sono dell’altra parte si danno da fare, ma non c’è partita. In campo invece fatichiamo, del resto se i risultati fossero influenzati dalla passione avremmo una bacheca più grande. Un tempo intero di entrate dure, tiracci, pioggia e cazzate che diciamo io e Lore. Poi entra Giulietto e Palladino diventa quello che qualche anno fa ho visto zittire la Sud in un derby vero. Dani m’abbraccia e ride perché sa che dovrà mantenere la promessa, Marco è tranquillo perché tanto lui in trasferta non perde mai mentre Andre non si scompone troppo, anche se ci sta prendendo gusto.

Mentre passano i minuti e loro ci provano, picchiano e si buttano, mi viene in mente Roger. Stasera sarebbe qui anche lui, col giubottino leggero e il cappuccio legato troppo stretto sotto il collo. Al fischio finale tirerebbe giù un bestemmione liberatorio e poi ci piazzerebbe un sorriso dei suoi. Questi ultimi non mancano ma in mezzo a tutta sta gente mi piacerebbe cercarlo sapendo di poterlo trovare e guardarlo che se la ghigna felice come un bimbo. 

 

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Un tè buttato via

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(@dettobene)

Almeno oggi non fa freddo. Vabbè, ho le mani gelate e le scaldo con un bicchiere di tè chimico che fa schifo, ma per fortuna non si gela come l’altra volta quando c’era la neve ovunque. Eravamo stranamente in balaustra, non riuscivamo nemmeno a muoverci se non per prenderli per il culo dopo che Lotito aveva detto che erano troppo pochi per andare in A. Che poi alla fine ci sono andati davvero, mica come noi che siamo ancora qui a esaurirci con i playoff, gli esodi, i sogni, le lacrime e le trasferte impossibili.

Quattro gatti erano e quattro gatti sono, però la soddisfazione se la sono tolta. Dal nulla a girare ovunque, una stagione intera che noi ci metteremmo la firma anche solo a fare un girone d’andata sopra sta categoria. Tipo Mora, che qualcosa si è goduto anche se ha giocato poco. A vederlo con barba e capelli lunghi in mezzo a questi tutti uguali gli mancano solo l’accento incomprensibile da inglese del nord e la maglia di lana pesante. Chissà se ha letto la scritta di Ponzo prima di infilarsi la nostra.

Grande Paolino, oggi c’avrebbe fatto comodo per mettere un po’ di cuore lì in mezzo e far muovere tutti. Gli bastava vedere pallone e avversari e li rincorreva fino alla fine. Un po’ come noi che se ce ne fosse bisogno andremmo anche a sfidare qualche stadio di orchi in Russia, solo per attaccare pezze e sventolare bandiere.

“Non me ne frega un cazzo se Mora è forte e fa dei gol, basta che esca sudato”. David la fa facile, catapultato in trasferta sette anni dopo aver tribolato di notte, attaccato al computer con la telecronaca in chissà che cazzo di lingua pur di vedere lo Spezia a Cittadella o in casa col Trapani. Ha pianto di gioia o bestemmiato insieme a noi, solo che stava dall’altra parte del mondo. “Frè ti va bene che qua non ci sei mai stato, io sto posto lo odio”.

Il tè fa veramente schifo ma tutto sommato mi è andata meglio degli altri. Li ho lasciati alle prese con birra analcolica e un bombardino che riesce a bere solo Riccio. E’ ancora tiepido ma ci mette un secondo a volare oltre la ringhiera e finire sul cemento in discesa di sto finto velodromo. Mentre cade laggiù davanti esultano tutti, lo speaker dice cose senza senso e Mbakogu ci ricorda che qua non si passa, che i nomi e i soldi ce li possiamo anche tenere. Jerry Mbakogu, potrebbe stare in un video grime girato a Newham con la tuta dell’Adidas e le rime incazzate, e invece è qua che non lo tiene nessuno e se ne frega dei buu di qualche fesso.

Qui non c’è storia, finirebbero a prenderci per il culo anche se ci presentassimo con Ibrahimovic là davanti. Si perché Terzi la butta dentro solo per illuderci che stavolta possa andare diversamente, o magari solo per far scriccare quella torcia che alla fine la sua figura la fa sempre.

Esulti, ci credi, gli fai il verso della sega ma i vecchi in gradinata sono belli tranquilli, lo sanno che noi qua siam venuti solo per pagare il biglietto e far l’incasso al bar. Lo sa anche Melchiorri che non segna da un anno e ci guarda tutti uno per uno mentre la butta dentro. Mi dice “eccolo il tuo compleanno” e non ho manco un altro tè da buttar via.

Mentre ci cantano “non vincete mai” siamo già in via Marx. Di nuovo su questo vialone, in mezzo a tutti ste monotone palazzine anni Sessanta, impregnate di nebbia e indifferenza per noi che ce ne andiamo incazzati. Ancora una volta.

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A Milazzo in memoria di Giuseppe Tusa

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(di @dettobene)

Cinque anni fa il crollo della Torre Piloti di Genova l’ho seguito in tv subito dopo l’accaduto, in piena notte. Nelle ore successive ne ho scritto e nel giorno della camera ardente al Porto Antico ho visto da vicino il dolore dei familiari.
Ieri a Milazzo ho conosciuto la vicenda in una dimensione diversa. Nei luoghi, negli affetti e nelle persone più vicine ad uno di quei nove ragazzi.
Ho conosciuto Adele Chiello Tusa, madre per le quali coraggio, tenacia e dignità sono parole vere, concrete contagiose.
Ho visto cosa c’è oltre oltre il clamore e l’attenzione mediatica del momento, cosa significano anni di udienze, speranze e frustrazioni e cosa significa lottare ogni singolo giorno contro giganti veri e cinici.
Ho ritrovato le stesse emozioni in Daniela, accomunata ad Adele dallo stesso dolore e dalla medesima forza.
Ho provato l’emozione di reggere e portare in giro quello striscione con i trentadue volti e la loro storia viareggina.
Ho vissuto ventiquattrore intensissime e preziose, trascorse con compagni di viaggio perfetti.
Grazie di cuore a tutto il Lavoratorio Artistico.

Qui i miei articoli usciti su GenovapostCittadellaspezia e Voceapuana

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A caccia di bunker in Val di Magra

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(@dettobene)

“Ho un bunker in giardino, se volete potete venire a dare un’occhiata”. È partita da queste poche parole la campagna di scavi avviata nello scorso fine settimana in un terreno di Dogana a pochi passi dall’Aurelia, dove si sono ritrovati degli appassionati di storia militare che in poche ore hanno praticamente riportato alla luce un “Tobruk”, fortificazione tedesca in cemento armato, risalente al 1944.
Impegno profuso con entusiasmo da una “sporca dozzina” del gruppo Facebook “Luni e Apuania” che raccoglie quasi mille persone interessate al recupero di immagini, documenti e memorie storiche della Val di Magra ed in particolare del territorio ortonovese che in poco più di un anno mezzo ha dato vita ad una vivace ed attenta comunità impegnata sia in attività di archivio che sul campo.

“Ho fondato la pagina nell’ottobre 2014 per recuperare un po’ di testimonianze della mia frazione di origine – spiega Franco Bernardini – visto che inizialmente il nome era “Luni e Dogana”. L’intento era quello di coinvolgere le persone avvicinandole al recupero storico in un viaggio nel tempo che mettesse in risalto luoghi e tradizioni del nostro territorio andando anche a preservare un patrimonio che dai resti archeologici arriva fino alle cartoline degli anni Settanta. Non siamo storici ma ciascuno di noi ha portato le proprie competenze e le nozioni studiate negli anni. La cosa però è un po’ sfuggita di mano – ammette sorridendo – e in poco tempo ci siamo ritrovati in tantissimi a discutere di genealogia, costumi e ovviamente fatti e luoghi della Seconda Guerra Mondiale approfonditi anche con “Linea Gotica” di Davide Del Giudice o l’associazione “92esima Divisione Buffalo”. L’intento è stato fin da subito quello di valorizzare le nostre zone facendone conoscere origini e potenzialità, segnalando anche al Museo Archeologico di Luni il ritrovamento di alcune tracce nei pressi di Villa Podestà visto che non siamo specialisti ed è fondamentale collaborare con le istituzioni”.

Base ‘operativa’ del gruppo è il bar di Marco Corsi in località Serravalle, dove davanti a carte, volumi e piantine, illustrano le fasi del ritrovamento. “Il gruppo ha aperto un’autostrada creando grande curiosità sul nostro passato – sottolinea il titolare – con il sogno di poter trovare in futuro uno spazio da cui ricavare un punto di aggregazione storico e culturale e creare magari un percorso che unisca anche tutti i ritrovamenti e le fortificazioni”.
“Avevamo questo tobruk sotto il naso ma non lo avevamo mai notato – riprende Bernardini – poi una sera nel corso di una cena con amici la signora Maria mi ha detto “Io ne ho uno nel mio terreno, ci giocavo da piccola e a breve distanza ce n’è un altro dove giocava mio figlio”. Ci ha dato subito il permesso di poter scavare così sabato e domenica ci siamo ritrovati in una dozzina con uno spirito straordinario. Finiremo in questo weekend – prosegue – ma per il momento abbiamo trovato una struttura in ottime condizioni, probabilmente mai utilizzata visto che i tedeschi avevano lasciato la zona del Parmignola due o tre giorni prima dell’arrivo degli americani. Prima delle pale abbiamo utilizzato un metal detector per non correre rischi e fino ad oggi non è emerso alcun reperto – che avremmo subito segnalato alle autorità – e con il secondo intervento provvederemo a svuotarlo dalla terra e pulirlo. Per noi è stata una bellissima esperienza – spiega – ed una doppia soddisfazione: aver scoperto e riportato alla luce una struttura storica e aver restituito alla proprietaria un luogo della sua infanzia”.

Origine e storia del tobruk le ricostruisce invece Fabio Pisani, da quasi trent’anni studioso per passione di Seconda Guerra e fortificazioni. “Personalmente ho censito circa una trentina di bunker o postazioni difesa fra Sarzana e Carrara ed è stato eccezionale poterne esplorare uno così vicino a casa. I tobruk, ideati dagli italiani in Libia e poi perfezionati dai tedeschi, erano costruiti da imprese locali su ordine dell’organizzazione Todt, specializzata nella costruzione standard di postazioni in cemento armato sui vari fronti, che arrivava in loco ed arruolava – a quanto pare con stipendio e contributi – muratori del posto che spesso lasciavano graffiti, nomi o disegni sul cemento fresco, cosa che qui non abbiamo ancora riscontrato. Le linee difensive tedesche erano formate da principali e secondarie, come questa che andava da Fiumaretta fino al Muraglione, Fossone alto e Monte Barbuto, sulla linea verde numero 2 che era alle spalle della Linea Gotica e della 1 del Cinquale, spostata più avanti per sfruttare le colline e dove si era poi fermato il fronte. Qui – prosegue – i combattimenti ci sono stati solo sui rilievi dove i tedeschi battevano in ritirata mentre i fortini della piana a supporto erano rimasti sostanzialmente inutilizzati. Costruzioni analoghe, anche più ampie, sono visibili a Porto Venere, Monterosso, Fiascherino e Marinella mentre ad Arcola ce ne hanno segnalato uno poco distante dalla ferrovia. Molti – riprende Pisani – passano anche inosservati, altri sono stati invece demoliti dopo la guerra e a mio parere sarebbe bello poter creare un vero e proprio itinerario partendo dal Forte Bastione, altro luogo importantissimo che fu liberato dal reggimento americano “Nisei”, uno dei più decorati dell’esercito che era composto da soldati di origine giapponese”.

Preparati tanto sulle ricerche quanto sui documenti, Bernardini e compagni guardano già ad altri obiettivi ai quali dedicarsi nelle prossime settimane. “Avremmo già tre bunker da esplorare – dice il fondatore della pagina – purtroppo però uno appartiene al demanio e due sono in proprietà private quindi inaccessibili mentre per quello di Arcola ci piacerebbe avviare contatti con le istituzioni di competenza appena il livello del Magra scenderà un po’. Ci informeremo sull’altro tobruk segnalato dalla signora continuando le nostre ricerche. Il nostro intento – conclude Bernardini – è quello di preservare una memoria storica che rischia di sparire o di finire seppellita da terra e piante, vogliamo valorizzare le nostre bellezze rispondendo anche alla curiosità di appassionati con la speranza che questi luoghi possano diventare un valore aggiunto per il territorio anche sotto il profilo turistico”.

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(pubblicato su Cittadellaspezia il 16 marzo 2016)

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“Giappone Segreto”, storie di mondi fluttuanti in mostra a Parma

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Danzatrici, samurai, monaci e paesaggi affascinanti sono i grandi protagonisti della mostra “Giappone Segreto – capolavori della fotografia dell’Ottocento” che sarà al Palazzo del Governatore fino al 5 giugno per celebrare il recente accordo fra Parma e la Prefettura di Kagawa nel 150esimo anniversario della firma del trattato di amicizia e di commercio fra Italia e Giappone.

Circa 140 foto originali svelano tutta la grandezza di un particolare momento storico e artistico noto come “Scuola di Yokohama” legato anche ai viaggi nell’estremo Oriente dei cosiddetti “globetrotter” europei. Da qui nasce anche l’intreccio con la città Ducale visto che fra 1887 ed il 1889 il principe Enrico II di Borbone, fratello dell’ultimo duca regnante di Parma, con la moglie Adelgonda di Braganza effettuò una lunga tappa del suo giro del Mondo proprio in Giappone da dove tornò con preziose testimonianze del connubio fra fotografia ed illustrazione: le prime stampe all’albumina colorate dagli artigiani autori delle tipiche xilografie policrome.

Avanguardia e tradizione sono perfettamente rappresentate in un percorso diviso in undici tappe che analizzano la società giapponese di fine Ottocento con le sue sfumature culturali ed ideologiche. Lo fa attraverso gli scatti di Ogawa Kazumasa, Adolfo Farsari, Kusakabe Kimbei e molti altri, passando dai contesti di vita quotidiana al teatro; dai luoghi sacri e religiosi fino all’universo femminile con la figura della donna come filo conduttore alternativo.

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Ciascuna stanza è caratterizzata da un diverso colore e separata dalle altre da mini sezioni arricchite da oggetti differenti come i documenti di viaggio di Enrico II e consorte, album con copertine laccate, un’armatura, maschere di scena, una straordinaria serie di biglietti da visita di attori teatrali, tre kimono e stampe dei maestri più famosi dell’ukiyo-e.

A rendere ancora più coinvolgente l’atmosfera delle sale che si affacciano sulla centralissima piazza Garibaldi, contribuisce anche la sezione dedicata alle diapositive “gentō-ban”: lastrine di vetro colorate a mano e proiettate in sequenza, sempre caratterizzate da scene di vita quotidiana o scorci paesaggistici. Una chicca che impreziosisce il viaggio alla scoperta della contaminazione fra gli iconici mondi fluttuanti e la modernizzazione portata dalle tecniche fotografiche occidentali.

La mostra è curata da Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano e Marco Fagioli con il patrocinio del Comune e la produzione di Gamm Giunti in collaborazione con il Museo delle Culture di Lugano e la Fondazione Ada Ceschin e Rosanna Pilone di Zurigo.

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Una foresta nei club, vent’anni di Subsonica

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(@dettobene)

Più di 1600 fan ad attenderli all’interno del locale e loro bloccati fuori, in coda, per quasi mezz’ora. Cosa che per stessa ammissione dei Subsonica non era mai accaduta e che Boosta e compagni hanno potuto aggiungere agli altri mille aneddoti di una carriera lunga vent’anni, festeggiata al Mep di Sestri Levante per l’unica tappa ligure del tour celebrativo che si è concluso il 5 marzo a Catania dopo luna lunga serie di sold out. Lista alla quale si è aggiunta con largo anticipo anche la data caratterizzata dai timori per la pioggia e l’allerta meteo e soprattutto da un’affluenza che ha messo a dura prova la pista del locale da liscio, prestata nell’occasione al suono inconfondibile della band che proprio a Sestri tenne uno dei suoi primi concerti fuori da Torino.

Storia di fine anni Novanta, più di preciso del 1997, in cui uscì il primo album omonimo e punto di partenza di ogni esibizione di questo “Una foresta nei club tour”, pensato appositamente per ripercorrere cronologicamente un percorso scandito prima di ogni sezione – tre brani per ciascun album – da fatti e protagonisti del periodo. Come per la vicenda di Silvia Baraldini, citata nell’audio di un tg dell’epoca e protagonista di “Come se”, brano di apertura in un Mep stipato in ogni angolo e con la gente sistemata anche sulle porte di uscita. Un set antologico ma per nulla banale, con alcuni estratti presentati raramente in versione live ed eseguiti con lo spirito e l’energia degli esordi, quando i palchi erano molto più stretti e ad altezza del pubblico e pezzi come “Istantenee” e “Cose che non ho” erano le basi su cui costruire una strada proseguita con “Sonde”, “Aurora sogna” e “Colpo di pistola” da Microchip Emozionale. Episodi divenuti colonna sonora di una generazione di pubblico mescolato in buon numero ai giovani irriducibili delle prime file. Stesso sudore e identica memoria nel seguire i brani di Amorematico come “Albascura”, “Dentro i miei vuoti” o “Gente tranquilla”, esempio di quel modo di raccontare anche le pieghe più agghiaccianti dell’attualità italiana. Pezzo datato 2002, come scritto nei led alle loro spalle, a ricordare con le parole di Samuel anche quello che fu il G8 di Genova “in cui vennero cancellati tutti i diritti”.
Quindi i brani da Terrestre con l’apprezzatissima “Incantevole”, la travolgente “Abitudine” e “Corpo a corpo”, sintesi perfetta di una platea abbracciata ai cinque inesauribili musicisti, seguiti in lungo e in largo da fan dai quali nel tempo hanno ricevuto un affetto solidissimo, immune anche alle inutili polemche del mese scorso. Un (non) caso quello della colonna sonora di “The hateful eight” su cui si è soffermato Max Casacci – impeccabile per le due ore di concerto nonostante il piede ingessato dopo l’infortunio di Marghera – ribadendo il rispetto per Ennio Morricone, “fin dall’inizio un riferimento in Italia per la band” e soprattutto esprimendo una critica più che condivisibile a chi ha costruito sul nulla un polverone mediatico. Un intervento che il chitarrista ha concluso con un sincero ‘in bocca al lupo’ al Maestro in vista dell’assegnazione degli Oscar, prima di introdurre la sezione de L’eclissi del 2007. Anno di guerre ma anche di figure preziose come Gino Strada, salutato dal palco e dall’applauso del pubblico prima di “Ali scure”. Poi il crescendo verso il finale più adrenalinico con “Il centro della fiamma”, “Veleno”, “Benzina ogoshi” (suonata forse per la prima al Cep di Genova per Don Gallo) impreziosita sul finale dall’omaggio di “Io sto bene” dei CCCP, “band – ha sottolineato Samuel – che ha insegnato a molti come si vive”.

Ultimi atti di un set che ha confermato l’attitudine dei Subsonica alla dimensione del club scelta per questo tour, nonostante i numeri e il seguito siano da tempo più adatti a contesti più capienti. Un viaggio in un repertorio lungo vent’anni approdato fino ad Una nave in una foresta con “Specchio”, “I cerchi negli alberi” e “Lazzaro” per versare le ultime gocce di sudore prima del gran finale con “Tutti i miei sbagli” del 2000. “Brano pensato appositamente per Sanremo – ha concluso il cantante – dove siamo andati anche per essere accompagnati da un’orchestra, convinti che non ci sarebbe più capitato”. Ultime parole prima dell’ovazione e di un’emozionante arrivederci denso di ricordi.

foto @maiavignolo

(pubblicato su Genovapost il 28 febbraio 2016)

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Da Gabbani a De Gregori, storie e ritratti di Daniele Barraco

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(@dettobene)

Dalla musica al cinema l’immagine ha da sempre un ruolo fondamentale per identificare la copertina di un album o per esprimere la personalità di un attore o di un cantante. Molte fra quelle che capita di vedere su riviste come Venerdì di Repubblica, Sportweek, Rolling Stone, Wired o Sette del Corriere della Sera, portano la firma di Daniele Barraco. Fotografo sarzanese classe 1980, dopo aver riposto le bacchette della batteria suonata per anni con ottimi risultati, si è avvicinato alla fotografia imponendosi in breve tempo a livello nazionale come uno dei più richiesti ed affermati nel mondo dello spettacolo. Davanti al suo obiettivo hanno posato personaggi come John Malkovich, Iggy Pop, Christopher Walken e Pierfrancesco Favino, ma anche Luciano Ligabue, Malika Ayane o gli abitanti di Ameglia dove vive con la compagna e foodblogger Alice Lombardi. Fra i soggetti più recenti ha immortalato i vincitori dell’ultimo Festival, gli Stadio e Francesco Gabbani, curando le copertine dei rispettivi album con lo stile e il talento che gli hanno permesso di ritagliarsi uno spazio molto importante nel settore grazie ad un percorso che Daniele Barraco mi ha raccontato per CdS.

Recentemente hai collaborato con Daniele Silvestri il cui nuovo album è uscito nei giorni scorsi, la vittoria a Sanremo di Francesco Gabbani ha dato ulteriore visibilità alle tue foto e un marchio importante del settore come Hasselblad ti ha da poco scelto come ambasciatore per l’Italia. Come stai vivendo questo bel momento?
“E’ davvero un bel periodo, sicuramente intenso, ma queste grandi soddisfazioni ti alleggeriscono la fatica fisica e ti danno una carica emotiva non indifferente. Ho conosciuto Daniele Silvestri grazie alle nostre reciproche compagne (che sono amiche da decenni), è un artista che ha influenzato il mio percorso musicale quando ero ancora un musicista e scattare recentemente con lui è stato fantastico. Poi c’è Hasselblad, che uso da parecchi anni ed è per me uno strumento insostituibile. All’inizio della mia carriera, di tanto in tanto, finivo sul sito dell’azienda e fantasticavo pensando che un giorno avrei avuto una di quelle macchine tra le mani, ora ne sono diventato ambassador, il sogno è diventato realtà. E infine Francesco Gabbani, un amico fraterno. Francesco è stato una delle mie prime “cavie fotografiche”, siamo cresciuti artisticamente insieme cercando di aiutarci vicendevolmente e supportandoci (ma talvolta anche sopportandoci) l’un l’altro, per me era normale che Francesco si affermasse, doveva solo arrivare il momento giusto. La sera della sua proclamazione come vincitore tra le nuove proposte del Festival, ero in auto, accostato sul ciglio di una strada romana, stavo rientrando da un lavoro e così per non perderlo mi sono fermato ed io e la mia compagna Alice abbiamo seguito le ultime fasi vedendo Sanremo in streaming sul cellulare. Dopo la sua proclamazione abbiamo pianto di gioia, la sua vittoria è un vero e legittimo punto di partenza per una carriera importante che si merita davvero”

Per lui ti sei cimentato anche con la regia per il singolo di “Amen” e con ottimi risultati visto che il video ha già passato un milione e 300mila visualizzazioni. Come ti sei trovato con questa nuova esperienza? Pensi di ripeterla?
“E’ tutta colpa di Francesco, è stato lui, parecchi anni fa, a tirare fuori il potenziale registico in me, ci siamo divertiti a sperimentare. Il primissimo video l’ho fatto con lui ed è un videoclip di un suo vecchio brano, abbiamo portato un pianoforte a coda in mezzo ad un bosco. Oggi siamo arrivati ad Amen che ci sta portando grandi soddisfazioni con i numerosissimi consensi. I primi ad emozionarci siamo stati noi, nel girarlo e nel vederlo montato la prima volta. E’ l’ennesima dimostrazione che è necessario metterci dei sentimenti per poter emozionare gli altri. Quindi si, la ripeterò sicuramente, anzi ormai vedo la fotografia e la regia come due cose strettamente legate, quando scatto penso anche alla regia, quando filmo penso alla fotografia, è inevitabile”

Sei ormai un fotografo affermatissimo con un portfolio ricco di nomi di primo piano, ma quando hai deciso di passare dalla musica alla fotografia e quanto le tue esperienze acquisite in quell’ambito ti sono servite per sviluppare la tua nuova attività?
“Non mi sento e non mi vedo come un fotografo affermatissimo, piuttosto penso a me come ad un artigiano che lavora con grande passione, che tenta ogni giorno di superare i propri limiti, di soddisfare la propria curiosità, di conoscere persone e mezzi che gli permettano di potersi esprimere al meglio.
E’ proprio dall’esigenza espressiva che ad un certo punto la mia carriera da musicista si è interrotta, vuoi un po’ la frustrazione provata in un Paese che fa di tutto per ostacolare le arti e in particolar modo la musica, vuoi perché mi sentivo un po’ oppresso da quel mondo lì, ho deciso di fare un cambio inaspettato, E’ stata la mia compagna Alice ad averci visto lungo spingendomi in questa direzione, senza di lei io non esisterei come fotografo. Le esperienze si miscelano, ci si influenza a vicenda, ci si scambiano paure e incertezze e, nella migliore delle ipotesi, si esce cresciuti”

Cosa ti ha portato a concentrarti principalmente sui ritratti e cosa cerchi nei tuoi soggetti per stabilire l’empatia necessaria?
“Avevo iniziato fotografando oggetti inanimati, still-life, ma ho capito che mi mancava l’interazione con il soggetto.
Nasco molto timido, cresco abbastanza timido, maturo espansivo e sicuramente invecchierò animatore da villaggio turistico. La fotografia per me è una terapia contro la timidezza e il dover “affrontare” ogni volta persone nuove, è stata una sfida per aprire il mio carattere di base piuttosto introverso. Col passare degli anni ho capito che il materiale umano è la cosa più interessante, al di là delle fotografie, quello che più mi interessa è entrare in contatto con la persona e fare in modo che si crei empatia, cercando così di tirare fuori quella vera ed emozionante umanità. E cerco di farlo sempre con estrema educazione e tanto rispetto, elementi chiave per entrare in contatto con l’anima delle persone. Spesso questa scintilla scocca con naturalezza e il risultato è inevitabilmente un successo”

In questi anni hai avuto la possibilità di lavorare con grandi artisti nazionali ed internazionali, e con alcuni hai collaborato diverse volte. Penso ad esempio a Francesco De Gregori che ti ha scelto per numerosi progetti, come è nato il feeling con lui?
“Il rapporto con Francesco non è nato proprio nel migliore dei modi, le mie parole dopo il nostro primo incontro sono state testuali: “questo signore non lo voglio più vedere”. Sono passati i mesi, ci siamo rivisti e sempre per “colpa” della mia testarda compagna Alice è scoccata la scintilla. L’ho seguito nel tour di “Sulla Strada” poche foto, mirate, mai invadenti, pensando sempre molto prima di scattare, un bell’esercizio per me. Poi c’è stata la copertina di Vivavoce, il libro fotografico “Guarda che non sono io” del quale ho curato anche tutto il restauro dell’archivio privato. Adesso, quando io e Francesco ci troviamo attorno ad un tavolo e pensiamo al nostro primo incontro/scontro ridiamo di gusto. Negli anni ci siamo conosciuti meglio e apprezzati e penso di aver contribuito, in minima parte, a farlo aprire un po’ di più alla fotografia e alla versione De Gregori 2.0 che ora conosciamo”

La tua “collezione” di artisti è già molto ricca ma c’è qualcuno che ti piacerebbe ritrarre oppure poter fotografare di nuovo?
Tutti i soggetti che passano davanti al mio obiettivo diventano immancabilmente persone con un posto speciale nel mio cuore, nessuno escluso, dal cantautore famoso alla massaia mia vicina di casa. Se proprio devo fare un nome dico Roger Waters soprattutto perché è un altro di quegli artisti molto schivi e questa cosa mi suscita molto interesse, amo le sfide!. Se devo dire invece chi mi piacerebbe fotografare di nuovo, tornerei a nominare De Gregori, perché con lui ogni occasione è davvero speciale, imparo sempre qualcosa in più, l’ultima volta siamo stati in Portogallo in mezzo ad una distesa di ancore ed ho mangiato il polpo più buono della mia vita in compagnia di persone speciali… una cosa meravigliosa!”.

Ti sei avvicinato alla fotografia in un momento di grande cambiamento con l’avvento del digitale e del “mobile”, a tuo avviso smartphone e social media come Instagram hanno interferito con il mondo della fotografia oppure ne hanno solo modificato alcune dinamiche convivendoci senza problemi?
“Io sono pro social, pro instagram, pro smartphone ma sono anche pro cultura che mi sembra invece stia latitando un po’ nel nostro Paese. Nello specifico, se avessimo un bagaglio di cultura dell’immagine sapremmo distinguere buone immagini da immagini meno buone così come si dovrebbe saper distinguere un buon film o un buon libro da contenuti senza nessun valore. Di sicuro questi nuovi mezzi hanno reso più semplice la partecipazione attiva legata a questo mondo. Facebook, ad esempio, conta una media di 350.000.000 foto postate ogni giorno, è facile capire che tutta questa massa di informazioni possa distrarre e far perdere di vista la qualità, la coerenza e lo stile di una fotografia. Sono una persona abbastanza “social”, cerco di aggiornare il più possibile le mie pagine e aggiornare i miei followers sulle mie attività in corso ma cerco di farlo sempre, sperando di riuscirci, con buoni contenuti”.

Ad oggi qual è la soddisfazione più grande che questo mestiere ti ha dato?
“Le soddisfazioni professionali sono proporzionali al percorso che un individuo fa durante la sua carriera, all’inizio sono poche e rare ma ti devi appigliare a qualsiasi minima cosa per trovare la forza di proseguire nella tua strada e non mollare.
Oggi, complice forse anche un po’ la stanchezza derivata dai molteplici impegni e “vittorie” degli ultimi mesi, mi va di dirti che la mia soddisfazione più grande, grazie anche alla presenza delle persone che mi sono sempre state vicine, sono io. Non lo dico assolutamente in senso autoreferenziale o egocentrico anzi, lo dico come stimolo per potere suggerire ad altre persone di credere in loro stessi senza cedere mai perché garantisco che non esistono scorciatoie: solo un percorso fatto di sacrificio e tanta, tantissima passione può portare a grandi risultati”

Su cosa lavorerai nei prossimi mesi?
“Non ne ho idea, come sempre. Ma non starò fermo”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 28 febbraio 2016)

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Jean Jullien e il suo disegno “per Parigi, per le vittime e loro famiglie”

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“Peace for Paris” (Jean Jullien)

(@dettobene)

“Ho fatto questo disegno nel modo più spontaneo e sincero, come reazione di cuore verso quello che stava accadendo”. Tramite il suo profilo Instagram oggi Jean Jullien ha spiegato con queste parole il senso di quello che grazie ai social è diventato in poche ore un’icona del cordoglio per le vittime degli attentati del 13 novembre a Parigi. Poco dopo gli attacchi a St.Denis, al Bataclan e nelle strade del centro, il giovane illustratore originario di Nantes ha twittato l’immagine con la Tour Eiffel all’interno del simbolo della pace. Un tratto semplice ma d’impatto, tanto efficace da ottenere brevemente centinaia di migliaia di condivisioni finendo replicato un po’ ovunque (ieri anche sulla maglia dello Spezia Calcio), e come capitato anche alle celebri matite di Lucille Clerc dopo l’attentato a Charlie Hebdo, attribuito inizialmente in modo errato al solito Banksy.

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@jena_jullien

Finalmente nelle ultime ore un po’ tutti hanno scoperto e potuto apprezzare anche gli altri lavori del grafico che nel suo curriculum ha anche collaborazioni per The New Yorker, Guardian e Centre Pompidou.
Oggi, sempre tramite Instagram è tornato su quel disegno: “Grazie a tutti per i vostri messaggi di sostegno per Parigi – ha scritto – da quando ho pubblicato “Peace for Paris” ho faticato a tenere il passo e tornare a fare ciò che più amo: disegnare. Quello che ho fatto è un disegno per Parigi, per tutte le vittime e per le loro famiglie. E’ il modo peggiore per essere conosciuto – ha ammesso – visto che normalmente con il mio lavoro cerco di far sorridere le persone. Non l’ho fatto per trarne beneficio, è un segno per tutti per condividere mostrare il loro supporto e la loro solidarietà. E’ un segno di pace – ha ribadito – per tutte le altre città e paesi di tutto il mondo toccati da tali assurdità e violenza. Le vittime degli attentati stavano facendo quello Parigi fa al meglio: ridere, bere, chiacchierare e ascoltare musica. Vivere e amare”.
Parole molto significative accompagnate da un’altra illustrazione con i suoi tratti distintivi che in questo caso ha posto l’attenzione sul cuore, perché “questo è tutto quello che potevo disegnare oggi – ha ammesso – il mio cuore e il mio amore alle vittime e a Parigi, perché si possa continuare a vivere e ad amare”.

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Badia al Pino e Gabriele Sandri

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(@dettobene)

Da quella domenica del 2007 ogni 11 novembre ripenso a quanti autogrill ho visto macinando chilometri in giro per l’Italia dietro allo Spezia. A quante volte avrei potuto ritrovarmi nella situazione di Gabriele Sandri durante un viaggio con gli amici di sempre, a cinquanta come a cinquecento chilometri da casa. Un pensiero fatto anche oggi, dopo aver visto diverse volte negli anni il punto da cui sparò Spaccarotella come il pezzetto di prato dove si trova il cippo dove continuano a fermarsi tutti gli ultras. Mi è tornata in mente anche la prima volta, di ritorno da Avellino quando si tornò a giocare quindici giorni dopo il fatto e Vi il quale notando sugli scaffali dell’autogrill il modellino della Volante lo girò, in modo che non si vedesse, dicendo alla commessa “no signora, non mi sembra proprio il caso, non qui”.

Riporto qui alcuni passaggi di un pezzo scritto nel 2008 ad un anno dal fatto. (Qui)

“Il sabato per il calcio e il giorno successivo per la famiglia, a tavola mentre in giro per l’Italia migliaia di altri ragazzi si apprestano a vivere le stesse emozioni da te provate ventiquattrore prima. Migliaia meno uno; uno dei tanti, la cui vita è appena finita in un’anonima area di sosta in Toscana. Badia Al Pino è solo il nome di un luogo; Gabriele Sandri l’identità di una persona con la quale inizialmente ti sembra di non aver nulla a che fare. Poi nelle ore successive ti accorgi che quel ragazzo non era solo un tuo coetaneo, ma come te amava la vita, la musica e gli amici, condivideva la tua stessa passione per la propria squadra del cuore; tanto da ritrovarsi a viaggiare da Roma a Milano per vederla dal vivo. Apprendendo i particolari della vicenda, la dinamica del fatto e la genesi di quel viaggio, ricordi quante volte ti sei ritrovato in piedi prestissimo ma sveglio e lucido come non ti sarebbe mai capitato in altre occasioni. Puntuale all’appuntamento con gli amici, quelli di sempre, con i quali negli anni condividi gioie e dolori, magari conosciuti proprio grazie all’amore comune per la tua squadra. In piena notte oppure all’alba, con buona pace di genitori apprensivi che ti vorrebbero a casa anziché in viaggio alla volta di città lontane. Almeno apparentemente tranquillizzati dalle consuete frasi di circostanza, anche se dentro di te speri che tutto possa andare bene come sempre successo fino a quel momento. Persuaso da una sicurezza apparente, pur sapendo che talvolta le cose non dipendono da te, che per quanto tu possa essere pacifico, “tranquillo” o comunque portato a farti i fatti tuoi, possa capitarti di ritrovarti in situazioni pericolose o non volute. Avendo un minimo di esperienza, sei perfettamente conscio che per quanto gli stadi siano “sicuri”, gli autogrill e le aree di sosta per forza di cose non possano esserlo. Pur essendo al corrente della cosa pensi che per una logica del tutto irrazionale certe situazioni spiacevoli debbano capitare ad altri e non a te; lo fai senza un motivo preciso, rimandando, nascondendo la consapevolezza del pericolo. Rimani della tua idea fino a quando non prendi coscienza della morte, fino a quando in quel luogo tanto insignificante quanto disgraziato ti ci trovi, pochi giorni dopo l’accaduto. Immediatamente comprendi di un colpo di pistola sparato da settanta metri di distanza; vieni assalito dallo sconforto. Lì, in quel luogo di morte, capisci quante volte quel ragazzo avresti potuto essere tu, in una qualsiasi giornata di campionato in giro per l’Italia, fermo in una qualunque area di sosta bramando un caffè ed un cornetto cercando di scacciare dalla testa l’idea del letto caldo abbandonato qualche ora prima; ma sempre con l’irrefrenabile voglia di stare vicino ai tuoi colori”. 

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Pasolini e i Partigiani di Sarzana

12 dicembre

(@dettobene)

Fra l’intervista alla vedova Pinelli, la rivolta di Reggio Calabria e i morti delle cave di Carrara c’è anche un po’ di Sarzana con lo scontento degli ex partigiani “traditi” dalle scelte e dalle decisioni del Partito Comunista nel Dopoguerra. Ritratti della realtà operaia e politica dell’Italia poco dopo la strage di Bologna e la misteriosa morte dell’anarchico milanese, inseriti da Pier Paolo Pasolini nel documentario “12 dicembre” realizzato con Lotta Continua e pubblicato nel 1972. Una collaborazione quella fra l’intellettuale di cui oggi ricorre il quarantesimo anniversario della morte e il collettivo extraparlamentare, che per quanto inizialmente inattesa portò invece alla composizione di un viaggio politico e sociale in un periodo storico caratterizzato da tensioni, lotte operaie, povertà e appunto il malcontento di alcuni ex combattenti “traditi” dopo la Resistenza.

Sul documento recentemente restaurato è stata ormai chiarita anche la chiara paternità di Pasolini grazie al ritrovamento di una registrazione, riportata anche dal Centro Studi di Casarsa della Delizia, nella quale lui stesso spiega: “C’ho lavorato, l’ho montato io, ho scelto io le interviste ma non ho messo la regia, perché gli avvocati che l’hanno visto mi hanno detto che era pericolosissimo, che mi avrebbero messo in prigione. E allora abbiamo trovato una formula per cui il mio nome ci fosse, perché chi voleva capire capisse, ma formalmente non potessero procedere contro di me. Io ho girato circa un sessanta per cento, ma l’ho montato tutto io. Però – e questo è il punto – non ci ho messo la mia ideologia. Da una parte ho messo quella che è la realtà, dall’altra ho fatto dire le loro idee a questi di Lotta Continua”.
Nei crediti iniziali si legge infatti “da un’idea di Pier Paolo Pasolini” mentre soggetto e sceneggiatura sono attribuiti a Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi anche se come detto lo scrittore e regista girò in prima persone alcune sequenze.

La parte sarzanese venne invece affidata a Mario Schifano, altro protagonista di primissimo piano della cultura italiana dagli anni Sessanta in avanti. Straordinario pittore (ma anche regista) che fu a lungo sostenitore e finanziatore di Lotta Continua e che Sarzana girò la scena in un’osteria di via della Pace gestita allora da un certo Bastian. Pochi minuti che davanti al bancone riprendono seduti attorno ad un tavolo un giovane Andrea Ranieri, che in merito “a Stato e partiti che non riescono a mettere nell’illegalità il fascismo” replica con una battuta sullo “Stato che è fascista”, e i partigiani Ernesto Parducci, “Martin” Isoppo e Magnolia detto “Gas”, oggi tutti scomparsi.
“Quando siamo andati ai monti eravamo un nucleo di gente pura che lottava per un ideale – dicono gli ormai ex combattenti – volevamo realmente cambiare la situazione ma è stato un inganno, una truffa. Hanno venduto quello che era il movimento partigiano”.

Una frustrazione per quello che non è stato dopo una stagione di lotta sanguinosa anche in Val di Magra, ben spiegato anche da Martin: “Quando tornai a casa nel maggio del 1945 mi dissero “cerchiamo di fare l’Italia con un altro sistema democratico e avanzato, con le riforme, senza tirrania o monarchia. Ma le cose non erano cambiate – osserva – cominciavano le lotte, gli scioperi, cominciavano di nuovo a sparare, mi dicevo “che Repubblica abbiamo fatto quando ci sono morti, la polizia che spara e Togliatti che concede l’amnistia ai fascisti?”. Che Repubblica abbiamo fatto, dicevo fra me e me, ma loro mi rispondevano: “Un passo alla volta, un passo alla volta, un passo alla volta”. Passi che sono sempre stati fatti nello stesso posto, tanto che per conto mio dove il Partito Comunista mi diceva di fare quei passi c’è un buco di due metri”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 2 novembre 2015)

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Addio a Diane Charlemagne, straordinaria voce di “Inner city life”

Foto di Alex Freeman

(@dettobene)

Apprendo con dispiacere da un post di Ayah Marar della morte di Diane Charlemagne, straordinaria voce di molti brani entrati nella storia della dance e dell’elettronica inglese dagli anni Ottanta ad oggi. Nata nel 1964 era malata da tempo e una delle sue ultime collaborazioni era stata per il progetto di solidarietà “I’am somebody” con Street Child World Cup a cui aveva prestato l’inconfondibile voce.

Dopo gli inizi con la 52nd Street Diane Charlemagne negli anni Novanta si era avvicinata alla drum and bass lavorando con Metalheadz e Reinforced fino al capolavoro assoluto di “Inner city life” con Goldie nel 1994. Capace di passare dalla jungle al jazz e al pop aveva contribuito anche a brani di Satoshi Tomiie, Calibre e negli ultimi anni a produzioni Hosptial Records con Netsky, High Contrast e London Electricity.

Fra questi anche Spy con il quale ho avuto la fortuna di ascoltarla dal vivo all’Academy di Brixton nel 2012.

(foto di Alex Freeman)

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Tracce di street art a Sarzana

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(@dettobene)

Nata come espressione artistica prevalentemente urbana la street art da qualche anno è ormai uscita dai centri e dalle periferie delle grandi città diventando pratica diffusa un po’ ovunque. Anche a Sarzana, dove nei mesi scorsi ne sono apparse tracce inequivocabili come gli omaggi al “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich e alle vittime di “Charlie Hebdo” su alcuni muri del Parentucelli o le scritte “Do it” sulle strisce pedonali di Piazza Ricchetti fino alla particolare coppia di innamorati su una centralina Enel di Sarzanello. Graffiti e stencil che portano la firma di “untitled_” , gruppo che qui racconta la propria attività.

Quando avete iniziato e come vi siete avvicinati alla street art?
“Il progetto Untitled_ è iniziato circa un anno fa. Spinti dalla curiosità e dalla passione per le opere di autori come BluBlu e in parte (soprattutto per gli stencil) da Banksy abbiamo deciso di esprimerci così. Il nostro è un collettivo aperto e non ha un numero preciso di membri, c’è un ricambio continuo con ragazze e ragazzi che ci danno un mano. Abbiamo un’età media di vent’anni e abbiamo scelto di restare anonimi perché vogliamo essere giudicati in base alle cose che facciamo, i nostri pezzi possono piacere o meno ma questo non deve dipendere da chi li realizza, non importa chi c’è dietro ma quello che comunicano. Nella società dell’immagine non rifiutiamo proprio quest’ultima perché per noi questa è una passione e non un lavoro, cerchiamo solo di esprimere quello che pensiamo e che ci piace”

Cosa influenza i vostri lavori e cosa volete comunicare?
“Le ispirazioni arrivano dalle nostre passioni, dall’arte ai fumetti e alla letteratura. A questo aggiungiamo magari un significato più originale e nostro. L’obiettivo è quello di trasmettere qualcosa alle persone che camminano per strada e s’imbattono nelle nostre cose, suscitare sentimenti ed emozioni, far sorridere o riflettere uno sconosciuto che magari ha visto quel muro grigio mille altre volte. Non pensiamo di fare vere e proprie “opere”, ci fa piacere che siano gli osservatori a trovare un significato che può variare in base alle esperienze di ciascuno. L’ultimo lavoro con i due scheletri abbracciati davanti all’esplosione è piaciuto molto e siamo contenti. Per noi può essere l’amore che resiste anche di fronte alle guerre, per altri ad esempio potrebbe rappresentare il ricordo delle troppe persone morte nei vari conflitti e delle quali è rimasto un ricordo”.

Come scegliete i luoghi sui quali dipingere? In molte città le stesse amministrazioni affidano a street artists la riqualificazione di alcune aree, voi accettereste?
“Scegliamo muri in disuso o pareti che a nostro parere potrebbero essere migliorate con qualche graffito, per nessuna ragione al mondo sceglieremmo facciate o spazi di interesse storico o artistico. Tuttavia soprattutto in centro ci sarebbero molte pareti male intonacate o coperte da scritte orribili che potrebbero essere abbellite con qualche pezzo. Noi non le prendiamo in considerazione perché sono dei privati e perché ci dispiacerebbe vederli coperti in seguito dopo aver speso tempo e denaro per crearli. Il Comune potrebbe concedere alcuni spazi, non solo a noi ma in generale a chiunque voglia esprimersi tramite questa forma d’arte. Nel caso però questi graffiti dovrebbero essere tutelati impedendo che vengano rovinati subito dopo dalle brutte tante scritte che ci sono anche su molti muri del centro storico”

Non mancano purtroppo i casi di artisti come Alice Pasquini o altri denunciati proprio dopo aver realizzato dei graffiti alla luce del sole
“Purtroppo si commette l’errore di associare l’arte ad atti vandalici che nulla hanno a che vedere. La street art non è vandalismo e soprattutto in Italia molti dovrebbero iniziare a capirlo. Scrivere insulti con una bomboletta sul muro di una chiesa o del comune è sbagliato e non è quello che facciamo. Per noi è passione ed espressione di idee e sentimenti che altrimenti rimarrebbero sconosciuti ai più. La street art è sacrificio e spesso comporta anche dei rischi, anche legali”.

Il successo planetario di Banksy, Mr.Brainwash e tanti nel corso degli anni ha cambiato anche alcune dinamiche del fenomeno, molte opere dalla strada sono entrate nelle gallerie d’arte e nelle case dei collezionisti, voi cosa ne pensate?
“Crediamo che questa cosa debba restare legata alla strada. Quando entra in museo viene snaturata diventando arte contemporanea. Troviamo sbagliato che uno debba pagare per ammirare una cosa pensata e sviluppata per stare in strada dove tutti la possono vedere. Per noi, che non pensiamo di essere artisti, è una differenza molto importante, siamo studenti e le uniche cose che abbiamo fatto su commissione sono state vendute per finanziare quello che facciamo in strada”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 15 ottobre 2015)

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Incontro con una madre di Plaza de Mayo

Lapide per i desaparecidos (foto Benedetto Marchese)

(@dettobene)

“Le vendette non servono, quello che chiedo è che non ci sia mai più silenzio, perché la cosa peggiore che abbiamo dovuto soffrire è stato il silenzio della stampa, della Chiesa, di tutti i complici delle persecuzioni. Di fronte a guerre e genocidi dovete parlare, senza mai essere indifferenti o guardare altrove”. E’ stato un messaggio molto significativo quello lasciato  agli studenti di tre classi del Parentucelli da Vera Vigevani Jarach, rappresentante delle “Madri di Plaza de Mayo” ospite di “Incontrare la memoria”, appuntamento autunnale del Festival Sconfinando tenutosi nella sala consiliare di Sarzana. Testimone diretta del dramma dei desaparecidos durante il regime di Videla ha infatti raccontato la propria esperienza nei fatti che fra il 1976 ed il 1983 segnarono una profonda ferita nell’Argentina che vide sparire nel nulla, dopo torture ed umiliazioni, più di 30mila dissidenti la maggior parte dei quali giovanissimi.
Accolta da Carmen Bertacchi, direttrice artistica della manifestazione che si è spesso occupata anche di minoranze e solidarietà e da Patrizia Rossi e Rossana Pittiglio in rappresentanza dell’amministrazione e del consiglio comunale, Vera Vigevani è stata accompagnata da Daniele Zuffanti dell’associazione “24 marzo” e introdotta da Gerardo Victorio Giffuni, insegnante venezuelano del linguistico “Manzoni” di Milano il quale ha sottolineato: “Sono grato a Sarzana per come ha aperto le porte a queste tematiche, prima con lo spettacolo “Los Justos” e oggi incontrando una grande testimone della storia di due continenti”.
“La parola “sconfinare” mi piace moltissimo – ha esordito la minuta e tenace ospite – perché è fondamentale andare oltre i confini ed i limiti, avvicinarsi e discutere. Le parole hanno un valore e di questi tempi si cita spesso la “tolleranza” ma noi non dobbiamo tollerare, dobbiamo rispettare, perché anche quello dei migranti è un genocidio che riguarda persone che hanno bisogno di solidarietà ed accoglienza. Come avvenuto in Argentina dove gli emigranti furono accolti e fatti integrare”.
Accade anche a lei e alla sua famiglia di origine ebraica quando nel 1938 all’età di dieci anni raggiunse il paese Sudamerica in seguito alle leggi razziali. “Sono andata via dall’Italia per sfuggire al nazismo – ha raccontato – mio nonno è finito ad Auschwitz e come mia figlia non ha avuto una tomba, solo vent’anni dopo ho scoperto che anche lei è passata da un campo di concentramento (il famigerato “Esma” di Buenos Aires) prima di sparire su un volo della morte. Il passato è importantissimo – ha detto rivolgendosi agli studenti che l’hanno seguita con grande attenzione – ma bisogna guardare avanti perché è necessario conoscere i fatti per evitare che certe cose si ripetano. Cercate sempre di capire e di non fermare testa e gambe, anch’io finché potrò girerò con questo fazzoletto”.

Il pezzo di stoffa bianco annodato sotto il collo è infatti il simbolo delle mamme e delle nonne che affrontarono pacificamente il regime sfilando in Plaza de Mayo. Ognuno porta il nome di una persona scomparsa, nel caso di Vera Vigevani quello di Franca, svanita nel nulla a soli 18 anni. “Il colpo di stato del 1976, nel 24 marzo come l’eccidio della Fosse Ardeatine, avviò l’ultima di sei dittature, quella “civico militare” sostenuta dai poteri forti con lo scopo di evitare quei cambiamenti che avrebbero potuto portare ad una giustizia sociale per tutti. Da quel giorno tutto si intensificò e visto che fra genitori ci conoscevamo decidemmo di riunirci in piazza, da sempre luogo di contatto fra il popolo e chi lo governa. C’era lo statoo di assedio e non si poteva stare ferme in gruppo così camminavamo senza fermarci, avevamo paura ma stavamo lì mentre i mariti ci guardavano da lontano per non correre il rischio di essere portati via, sorte toccata a tre di noi e ad una suora che erano state sequestrate, torturate ed uccise. Erano trattate un po’ meglio solo le donne incinte i cui figli venivano poi dati alle famiglie dei militari. Le abuelas, le nonne, ebbero invece il compito prezioso di preservare l’identità delle famiglie ed evitare che i bambini crescessero con gli assassini dei loro genitori. Chi sopravvive diventa fondamentale. Ci definivano “le locas”, le pazze – ha proseguito – ma volevamo solo sapere dove erano finiti i nostri figli. L’idea dei fazzoletti bianchi o dei pannolini di stoffa dei neonati sulla testa nacque durante una marcia, per distinguerci ma anche per ricordare i nomi dei nostri ragazzi che la dittatura voleva cancellare. Dopo i fazzoletti vennero le foto con i loro volti per creare una resistenza esclusivamente pacifica. In Argentina nessuno si è fatto giustizia con le proprie mani”.
Ex giornalista dell’Ansa e memoria storica di quei giorni, Vigevani Jarach ha ricordato anche collaboratori e colpevoli di quel regime: “L’ambasciatore italiano Enrico Carrara chiudeva tutte le porte, si mandavano le notizie ma non arrivava nulla, solo il Corriere della Sera iniziò a pubblicare qualcosa interrompendo questa censura. Tutti mi chiedono del comportamento della Chiesa: quella del popolo era con noi, quella dei prelati e del Vaticano è sempre rimasta in silenzio, il nunzio apostolico ci diceva “poverette” ma noi volevamo azione non compassione. Solo il presidente Sandro Pertini – ha affermato – ruppe il silenzio dichiarando “io sono indignato per quanto sta succedendo in Argentina per i nostri connazionali”. C’è sempre chi mi parla di ‘obbedienza dovuta’ ma questa non è e non era obbligatoria, anche Priebke, che a Bariloche ha fatto una vita normale da cittadino comune, si è sempre difeso dicendo “ho ubbidito agli ordini” nonostante abbia commesso altri crimini oltre al noto eccidio di Roma. Preferisco ricordare ‘i giusti’, quelli che si sono adoperati per gli altri come il Console Enrico Calami (detto anche “lo Schindler di Buenos Aires”) o i cittadini di Nonantola che salvarono molti adolescenti ebrei”.
Nel corso della mattinata, in cui sono stati citati anche genocidi come quello armeno le drammatiche situazioni attuali di Venezuela o Messico, è emerso anche il legame diretto fra l’Argentina di allora e Sarzana dove fra il ’76 ed il ’78 trovarono rifugio molti esuli con le loro famiglie. Un episodio di solidarietà e generosità tuttora ricordato da una targa nel centro cittadino.  “Unitevi e pensate in gruppo – ha poi concluso Vera Vigevani Jarach parlando agli studenti – affidatevi all’amicizia e alla fratellanza e impegnatevi con la ragione per cambiare le cose”.

Vera Vigevani Jarach a Sarzana

(pubblicato su Cittadellaspezia il 12 ottobre 2015)

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Fra cenere e coraggio: nel cantiere di Gianfranco Franciosi

Gianfranco Franciosi

(@dettobene)

Convive con l’amara sensazione di essere stato abbandonato dallo Stato Gianfranco Franciosi, il testimone di giustizia che meno di una settimana fa ha visto letteralmente andare in fumo il suo cantiere di Ameglia, distrutto da un incendio nella notte fra venerdì e sabato. Un rogo del quale non è ancora stata accertata l’origine anche se il noto meccanico navale non ha dubbi: “Quando la sera me ne vado non lascio nulla di elettrico acceso – spiega Franciosi – e per quanto non siano state effettuate analisi chimiche sono certo che sia stato doloso. Lo confermano anche lo sviluppo delle fiamme e le altissime temperature che hanno fuso alcuni pezzi di ghisa, come riscontrato anche dai periti della “Rischi e Perizie” che stanno svolgendo quello che avrebbe dovuto fare la Magistratura”. Fra le ipotesi prese in considerazione c’è stata anche quella di una ritorsione da parte della concorrenza ma il recentissimo passato di Franciosi porta inevitabilmente a scenari ancora più preoccupanti.
La sua vicenda, raccontata anche nel libro “Gli orologi del diavolo” scritto con il giornalista di Presa Diretta Federico Ruffo, parla infatti di lui come del primo civile – in gergo “agente interposto” – infiltrato per quattro anni all’interno di un’organizzazione internazionale che importava cocaina in Europa dalla Colombia. Un ruolo decisivo per l’esito dell’operazione Albatros che nel 2008 portò al sequestro di diverse tonnellate di droga e all’arresto della gang che da allora condannò a morte Franciosi e la sua famiglia stravolgendone la vita. Dopo quasi tre anni trascorsi sotto protezione in un programma di testimone di giustizia ne era uscito volontariamente dopo aver toccato con mano contraddizioni ed incongruenze derivanti dalla nuova identità, tornando così alla propria vita potendo contare, sulla carta, sugli standard di tutela previsti. “Uscire dal programma testimoni – spiega, mentre nell’aria c’è ancora l’odore acre provocato dalle combustioni di resina e solventi – significa perdere casa e stipendio dati dallo Stato ma non la protezione. La legge deve provvedere alla mia sicurezza e a quella della mia famiglia ma pur avendo inviato due volte il documento e chiesto di essere ricevuto dal Prefetto della Spezia non sono mai stato ascoltato. Io voglio solo sapere se sono in pericolo di vita oppure no, lo Stato deve dirmi cosa è accaduto qui la settimana scorsa e perché non posso fare il mio mestiere sentendomi al sicuro”.

Fra gli altri al suo fianco c’è anche Ignazio Cutrò, imprenditore siciliano e presidente dell’associazione nazionale dei testimoni di giustizia. “Gianfranco vuole vivere e fare una vita normale – afferma – come me e come le altre 150 persone che in Italia sono nella nostra situazione, siamo persone civili, cittadini che hanno fatto qualcosa per l’Italia. Mi appello direttamente al Ministro Alfano perché prenda in mano la situazione e faccia ciò che non avviene a livello locale. È facile parlare di “ex testimoni” – denuncia – ma si rimane testimoni di giustizia per tutta la vita perché le mafie non dimenticano ed è quindi doveroso fare luce su quello che accade. Io ringrazio l’Arma dei Carabinieri che mi ha aiutato ed adottato ma persone come lui non possono essere abbandonate, qualcuno deve dare delle risposte perché non voglio piangere un’altra persona e perché deve poter continuare la sua vita e il suo lavoro. Noi siamo pronti a venire qui a proteggerlo ma anche ad aiutarlo a terminare le barche perchè questa sarebbe una grande vittoria”.

Nel rogo di venerdì notte, che ha causato danni per circa centomila euro, è andato infatti distrutto anche il locale nel quale custodiva lo stampo di una chiglia della linea “Gioia” che sarebbe stato premiato al Salone Nautico di Genova. “Abbiamo ricomprato gli allestimenti – spiega lui stesso – e stiamo lavorando giorno e notte per portare a termine i lavori. Proprio stasera due barche partiranno per Genova e grazie alla disponibilità degli organizzatori altre due potranno essere portate in tempo per l’apertura grazie anche al Nop (Nucleo Operativo Protezione) che garantirà la sicurezza nel viaggio. In questi giorni ho sentito grande solidarietà da parte dei colleghi e dal Comune di Ameglia che è sempre stato al mio fianco e che grazie alla recente fiera nautica di Bocca di Magra fatta con la Confartigianato mi aveva dato una grande motivazione in vista dell’appuntamento genovese”.
Una vicinanza testimoniata anche dalla presenza dell’assessore comunale Emanuele Cadeddu in rappresentanza proprio dell’Amministrazione e degli operatori: “Mi unisco – sottolinea – all’appello alle Istituzioni affinché Gianfranco e la sua famiglia possano tornare a vivere in piena serenità e sicurezza, auspicando che questa brutta pagina possa essere chiusa”.
Dopo questo episodio, che ha seguito altre due intimidazioni subite dall’uscita del programma, Franciosi ha presentato alla commissione centrale la richiesta di protezione in loco per tornare sotto tutela ma con il sistema nazionale anziché locale, supportato anche dalla mobilitazione di alcuni esponenti politici. Fra questi il deputato del Pd Davide Mattiello della commissione Antimafia che all’indomani dell’incendio aveva sottoposto il caso al Prefetto spezzino ma anche della consigliere comunale del Movimento 5 Stelle della Spezia Colombini che lunedì aveva presentato una mozione approvata all’unanimità. Cinquestelle impegnati anche a livello nazionale dato che la senatrice Sara Paglini ha chiesto ufficialmente al Ministro Alfano di attivarsi per garantire la sicurezza di Franciosi che nei prossimi giorni verrà ascoltato anche dalla commissione europea antimafia che si attiverà per sollecitarne la tutela.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 24 settembre 2015)

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In trasferta con Phil, aquilotto di Aldershot

Phil Franklin a Salerno (foto Benedetto Marchese)

(@dettobene)

Ai tornelli del Picco è ormai un volto noto ma in trasferta non passa certo inosservato agli occhi degli steward, non solo per la stazza imponente ma soprattutto per le generalità dei documenti che rivelano immediatamente l’insolita origine britannica di Mr. Philip Franklin, classe 1950 e per tutti Phil, ormai assiduo sostenitore degli aquilotti sia in casa che fuori. È accaduto anche ieri pomeriggio ai cancelli dell’Arechi di Salerno, dove i ragazzi che hanno controllato il suo biglietto non hanno perso occasione per chiedergli delle sue origini e della sua passione. “E’ colpa loro” ha replicato sorridendo ed indicando i compagni di viaggio con i quali ha intrapreso il viaggio di 1300 chilometri fra andata e ritorno. Seconda trasferta stagionale dopo quella di Bari all’esordio e le molte delle ultime quattro stagioni, fra le quali Latina, Pescara, Lanciano, Empoli e Cittadella, sul pullman con i ragazzi della Curva Ferrovia o in auto con gli amici.
Una storia la sua che si unisce alle tante nate nel tempo grazie allo Spezia (anche con altri tifosi inglesi come protagonisti) e sempre caratterizzate da una grande passione, per il calcio ma anche per tutte le sensazioni ed esperienze ben più importanti che riesce a sviluppare. “Sono venuto per la prima volta in Italia in viaggio di nozze – racconta a Cds – era il luglio del 1982, la vigilia della finale dei Mondiali e c’era un’atmosfera incredibile. Poi nove anni fa mia moglie mi ha detto “Voglio una casa in Italia, voglio abitare vicino a questo posto, mi piace il nome” ha indicato Fivizzano sulla mappa così siamo finiti poco distanti, vicino a Villafranca. Ha deciso tutto lei – aggiunge con ironia – ma alla fine c’ho guadagnato io visto che all’inizio potevamo venire solo per alcune settimane all’anno poi da quando sono andato in pensione da British Telecom ho potuto iniziare a trascorrere qui diversi mesi, mentre lei lavora in Inghilterra”.

Da Aldershot sua città natale dell’Hampshire fino alla Lunigiana e al Picco, sempre con il calcio come filo conduttore. “Per quarant’anni ho seguito la squadra locale che ora milita in Conference – racconta – poi quando mi sono trasferito al Nord sono stato abbonato per una decina di stagioni al Newcastle fino a che mi sono stufato perché l’atmosfera del calcio inglese era sempre più sterile, io quando guardo una partita allo stadio voglio stare in piedi e lì non è più possibile, solo a Leeds i tifosi continuano a farlo. Stando qui mi è tornata la voglia di andare allo stadio, conoscevo solo il Genoa poi ho scoperto dal giornale che c’era anche lo Spezia ma non sapendo come fare per i biglietti ho chiesto ad un anziano amico del Bar Nello di Vilallafranca che tifa il club. inizialmente non è riuscito ad aiutarmi poi il giorno dopo mi ha rassicurato: “c’è una persona che ti vuole parlare” ed è arrivato Vinci. Non lo conoscevo ma poco dopo ha detto “ok, tu puoi venire con noi” ed eccomi qui a Salerno – sottolinea ridendo – per colpa sua”.
Un paio di birre, qualche racconto con uno dei baluardi del tifo aquilotto in Lunigiana, ed ecco quattro stagioni di partite in viale Fieschi e in giro per l’Italia, di cui tre da abbonato, l’ultima delle quali iniziata da pochi giorni. “Ho visto la prima partita in Coppa Italia nell’agosto 2012, era Spezia-Sorrento (4-1 il finale). La prima cosa che ho pensato entrando in curva? Ho respirato la stessa atmosfera che c’era in Inghilterra trent’anni fa: qui è tutto completamente diverso, c’è un gran tifo e si può stare in piedi, un atteggiamento che mi piace, perfetto. La prima trasferta l’ho fatta a Castellamare di Stabia e poi tutte le altre. Devo dire grazie a Vincenzo – precisa – senza di lui non avrei mai visto lo Spezia e incontrato tanti nuovi amici che sono contentissimo di aver conosciuto, lui è molto generoso e come diciamo in Inghilterra “madder than a box of frogs”, più pazzo di una scatola di rane”. Il sorriso che segue è lo stesso che accompagna le ore spese al seguito dgli aquilotti, unito alla curiosità nel vedere luoghi e stadi sempre nuovi, con buona pace della moglie. “Ah lei è crazy più di me – sorride – un giorno è uscita per comprare un frigo ed è tornata con un’auto, per lei non c’è problema se vado in trasferta. A 65 anni cerco di vivere ogni giorno nel modo migliore – conclude – quando mi chiamano per una nuova avventura con lo Spezia rispondo sempre ‘si’, mi preparo e vado volentieri”. Livorno è dietro l’angolo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 20 settembre 2015)

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L’East End, l’Argentina e le vite fotografate da Erica Canepa

(@dettobene)

Nei giorni scorsi il Washington Post ha pubblicato alcune foto di Erica Canepa raccontando il suo progetto sull’East End londinese. Io aggiungo volentieri la chiacchierata fatta qualche mese fa con lei in occasione del suo ritorno a Sarzana. 

“Torno a casa sempre volentieri, un po’ per il mare e un po’ per la focaccia ma non solo, sto portando avanti da quattro anni anche un progetto di scatti personali”. Erica Canepa, fotografa molto attenta alle questioni sociali e alle differenze culturali e con un master in fotogiornalismo conseguito alla Westminster University, è rientrata a Sarzana da pochi giorni, nel luogo che conserva le sue radici ma dal quale negli anni è sempre ripartita alla volta di Argentina, Egitto, Sudafrica o Inghilterra, dove ha concentrato buona parte della sua attività, particolarmente influenzata da figure britanniche come Simon Norfolk, Leonie Hampton, Sander e dai sudafricani Pieter Hugo e Guy Tillim.

“Negli ultimi tempi sono stata a Londra – racconta a Cds – una fonte d’ispirazione continua ma anche un rifugio fra un lavoro e l’altro. Mio nonno era un pittore e i miei genitori fin da piccola mi hanno portata in giro per musei quindi ho sempre avuto un’attenzione particolare per l’arte visiva e sono da sempre affascinata da Caravaggio. Ho studiato restauro, mi sono diplomata poi sono stata presa per il master. In quel momento ho deciso di mettermi alla prova – prosegue – mi sono trasferita nella capitale britannica ed ho capito che la cosa poteva diventare reale. C’ho vissuto a lungo e lì sto cercando il materiale per il prossimo progetto”.
Altra tappa fondamentale del suo percorso personale e lavorativo è stata quella dello scambio interculturale con l’Argentina fra il 1998 e il 1999. “Ero in quarta liceo – ricorda – e quel viaggio mi ha fatto capire che avrei potuto camminare da sola per il mondo adattandomi alle varie culture e districandomi in luoghi che non erano quelli di casa. Un’esperienza fondamentale che ha acceso il mio interesse vero per le vite degli altri. In quei mesi si parlava pochissimo della dittatura (dal 1976 al 1983), io ne sapevo poco ma le persone erano restie a ricordare quei fatti. Proprio in quel periodo però si cominciò a parlare dei figli dei desaparecidos che erano stati presi e “adottati” dai militari, ragazzi cresciuti senza saperlo in famiglie che non erano le loro e complici dell’omicidio dei veri genitori”.
Qualche anno più tardi Erica è tornata a Buenos Aires trovando un ambiente molto diverso che le ha permesso di realizzare il reportage “The Remaining” fotografando i luoghi di detenzione e tortura degli oppositori del regime. “Quando è stato il momento di fare la tesi per il master – spiega – ho subito individuato questo tema come il più adatto così sono tornata per altri tre mesi. I centri di isolamento erano stati riscattati grazie al governo Kirchner e l’argomento non era più un tabù. Ero partita per concentrarmi sui figli ritrovati cercando le cicatrici della dittatura ma dopo alcuni giorni mi sono resa conto che quelle erano proprio nelle stanze, nelle luci e nei dettagli, nei luoghi che rappresentavano il vuoto di una generazione spazzata via dall’odio. Il progetto portava con sé anche dei ritratti ma non ne sono mai stata contenta anche se prima o poi tornerò per completare il percorso e chiudere quel periodo cercando un’altra angolazione”.

Dalle atrocità del regime di Videla a quelle domestiche che quotidianamente riguardano anche la nostra realtà di provincia. “Tornata dal Sudamerica – prosegue la fotografa che da pochi giorni ha pubblicato il suo nuovo sito ericacanepa.format.com – il tema della violenza è stato un filo conduttore che mi ha spinta a capirne di più sui centri antiviolenza che aiutano le donne. Mi sono recata a Genova dove sono stata accolta con grande interesse ed ammessa a partecipare ai colloqui con le ragazze le cui storie mi hanno riportata alle torture argentine. Ho visto le case rifugio nelle quali cercano di dare una svolta alla loro vita, un momento molto forte perché la difficoltà maggiore è proprio nel trovare il coraggio di denunciare le violenze subite affrontandole per la prima volta dopo averle accettate per anni”.
Un passaggio molto importante in un percorso che di recente ha portato Canepa anche in Sudafrica a Johannesburg, è stato quello in Egitto, vissuto in due occasioni fra il 2007, ben prima della “Primavera araba” e il 2014 dopo la rivoluzione. “La prima volta – afferma – ero andata per uno stage rimanendo per 4 mesi con una famiglia. I moti erano molto lontani e in quel periodo la gente non pensava ad un’alternativa a Mubarak mentre quando sono tornata sono andata a vedere cosa era rimasto rendendomi conto che la rivoluzione non aveva cambiato molto. Mi aspettavo un Egitto nuovo e più fresco ed invece era tornato a stagnare come durante il regime. Ho trovato una generazione di trentenni depressi che vivevano come un fallimento l’aver versato molto sangue inutilmente ed ho avvertito un paese ostile nei confronti degli stranieri occidentali, un sentimento dovuto anche alla grande attenzione mediatica che la zona aveva avuto durante le rivolte”.
Ovviamente in questi anni il suo lavoro si è concentrato anche sul nostro territorio ed in particolare sulle ultime alluvioni e sui veleni di Pitelli dove Erica ha svolto un reportage con Antonio Musella. “Non mi ero mai occupata della mia terra – rivela – ed è stato un po’ forte perché non c’era la distanza che ho sempre trovato in un mondo che non era il mio. Purtroppo però fatico a rimanere a lungo nello stesso posto, sento il bisogno di muovermi ed andare a vedere cosa succede altrove. Spesso – conclude – mi sento anche un po’ presa in giro per come vengono affrontati i problemi qui, da Pitelli alle tante discariche: ho mangiato muscoli per una vita per poi scoprire che provenivano da uno dei luoghi più inquinati”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 30 maggio 2015)

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Libera in goal: L’égalité in trasferta a Scampia

L'égalité in trasferta a Scampia

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“Napoli non è solo Gomorra, a Scampia abbiamo trovato una solidissima cultura della legalità e le persone incontrate ci hanno lasciato valori importantissimi”. Inizia da questa considerazione il racconto di Ilenia Morachioli – presidente dell’associazione L’égalité di Sarzana – dei quattro giorni vissuti con gli altri compagni di viaggio nel quartiere partenopeo tristemente noto per i fatti di cronaca legati alla camorra. L’associazione, nata dal presidio cittadino di Libera “Dario Capolicchio” e affidataria dal Comune del bene confiscato di via Landinelli, ha infatti anche una squadra di calcio a 7 iscritta al campionato Uisp Val di Magra che per il secondo anno consecutivo ha preso parte al torneo “Libera in goal” organizzato proprio a Scampia. “Ci siamo classificati decimi su tredici squadre partecipanti – sottolinea sorridendo – un risultato non entusiasmante ma il calcio è stato solo un pretesto per portare il nostro contributo in una manifestazione di grande impegno e riscatto sociale che ha dato modo, soprattutto a chi non c’era l’anno scorso, di conoscere una realtà che dopo il forte impatto iniziale, si rivela in tutta la sua complessità ma anche nella forza delle persone che la vivono quotidianamente in modo diverso dagli stereotipi proposti da media e tv”.
La comitiva di giocatori e accompagnatori (tutti di età compresa dai 17 ai 29 anni) e completata da Gabriele Bellè, Johan Gritti, Carmine Napoletano, Benedetta Valletta, Marco Lorenzo Baruzzo, Paolo Rissicini Alessio Vargiù, Enzo Alfarano e Francesco Baruzzo, è partita all’alba di giovedì dalla stazione di Sarzana dove ha fatto ritorno lunedì sera.
“Arrivando noti subito le strutture pubbliche dissestate e il degrado di un luogo apparentemente spopolato nonostante i palazzoni immensi – prosegue – poi però vedi anche il grosso cartello con la scritta “Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia”. Ecco, noi quel bene lo abbiamo trovato incontrando gli organizzatori dell’iniziativa che ci hanno condotto nella Scuola Calcio Arci, luogo colorato ed accogliente, pieno di bambini, adolescenti e genitori e dove abbiamo soggiornato in campeggio”.

Giunto alla sua quarta edizione il torneo è stato organizzato da RIME di Trieste (Responsabilità Impegno Memoria Educazione) e da Vo.di.Ca, acronimo dell’associazione di promozione culturale Voci di Scampia, e come sempre dedicato alla memoria di Antonio Landieri, ragazzo disabile ucciso per sbaglio il 6 novembre 2004 in un agguato ai “Sette Palazzi”. “La sua è una storia terribile – spiega Morachioli – visto che essendo stato scambiato per un affiliato ai clan era stato seppellito senza nemmeno un funerale. Solo l’anno scorso ne è stata accertata l’estraneità e la famiglia ha potuto svolgere una cerimonia pubblica. Tutto viene fatto in sua memoria e nei giorni del torneo abbiamo potuto conoscere i suoi genitori, persone dalla forza straordinaria che sono state sempre con noi e i ragazzi delle altre squadre provenienti da tutta Italia”.
Oltre alle partite e ad una visita nell’affascinante centro di Napoli i giovani della squadra sarzanese (unica rappresentante della Liguria) hanno avuto modo di confrontarsi anche con altre realtà dell’associazionismo che operano a Scampia. “Abbiamo conosciuto le mamme che ogni giorno portano i figli ai campi di calcio e sono coinvolte in altre iniziative extracalcistiche, e i membri dell’associazione “Chi rom ..e chi no” che si occupa dell’integrazione della comunità rom; i Pollici verdi e il Gruppo Gridas fondato da Felice Pignataro e che dagli anni Ottanta promuove l’arte tramite murales e il Carnevale di Scampia. Con “Resistenza Anti Camorra” – spiega poi Ilenia – abbiamo invece visitato una parte dell’immensa ex scuola chiusa per le poche iscrizioni e divenuta una centrale dello spaccio che loro nel tempo hanno in parte ripulito dal tappeto di siringhe che si era formato. Alcuni spazi recuperati ed intitolati a Gelsomina Verde, altra vittima estranea alla camorra, vengono ora usati per finalità sociali”.

Un contatto diretto dunque con un contesto lontanissimo dalla quotidianità della Val di Magra, utile anche in vista della prossimo avvio del progetto “Quarto piano” nell’appartamento confiscato in via Landinelli dove L’ègalitè sta creando un luogo di cultura, formazione e legalità. “L’esperienza è stata bellissima – afferma ancora Ilenia – tornare a casa non è stato facile proprio per la quantità di emozioni e sensazioni che quei luoghi hanno saputo trasmetterci. Abbiamo trovato una realtà complessa e abbiamo compreso il disagio vissuto dagli abitanti per l’immagine che viene raccontata di Scampia come ‘Gomorra’. L’impegno di queste associazioni permette di guardare oltre certi fatti verificatisi anche nei giorni scorsi, comunica motivazioni e voglia di fare anche in un contesto che non nasconde le proprie difficoltà. Grazie al calcio e a “Libera in goal” abbiamo trascorso tempo libero e momenti di approfondimento con altri ragazzi che come noi portano avanti certi valori perché in tutta Italia si parla di beni confiscati ma è importante uscire dal proprio territorio per vedere cosa succede altrove. Nell’Arci della scuola calcio ad esempio si fanno cose di una grandissima valenza sociale, inoltre abbiamo illustrato il nostro progetto del “Quarto Piano” raccogliendo ottimi riscontri e la promessa di visite a Sarzana. Nel frattempo – conclude – continuiamo a lavorare per ultimare gli interventi in vista dell’apertura e a preparaci per il campionato di calcio che riprenderà ad ottobre con base al campo sportivo di Canale a Castelnuovo Magra”.

(pubblicato su Cittadellaspezia l’8 settembre 2015)

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Mentina e ParallelaMente: c’è vita oltre il Festival

Festival della Mente 2015

(@dettobene)

“Il Festival della Mente? Bello ma una volta finito non resta nulla”. Di anno in anno questa considerazione si è sempre affermata come una delle più gettonate e realistiche sulla manifestazione che si è chiusa ieri a Sarzana dopo un’altra edizione baciata dalla presenza di migliaia di persone ma anche dal sole, visto che alla vigilia le previsioni meteo avevano costretto gli organizzatori ad allestire un efficiente piano b in caso di pioggia. I tre giorni della cultura sono invece filati via senza intoppi macroscopici accontentando tutti: dal Comune alla Fondazione Carispezia, fino a commercianti, pubblico e relatori – questi ultimi sempre piacevolmente sorpresi dall’attenzione che viene rivolta loro – ma registrando anche la crescita dei due eventi collaterali.
Da venerdì pomeriggio a ieri sera le strade cittadine hanno vissuto tutte le situazioni più tipiche: corse e code davanti alle location degli eventi, caccia compulsiva ai biglietti e ai posti (con momenti surreali come quello di sabato al Moderno dove l’ospite Adolfo Cerretti ha dovuto sedare un diverbio per una poltroncina) passando per l’affettuoso assedio al termine di ogni incontro per autografi e complimenti, con Massimo Recalcati costretto al bis e agli straordinari. Scene entrate ormai di diritto nel sommario di un festival che tradizionalmente pone con merito per tre giorni Sarzana al centro dell’agenda culturale italiana.
Ma la grande affluenza ha premiato anche la scelta dei due direttori Pietropolli Charmet e Benedetta Marietti di alzare ulteriormente l’asticella dei contenuti, concedendo le ormai ambite poltroncine del palco anche a volti meno noti al grande pubblico ma molto conosciuti nei rispettivi ambiti, segno tangibile dell’autorevolezza raggiunta dal Festival che, giunto al dodicesimo capitolo, procede in maniera autonoma avendo ormai tracciato un solco seguito da molti nel panorama delle manifestazioni nazionali.
Nell’edizione andata in archivio con 45mila presenze e nella quale si è però sentita la mancanza di luoghi come il chiostro di San Francesco e il Teatro Impavidi, il cui fascino resta insostituibile come evidenziato anche da Matteo Melley, l’aspetto più rilevante è emerso proprio in relazione alla considerazione iniziale: terminata la kermesse sul territorio resta qualcosa su cui lavorare. Lo ha confermato ad esempio la seconda edizione di ParallelaMente, programma collaterale fortemente voluto dall’assessore Accorsi e dal sindaco Cavarra per valorizzare artisti ed associazioni culturali del territorio sfruttando l’impareggiabile vetrina data dal festival maggiore. Ventuno appuntamenti con altrettante realtà che promuovono le arti tutto l’anno, coordinate nell’occasione dal lavoro di Massimo Biava ed Alessandro Picci. Due che hanno avuto l’ulteriore merito di averli perfettamente contestualizzati nel centro storico in piazzette, dimore storiche e spazi inaspettati, capaci di sorprendere gli stessi sarzanesi come i tanti visitatori abituati ad assistere a certe performance artistiche in ambiti prettamente urbani e con atmosfere molto differenti. Installazioni, teatro, danza, poesia e sfumature musicali diversissime fra loro hanno fatto emergere in modo ancora più netto rispetto all’anno scorso talento e vitalità di una scena culturale sulla quale Comune e Fondazione credono in modo lodevole visto che ParallelaMente avrà un’appendice autonoma il 28 e 29 novembre prossimi.

Diversa origine ma stesso risultato anche per il Festival della Mentina giunto alla sua terza edizione ed uscito con successo dal Lavoratorio Artistico di via dei Giardini fino a piazza De Andrè. In questo caso il merito è tutto dell’associazione Raso Terra e del collettivo guidato da Simone Ricciardi ma anche dell’assessorato alla cultura che ha dato da subito il proprio sostegno ad un’iniziativa quasi interamente autofinanziata e in grado di allestire un programma molto ricco. Dalla satira sfrenata dell’Espo riduttivo passando per il momento di riflessione sulla strage ferroviaria di Viareggio, la sorprendente esibizione dei Mechanics for Dreamers e il teatro di Astori e Tintinelli la ‘Mentina’ ha confermato il fermento creativo e culturale di una realtà che opera tutto l’anno in città e in provincia, con entusiasmo e passione tangibili nella festa conclusiva di ieri sera, e che come ParallelaMente ha anche il pregio di dialogare meglio con un pubblico più giovane.
A differenza di quello che accadeva fino a due-tre anni fa dunque la fine del Festival della Mente non coincide più con la brusca interruzione di una vita culturale che, al netto delle tante difficoltà, riesce ad avere un seguito grazie all’impulso dell’evento ma soprattutto all’energia e all’impegno di chi vive e lavora sul territorio ogni giorno. Qualcosa resta e non è poco.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 7 settembre 2015)

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La vendemmia di Edoardo e Gilda, fratelli vignaioli nei Colli di Luni

Edoardo e Gilda Musetti

(@dettobene)

Sono i più giovani produttori impegnati in questi giorni nella vendemmia in Val di Magra ma passione ed intraprendenza non gli mancano davvero. Sono Gilda ed Edoardo Musetti, nipoti del compianto Giorgio Tendola che fu tra i precursori nella valorizzazione del Vermentino dei Colli di Luni e del quale oggi i due ragazzi portano avanti l’azienda agricola il “Torchio”, curando e promuovendo le viti adagiate sulla collina di Castelnuovo Magra.
Un’avventura iniziata tre anni fa con la scomparsa del nonno e la decisione di Gilda, oggi 32enne, di prendere in mano l’azienda di famiglia, seguita poco dopo dal fratello 22enne che per la prima annata realizza autonomamente tutta la vinificazione. “Io mi occupo degli aspetti gestionali e commerciali – spiega Gilda – mentre Edoardo dopo aver frequentato diversi corsi si dedica a tutta la parte produttiva. Abbiamo iniziato la vendemmia da una settimana e andremo sicuramente avanti per altri sette giorni – prosegue – finora sta andando tutto molto bene sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, mi sembra una delle migliori annate degli ultimi tempi perché l’uva è sana ed ha raggiunto livelli di maturazione perfetti, inoltre abbiamo la fortuna di essere in una zona molto ventilata”.

In questi giorni il lavoro è ovviamente concentrato solo fra i filari dove si procede a gran ritmo, ma negli ultimi mesi l’impegno è stato profuso per approfondire competenze e conoscenze anche al di fuori del territorio. “Ci siamo resi conto di aver migliorato tantissimo il nostro approccio con la produzione da quando abbiamo iniziato ad andare a vedere come si lavora dalle altre parti. Abbiamo amici che fanno vinificazioni molto diverse fra loro in Valtellina, Valpolicella o in Toscana – sottolinea ancora Gilda – e confrontandoci abbiamo ricevuto input fondamentali da applicare alla nostra realtà. Anzi, se finiremo in tempo andremo anche a dar loro una mano con la vendemmia. Siamo cresciuti vedendo lavorare nostro nonno e da lui abbiamo appreso moltissimo ma è stato fondamentale aprire agli scambi di opinioni e di conoscenze, confrontarsi con zone e realtà diverse dalla nostra. Con gli altri produttori c’è un ottimo rapporto di collaborazione, siamo uniti e le iniziative per la valorizzazione dei vini locali non mancano – prosegue – però è importante continuare ad allargare ulteriormente gli orizzonti e vedere cosa succede altrove, quali sono le tendenze e le esigenze del mercato”.

Molte delle 60mila bottiglie prodotte ogni anno da “Il Torchio” finiscono infatti anche all’estero, in particolare fra Stati Uniti, Giappone e Inghilterra, soprattutto nella capitale britannica. “La diffusione nei ristoranti londinesi è più recente ma ci sta dando grandi soddisfazioni – commenta Musetti – questo anche grazie all’ottimo lavoro del nostro importatore che cura attentamente la distribuzione. Il mercato estero è molto importante e cerchiamo di raggiungerlo anche grazie all’utilizzo dei social network”.
Con una mirata presenza su Facebook e soprattutto Instagram sono infatti riusciti a creare un’immagine dell’azienda brillante e dinamica, consolidandone allo stesso tempo nome e storia. “All’inizio non è stato semplice – rivela Gilda – sono giovane e sono una donna, mio fratello ha solo 22 anni e qualcuno non ci prendeva sul serio però con la cura dei dettagli e la qualità del prodotto siamo riusciti a spostare l’attenzione unicamente sul nostro lavoro. Ci abbiamo messo fantasia e passione gestendo l’azienda in un modo un po’ innovativo, ad esempio con capsule coloratissime, etichette disegnate da Francesco Musante e una comunicazione “pop” che aiuta molto. Una foto postata nel modo giusto ha un’immediatezza ed una diffusione che in pochi secondi possono far scoprire non solo il nostro Vermentino ma anche la sua zona d’origine e quindi anche tutti i suoi produttori ad un ristoratore che sta dall’altra parte del mondo”.
Una filosofia sintetizzata dall’immagine che in questi giorni ritrae i due fratelli sorridenti all’interno di una botte d’acciaio in un momento di pausa. “E’ un po’ il riassunto della nostra scelta di vita – conclude Gilda – e di un impegno che oggi ci sta dando grandi soddisfazioni. L’abbiamo condivisa con piacere perché rispecchia il nostro entusiasmo e la nostra passione per la terra ed il vino. Buona vendemmia a tutti!”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 10/09/15)

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Good Old Boys, i cinque fratelli del rap sulla strada del Boss

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(@dettobene)

Rap, sudore e amore: niente a che vedere con il trascurabilissimo tormentone estivo di qualche anno fa, ma il riassunto ben più sostanzioso del passaggio sul palco del Boss dei Good Old Boys, ovvero Colle Der Fomento e Kaos One, figure chiave dell’hip hop italiano che hanno confermato, se ancora ce ne fosse bisogno la loro la loro attitudine live ma anche il solidissimo legame con una città che in ogni occasione ha sempre ricambiato il loro arrivo con grande affetto. Mai prima di questa edizione del festival al Centro Allende, si erano però presentati tutti insieme nella versione che ormai da due anni li vede in tour come unica entità con tre microfoni e i due dj Baro e Craim.
Il risultato, in una città coinvolta nella scena fin dagli inizi, poteva essere solo un set caratterizzato dai brani più importanti delle rispettive carriere messi in rima a pochi centimetri da un pubblico che ha profuso ogni goccia di sudore ma non ha perso né un beat né una sola strofa di quei cinque amici, o fratelli come loro stessi si definiscono, dagli stili diversi ma perfettamente complementari con identità e coerenza come punti di partenza.

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“E’ che se volemo bene” puntualizza Danno – con l’accento romano con cui negli anni assieme all’impeccabile Masito ha raccontato vizi, strade e vita della Capitale – introducendo “Sergio Leone”, singolo che due anni fa doveva anticipare l’imminente uscita di un album che ancora non c’è mentre i ‘colleghi’ continuano a sfornare lavori più o meno discutibili in un momento in cui sotto la parola ‘rap’ si vende tutto o quasi. Qui c’è forse il tratto distintivo dei Colle Der Fomento come di Kaos e quindi Good Old Boys: centinaia di concerti ovunque in giro per l’Italia ma pochi album, senza sentire l’esigenza di monetizzare indiscutibili talento e passione. “Non ci vedete in tv e non ci sentite nelle radio – rivendica l’mc – ma siamo ancora qui, a testa alta, dopo vent’anni”. Il motivo è spiegato dalla carica di pezzi come “Piombo e fango”, “Firewire”, “Ghetto Chic”, “Capo di me stesso”, “Ciao ciao” o “Più forte delle bombe” e dalle parole che lo stesso Danno rivolge ai giovanissimi delle prime file “Fidatevi solo di quello che piace a voi, state alla larga da chi avanza salendo in testa agli altri, siate precisi. Non ascoltate artisti senz’anima”. Fra questi ultimi non c’è sicuramente Kaos One, precursore del rap italiano che in un mercato come quello attuale potrebbe vivere di rendita su quanto fatto dalla metà degli anni Ottanta ad oggi e invece, con l’inconfondibile voce roca di sempre, mette in rima la distanza dalla faccia più commerciale della stessa medaglia. Ecco “Uno”, “Carcere a vita” e “Quello che sei” prima di “Cose e preziose” e “La fenice”, collaborazione datata 2007 e ancora di fortissimo impatto live.

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Fra scratch, rime e citazioni di Morricone, con il pubblico del Boss già conquistato da un bel po’, non può mancare un omaggio a Sean Price, rapper statunitense scomparso prematuramente poche ore prima e ricordato dallo stesso Danno, sia in apertura che sulla fine del concerto quando, accennando alla sua storia fatta di errori e grandi ritorni ribadisce: “C’ha messo il cuore e l’anima perché non è vero che conta solo chi vince e che nella vita c’è un solo round, nella vita dovete crederci e voler bene a chi vi sta accanto”. A pochi metri da lui c’è ancora Kaos, uno dei cinque fratelli sulla strada: “Speriamo di avervi lasciato qualcosa – conclude rivolto alla sua gente – di sicuro noi qualcosa di buono ce lo portiamo via”. Solo amore.

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(pubblicato su Cittadellaspezia il 9 agosto 2015)

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