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L’ultima partita a porte aperte

di Dettobene

L’atmosfera è strana, incerta e un po’ surreale. Probabilmente l’ultima partita a porte aperte del calcio italiano poteva capitare solo a noi che di situazioni balorde ne abbiamo vissute parecchie, tipo a Pescara costretti a star fuori perché non ci facevano i biglietti, o a Cesena la sera di Raciti.
In fondo non mi sorprenderei di arrivare sotto la Ferrovia e sentirmi dire “è cambiato tutto, non si può entrare”. Fortunatamente non è così anche se il clima è diverso e non c’è coda, alla fine sono le ultime quattro ore che si possono passare in mezzo a un po’ di gente.
A fianco a me al cancello un gruppo di ragazzi si sente dire dallo steward “non potete entrare, non avente quindici anni”, “perché? siamo sempre entrati” ribattono loro con documento e biglietto alla mano. Ma dai? Oltretutto stasera con sta situazione? Poi non sono mica dei bimbetti. Mentre loro si guardano indecisi se andarsene, mi vengono in mente i racconti degli amici che hanno vissuto il calcio senza tornelli e biglietti nominali – quello che io ho conosciuto al tramonto – quando i fanti entravano col primo signore che gli capitava a tiro. Allora prendo sotto braccio un ragazzo e dico allo steward “lui è mio figlio, entra con me”. La risposta è uno sguardo perplesso ma Davide mi viene dietro e ne prende un altro “lui è mio figlio, lo accompagno io” e così fa il tizio davanti che ha seguito la scena, altri due o tre nel frattempo si infilano mentre lo sguardo dello steward è rassegnato.
Tutti dentro, c’è da veder vincere gli aquilotti.

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La fiera del gol

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(@dettobene)

Questo settore ospiti sembra uno di quelli che vedi nelle foto degli stadi dell’Est. Ci sono le reti, il filo spinato e i seggiolini scoloriti. Sono pieni d’acqua che gocciola fin sotto nel tunnel pieno di scritte, dove cammini saltando le pozzanghere degli scarichi che escono dai cessi. Mancano solo gli orchi ultra tatuati e ultra nazionalisti e mancano anche le guardie con le mimetiche. Invece ci sono solo i ragazzini insieme ai genitori nella tribuna a fianco, ti mandano in culo mentre gli steward balcanici, massicci e di poche parole, se la ghignano sapendo che sarà un pomeriggio tranquillo.

La curva del Perugia si riempie subito prima del fischio d’inizio, noi invece siamo tutti qua e siamo questi, pochi. Non è un bel periodo, la trasferta è lontana e poi oggi c’è la fiera e da Spezia non esce nessuno. In questi miei quasi vent’anni è capitato altre volte di essere in trasferta nei giorni di San Giuseppe ed è sempre stata la stessa storia. Per me la fiera è un ricordo degli anni Ottanta: il viaggio interminabile in corriera con i miei nonni e col sorriso, le navi in arsenale e le bancarelle a caccia di giocattoli. Più tardi, quando è capitato, ha significato un settore ospiti con i soliti a fare il conto dei presenti, come a Lucca, quando abbiamo vinto grazie a quel pacco di Scoponi, oppure a Latina. Lo ricordo a Lore e al Gianca, gli dico “magari vinciamo anche oggi” anche se in trasferta non succede mai. Loro non mi danno nemmeno retta e fanno bene.

Lì davanti i ragazzi manco ci pensano. Cantano, tirano su le bandiere e mandano affanculo i perugini. Orgoglio che oggi vale anche più del solito e lo sanno, anche perché in campo va come sempre. Cerri oltre a essere grande e grosso ha anche del culo, segna e almeno non ci fa i versi come Ardemagni l’unica volta che sono stato qui prima di questa. Due a zero e non serve nemmeno cercare di vedere qualcosa, incrociando le maglie delle reti di metallo. All’intervallo siamo già finiti. I quattro passi a vuoto verso il bar, che è in realtà un bibitaro vecchio stile, servono solo per rivedere la scritta a bomboletta “Ma che siete venuti a fa?”. Ce l’hai sulla testa appena rientri sui gradoni e non puoi fare a meno di leggerla. Almeno chi non è venuto si è risparmiato anche questa, così come l’inutile secondo tempo di una partita che per noi è già finita. Segna anche Bianco che qualche anno fa a Bari mi aveva dato la maglia, la prima presa e subito regalata al piccolo Jimmy. Era quasi ferragosto ed eravamo in pochi. Avevamo perso.

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Romanticismo sottozero

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Il San Nicola mi fa sempre l’effetto di un’astronave fuori produzione, circondata da grovigli di tangenziali con il profilo di una città brulicante e ospitale sullo sfondo. Il cielo terso e il sole ne illuminano il cemento e i cancelli, mettendo in evidenza tutti i suoi ventott’anni, mentre l’aria fredda si abbatte sulle nostre facce stanche e incazzate. La terza volta qui è quella della beffa, di una partita che non si gioca per neve, anche se la neve è ormai sparita del tutto e al kick-off mancano più di quattro ore. Più ci guardiamo intorno e meno riusciamo a credere alla più grande presa per il culo da quando abbiamo sta passione malsana.

Decisamente peggio di Pescara, dove non ci fecero i biglietti nonostante lo stadio semi deserto, o di quella volta a Bolzano, quando ci toccò vederla dal terrazzino di una palestra perché non avevamo la tessera. Oggi due ore di neve sono bastate al Prefetto per togliersi il pensiero e rinviare tutto. Poco importa se lo slogan della Lega di B è “Il campionato degli italiani” e quell’hashtag #rispetto lo piazzano su ogni cartellone. Ferie, soldi, ottocento chilometri in macchina, pullman o furgone non meritano rispetto?. No, e non è una novità, altrimenti fra poche ore saremmo di nuovo qua in sto parcheggio ricongiunti a tutti gli altri e pronti sgolarci dentro quell’astronave troppo grande per questo campionato. Invece non arriverà nessun altro e fra un po’ ce ne andremo anche noi, per finire in città una giornata amara e surreale in questo gelo soleggiato.

Mentre faccio due passi per dar tregua alla schiena, fra una telefonata e una tremila notifiche di oggi, mi viene in mente Ale che qualche giorno fa m’ha detto “siete dei romantici”. Gli raccontavo che stavo guidando verso il Picco, che sarei arrivato più o meno all’intervallo ma che sarei andato comunque. Gli ho risposto “può darsi ma siamo anche un po’ coglioni, è così e non possiamo farci niente”. Se mi richiamasse adesso gli ridirei la stessa cosa con la stessa convinzione, per il freddo, le ore di viaggio e tutto il resto. Probabilmente gli ripeterei le stesse parole perché alla fine qua ci siamo arrivati anche oggi, nonostante tutto.

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Vincere a Chiavari

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(@dettobene)

Questa è una trasferta senza pathos. Sarà la terza o quarta volta che vengo in  sto stadio e ho sempre preso solo freddo, umidità e gol, non c’è mai stato nulla di particolarmente interessante o da ricordare. Non c’è rivalità, non è di quelle che non ti fanno dormire la sera prima e poi la distanza è troppo breve; c’è pieno di gente che non vedi mai quando ci sono da fare più di cento chilometri.

L’unica istantanea di Chiavari che mi viene in mente è quella di Ramon: lui che arriva accompagnato da Teresa e io che gli scatto una foto mentre salutano un amico di vecchia data, e sorridono. Intorno c’è il solito casino di macchine e corriere ma tutti e tre si distinguono nettamente. 
Non ho una confidenza particolare con loro, però fermare la scena mi sembra una cosa quasi naturale, dovuta verso chi ha fatto un pezzo di storia della curva ed è lì in trasferta nonostante tutto. Poi in fondo mi è sempre piaciuto fare foto allo stadio. Come in ogni altra situazione per me è come prendere un appunto da conservare e ricercare per ricordare quel momento, una giornata o su una situazione precisa. Questa non è nemmeno particolarmente bella, è sfocata e fatta da lontano ma qualche tempo dopo diventerà ancor più significativa.

Ripenso a quel pomeriggio mentre passiamo davanti all’ingresso per cercare un posto dove mollare la macchina. E’ buio, pioviggina e manca più di un’ora alla partita. Una cosa incredibile per le nostre abitudini e ne approfitto subito per rompere i coglioni agli altri e cercare un posto dove mangiare. Non potete uscire” fa lo steward in un impeto di autoritarismo inutile, il tempo di trovare la stradina lungo l’Entella e siamo fuori dal recinto a caccia di cibo. In cinque, in direzione opposta allo stadio e con Andre che sembra un orco col cappuccio, diamo parecchio nell’occhio, ma qui il calcio è cosa da due ore il fine settimana e poi non manchiamo di rispetto a nessuno. La fame invece è cosa seria altrimenti non accetterei di mangiare in un posto con le pizze che hanno il nome delle canzoni di Vasco e le pareti sembrano quelle di un museo tutto dedicato a lui. Manca solo la cameriera con la fascetta sulla fronte.

Marco gode e Dani mi prende per il culo ma almeno arriviamo al settore ospiti a pancia piena. In ritardo ovviamente, perché abbiamo già perso la coreografia e il minuto per quel gran personaggio di Vicini. Siamo un ammasso casinista di giacconi fradici, patch Stone Island e cerate stropicciate, che si spostano continuamente fra il bar, la rete e i gradini di lamiera scivolosa a tre metri dal campo. Giochiamo in casa e glielo facciamo notare con l’arroganza che qui diventa quasi spontanea. Viene da dirla come quel fesso del cugino di Frodo in Green Street: “Entella, gioco così così, tifo zero”. Quelli che ci sono dell’altra parte si danno da fare, ma non c’è partita. In campo invece fatichiamo, del resto se i risultati fossero influenzati dalla passione avremmo una bacheca più grande. Un tempo intero di entrate dure, tiracci, pioggia e cazzate che diciamo io e Lore. Poi entra Giulietto e Palladino diventa quello che qualche anno fa ho visto zittire la Sud in un derby vero. Dani m’abbraccia e ride perché sa che dovrà mantenere la promessa, Marco è tranquillo perché tanto lui in trasferta non perde mai mentre Andre non si scompone troppo, anche se ci sta prendendo gusto.

Mentre passano i minuti e loro ci provano, picchiano e si buttano, mi viene in mente Roger. Stasera sarebbe qui anche lui, col giubottino leggero e il cappuccio legato troppo stretto sotto il collo. Al fischio finale tirerebbe giù un bestemmione liberatorio e poi ci piazzerebbe un sorriso dei suoi. Questi ultimi non mancano ma in mezzo a tutta sta gente mi piacerebbe cercarlo sapendo di poterlo trovare e guardarlo che se la ghigna felice come un bimbo. 

 

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Aquilotti alla Scala

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Poco distante da un Meazza deserto e delineato ormai solo dalle luci soffuse immerse nella nebbia, fra le maglie di Honda e Kakà di una bancarella spiccano colori inconfondibili e la scritta “Spezia Campione” con il tricolore dei Pompieri e l’aquilotto, incrocio speciale per due club con vite e fortune molto diverse. In un’atmosfera fredda e ovattata infatti uno dei tanti ambulanti ripiega con cura il materiale invenduto, comprese le classiche sciarpe celebrative rossobianconere e quelle dedicate esclusivamente agli aquilotti con tanto di logo riprodotto perfettamente. Queste ultime in futuro potranno tornare utili se lo Spezia tornerà ad affacciarsi “alla Scala del calcio” che per una sera lo ha visto protagonista. Un bianco che non passa inosservato, fra il materiale in vendita come sugli spalti di San Siro dove sei o settemila tifosi hanno appena scritto una delle pagine più belle della loro storia.
Appuntamento irrinunciabile capitato in un mercoledì di gennaio a un orario che ha costretto mezza città ad annullare impegni, abbassare le saracinesche dei negozi e saltare un giorno di scuola. “La pizzeria? Oggi ho chiuso, magari apro quando torniamo se c’è da festeggiare” confessa uno dei tanti supporters in un autogrill di Fidenza dove si parla solo spezzino. I pullman che arrivano e ripartono a ritmo continuo fanno tutti rotta su Milano su un’autostrada interamente colorata dai vessilli bianchi. Una striscia infinita di corriere, macchine e pulmini, nei quali si parla solo di quello che sta per accadere, si ripercorrono i viaggi di una vita al seguito di questo o quello Spezia, si rincorrono aneddoti e racconti come da tradizione.
Il primo applauso della lunghissima giornata scatta poco prima della barriera di Melegnano, quando con lo sguardo s’incrocia lo striscione appeso ad uno dei tanti cantieri a bordo strada. La scritta “Avanti aquile” trasmette il senso di un qualcosa di unico ed irripetibile, atteso da troppo tempo. Ansia che cresce scorgendo lo stadio fra i cantieri dell’Expo 2015 e avvicinandosi a quei cancelli che in questi anni hanno accolto tutte le tifoserie più importanti d’Europa.

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Da Luni a Riomaggiore c’è una provincia che si raduna sotto le iconiche torri a spirale e davanti ai tornelli che si aprono senza l’obbligo di esibire tessere o documenti. Smartphone, sorrisi e passi frenetici accompagnano verso quegli spalti sognati tante volte, prima di quell’ultimo gradino e l’attimo che toglie il fiato. Primo anello verde con vista su un passato fatto di Vico Equense e Sestri Levante, Pizzighettone e Vittoria ed un presente che si chiama Milan, Coppa Italia, partita vera. Fratelli di fede, famiglie, parenti acquisiti campionato dopo campionato, tutti presenti fianco a fianco con un pensiero per chi non c’è più o non può esserci. Nell’unico settore affollato di una cattedrale maestosa c’è una città intera con la sua indole e il suo passato portati con orgoglio in ogni stadio d’Italia. Esperienza tradotta in cori per trascinare all’impresa impossibile una squadra che cambiando volto ogni sei mesi non può avere lo spirito della sua gente e che di fronte ai vari Montolivo e Pazzini si presenta senza il suo bomber e priva di un capitano al quale sarebbe stato giusto concedere quest’ultima passerella.
Chi sta in campo prova comunque a battersi inseguendo il pallone che viaggia veloce e preciso, infilandosi una, due, tre volte alle spalle di Leali. Mentre dall’altra parte del mondo mezzo Giappone esulta per il gol di Honda, a Milano un popolo che non si è mai arreso si emoziona intonando “o bela speza”, rivivendo batoste e trionfi e godendosi ogni istante di una notte da ricordare per sempre.
Dagli eroi dell’Arena a quelli di una sconfitta indolore che diventa dolcissima quando Ferrari segna il gol del 3-1 a tempo scaduto. Alle spalle di Abbiati un blocco unico di corpi e volti si disunisce disordinatamente liberando un boato che ha un senso profondo e commovente solo in un perimetro geografico ben circoscritto e solo per quei settemila che piangono e si abbracciano, perché per quei tre minuti che restano hanno vinto la speciale partita e onorato il loro appuntamento con la storia. Una vicenda di calcio e passione che non sarà mai una “bella favola” ma resterà sempre un avvincente racconto di mare, fra burrasche ed approdi fantastici.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 16/01/14)

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Quartograd: un altro calcio è possibile

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Scudetto claret & blue, martelli incrociati e un pallone di cuoio. No, questo non è il West Ham e Londra è lontanissima ma a Quarto, sobborgo flegreo a nord-ovest di Napoli, il club della working class per antonomasia ha ispirato un gruppo di ragazzi che con pochi mezzi e tanta passione ha dato vita al progetto “Quartograd”. Una squadra dilettantistica iscritta al campionato di Terza Categoria, fondata su valori come l’aggregazione sociale e l’antirazzismo; un progetto in antitesi al ‘calcio moderno’ e ai suoi meccanismi legati al business e alla vittoria ad ogni costo. Bandiere No Tav, striscioni su Cucchi, Aldrovandi e Paolo Scaroni, o di sostegno alla Palestina, accompagnano ogni settimana i giocatori del Quartograd che domenica a Marano saranno attesi da un scontro al vertice contro la squadra locale.

Dopo aver scoperto questa bella realtà grazie al grandissimo lavoro dei ragazzi di Sportpeople, ho chiesto al presidente dell’associazione Giorgio Rollin di raccontare la storia di questo club che si batte per i veri ideali del calcio.

Nel desolante panorama italiano il ritorno ad un ‘calcio popolare’ rappresenta qualcosa di significativo, come nasce Quartograd e qual è l’origine del nome?

L’A.S.D. Quartograd, nasce ufficialmente il 26 di Giugno del 2012, ma le sue radici gettano le basi molto lontano. Era Gennaio del 2010 quando un gruppo di compagni appartenenti alla Sezione di Quarto (Na) del Partito dei C.A.R.C. acronimo di Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo, dava vita alla “I Edizione del Torneo Antifascista e Antirazzista di calcio a 8”. Doveva essere un gioco e un modo per racimolare un po’ di soldi per i compagni imputati in vari processi (Lotta al Fascismo, per aver partecipato alle lotte ambientaliste antidiscarica ecc). L’Antifascismo e l’antirazzismo era ed è ancora la discriminante fondamentale per prendere parte al Torneo, insieme al desiderio e alla voglia di allontanarsi da un calcio che oramai è sempre più marcio e lontano dalla gente comune, quella che la mattina si alza e va a lavorare e senza lavorare non può stare. In un Paese che va a rotoli è inconcepibile che quattro privilegiati prendano milioni di euro per correre e divertirsi dando calci ad un pallone, insomma oramai il tanto odiato calcio moderno non è nient’altro che un’industria di soldi, in cui si specula sulla popolarità di quello che è secondo noi uno degli sport più belli al mondo e sulla passione di centinaia di migliaia di persone.  Convinti che questo, come tutti gli sport di squadra, abbia un ruolo sociale e pedagogico fondamentale, nell’educazione di ogni individuo decidemmo di imbatterci in questa impresa. Alla I Edizione del Torneo parteciparono 8 squadre, per un totale di 150 ragazzi, che si fronteggiarono sui campi di via Learco Guerra (dove svolgiamo tutt’ora il Torneo), da quell’esperienza l’idea di riproporlo nel periodo estivo di quell’anno (iniziare a Maggio e finire ai primi di Agosto).

La II Edizione fu un vero e proprio successo, il numero di partecipanti raddoppiò mentre la partecipazione al Torneo divenne sempre più popolare variopinta e massiccia: la nostra cittadina incominciò a dividersi in fazioni che tifavano per una piuttosto che per l’altra squadra, una serie di giornali locali si interessarono al fenomeno facendoci un po’ di pubblicità. Nella III Edizione il Torneo Antifascista di Quarto diventava un vero e proprio campionato parallelo a quello della Serie A (iniziò a Gennaio e finì ad Agosto) 20 squadre tutti contro tutti in un unico Girone all’Italiana, 400 gli iscritti, centinaia i Tifosi; un programma settimanale, autoprodotto che intervistava i protagonisti della settimana e faceva vedere la sintesi delle partite, 50° Minuto, in ricordo del “nostalgico” 90°Minuto (perché a calciotto i tempi sono due da 25’Minuto); un collettivo di gestione diviso in diverse commissioni.

Un Account FB e un canale Youtube, pubblicizzavano la cosa sulla rete, avevamo raggiunto il nostro salto di qualità definitivo, da cosa ristretta ad un gruppo di compagni e amici, stavamo arrivando praticamente a tutto il territorio Flegreo, non vi erano più solo squadre di Quarto, ma praticamente da tutta la provincia di Napoli.

Da Quest’esperienza ci venne in mente di fondare una vera e propria squadra da iscrivere in un Campionato Ufficiale (FIGC III Categoria di Napoli), per iniziare a portare la nostra esperienza a contatto con altre realtà, in modo tale da poter “infettare” con il nostro progetto, quante più persone e contesti nuovi possibili.

Così, partendo dai giocatori che partecipavano al Torneo, organizzammo uno stage per selezionare la rosa della squadra; in 80 si sono presentanti allo stage e la scelta (presa da una commissione tecnica) è stata davvero difficile. A quel punto dovevamo solo scegliere il nome della nascente Associazione Sportiva Dilettantistica, altra scelta molto ardua e difficile, scegliemmo dopo diverse discussioni e anche qualche litigata il nome di Quartograd. Il riferimento è a ovviamente a Stalingrad, in quanto eravamo tutti d’accordo che “come a Stalingrado non passarono i Nazisti, sui campi in cui gioca il Quartograd non passeranno il Fascismo, il Razzismo e l’odio verso il diverso”, fu questa considerazione a mettere tutti d’accordo.

Il discorso può essere esteso alle gradinate: nelle categorie superiori tessere e divieti hanno contribuito a spegnere la passione dei tifosi, voi invece riuscite a portare gente allo stadio, soprattutto in trasferta e ad utilizzare gli striscioni come efficace mezzo di comunicazione. Quanto è importante all’interno del progetto il sostegno dei tifosi che vi seguono? 

Il Collettivo di Tifosi che segue il nostro progetto è importante quanto la squadra e il collettivo dirigenziale. Da subito abbiamo deciso d’impostare l’asd in modo tale che alle riunioni in cui decidiamo le linee di sviluppo del progetto, oltre ai compagni che partecipano al collettivo dirigenziale, prendono parte anche due componenti della squadra e un rappresentante della tifoseria; ciò va praticamente controtendenza rispetto a quanto siamo abituati a vedere oggi nelle altre società. Qui tutti sono fondamentali e possono dire la loro; squadra, tifosi e dirigenza sono tre collettivi che mensilmente si confrontano e dibattono su problematiche e difficoltà affrontate durante la settimana.

Il Quartograd è riuscito a coinvolgere in questo modo una cittadina intera; siamo in III Categoria e quindi rappresentiamo gli ultimi degli ultimi del calcio dilettantistico ma ogni domenica sui gradoni degli stadi in cui giochiamo (quando ci sono) vi sono almeno cento persone che assistono alle nostre partite: giovani, pensionati, disoccupati, casalinghe, mogli dei calciatori, madri, figli, tutti insieme a supportare con la loro presenza un progetto che sentono proprio.

Per anni il calcio è stato utilizzato da chi di dovere per mettere masse contro masse, per alimentare una guerra tra poveri; noi invece dimostriamo che è possibile rigettare al mittente ogni tentativo di dividerci e utilizzare anche il tifo in modo diverso. Lanciando appelli, sostenendo campagne (come quella per i numeri identificativi sulle fdo) o denunciando abusi (Caso Cucchi) oppure prendendo posizioni (Corteo Contro la Repressione di Teramo). I nostri nemici non sono certo i ragazzi che incontriamo sui campi in cui andiamo a giocare, loro al massimo sono delle vittime delle stesse contraddizioni che ogni giorno viviamo noi in questa società; i nostri nemici dichiarati sono piuttosto coloro che ci costringono ogni giorno a vivere in territori sempre più devastati da politiche antipopolari di devastazione e saccheggio, di abbrutimento morale, sociale ed economico, in cui regnano disoccupazione, mancanza di servizi e di diritti fondamentali (istruzione, sanità, mobilità, casa ecc). Il Quartograd ha dato un esempio concreto da questo punto di vista: le masse popolari autorganizzate possono tutto, anche senza proprietari, presidenti e padroni che le comandano. Dobbiamo essere un esempio per quanti oggi giorno non ne possono più, di pagare sulla propria pelle il prezzo di politiche scellerate di macelleria sociale attuate dai vari Governi, solo uniti, collettivizzando anche i problemi possiamo distruggere il nostro nemico. Hai bisogno di una casa? Organizzati in un comitato e occupala. Hai bisogno di un lavoro? Organizzati in liste dei disoccupati con altri e lotta per ottenerlo. Hai bisogno di spazi di aggregazione? Organizzati con altri giovani e occupa.

Quartograd rappresenta forse anche a livello europeo uno degli esempi più efficaci di contrasto al ‘calcio moderno’, tema molto attuale soprattutto in Inghilterra dove il processo di cambiamento del football è iniziato con largo anticipo. Secondo te cosa possono fare i tifosi per invertire questa tendenza per rimettere in primo piano gli aspetti più affascinanti di questo sport?

Penso ad una campagna reale, che potrebbe e dovrebbe partire a livello nazionale tra quanti realmente non ne possono più e vorrebbero ripartire da quelli che sono le radici di questo bellissimo sport, iniziando dai tifosi e dagli appassionati che in questi anni sono stati umiliati dagli scandali e dalla repressione.  Potrebbero ragionare su un vero e proprio boicottaggio del cosiddetto calcio che conta, quello in cui girano i soldi, bloccare l’economica mettendo un vero e proprio freno a tutto. Mi spiego meglio: Aumentano i biglietti e le norme di restrizione per l’acquisto ? Non andare piu’ allo stadio. La Pay Tv ? Boicottala, oppure invece di fare 50 abbonamenti, ne facciamo uno e guardiamo tutti la partita insieme. Se ami questo sport, non scommetterci su, ogni euro dato allo SNAI è una coltellata al pallone di cuoio. Hanno capito che sulla passione dei tifosi si può lucrare, e per tale motivo stanno cercando di spolparci fino in fondo. Cosa farebbero se improvvisamente si svuotassero gli stadi e si riducessero del 50% scommesse e abbonamenti alla PAY- TV?. Agli appassionati veri, dico: ricominciate dalle origini, dai campi di periferia, quelli di terra battuta, in cui fango e sudore si mischiano in uno strano tanfo e dove non esiste alcuna gloria se non quella di urlare goal.

Al di là dell’aspetto strettamente calcistico cosa chiedete a giocatori e staff tecnico e come finanziate il progetto?

Ai nostri ragazzi, chiediamo di tradurre in campo, i valori e gli ideali che ogni giorno noi portiamo nelle strade, nelle piazze e negli stadi. A loro infondo è affidato il compito più arduo e difficile, quello di competere, agonisticamente e dimostrare che “Un Altro Calcio è Possibile”. Il progetto si autofinanzia tramite, cene, feste e attraverso donazioni di singoli, piuttosto che attraverso una quota mensile di 20€ che versano i calciatori. Abbiamo fatto delle Tessere di Sostegno Economico al progetto, una sorta di abbonamento che però non serve ad accedere allo Stadio (l’ingresso è gratuito e aperto a tutti), ma finanziano il Quartograd.

Quartograd non è solo calcio ma anche impegno sociale e aggregazione. Un punto di riferimento per i giovani in un territorio in cui insidie e problemi non mancano. Quali sono state in questo senso le difficoltà incontrate fino ad ora?

Le difficoltà sono tante, da trovare strutture che ci ospitano senza speculare sul nostro modo “diverso” di fare sport, fino al far capire a tutti di dover contare solo ed esclusivamente sulle proprie forze per andare avanti. Intorno a noi ci c’è chi lavora e chi studia anche se molti purtroppo sono disoccupati. In questo contesto le contraddizioni sono molteplici, noi cerchiamo di trattarle con un unico spirito, cerchiamo di essere inclusivi anche facendo le scelte più difficili, condividendo le decisioni e cercando di stimolare sempre il dibattito e il confronto tra le parti. Le nostre vittorie sono l’aver creato il confronto fra ragazzi che prima di questo momento mai si sarebbero sognati di partecipare ad un’assemblea di autogestione, piuttosto che coinvolgere e stringere legami con altre realtà, una su tutti i ragazzi di Frattaminore che dopo aver giocato contro di noi e aver conosciuto la nostra esperienza, hanno deciso di portare avanti una mobilitazione popolare sul proprio territorio per farsi affidare il campo comunale. Lo spirito di gruppo è un’altra vittoria fondamentale, come l’aver portato in III Categoria ragazzi che si sono completamente allontanati dal mondo del calcio perché nauseati dal marcio che ci gira intorno o che al contrario hanno giocato in Campionati di Eccellenza, Promozione, Serie D o ancora nelle giovanili di squadre professionistiche.

Dopo pochi mesi di attività il campionato sta andando alla grande e il progetto funziona, quali sono i prossimi obiettivi e dove vogliono arrivare Quartograd e la sua gente?

Vogliamo crescere e iniziare a muoverci sulle nostre gambe. Vorremo iniziare a lavorare con i bambini, spiegare a loro quello che noi abbiamo imparato durante il nostro percorso di vita: m’immagino una Scuola Calcio Popolare, in cui a secondo della propria condizione sociale le famiglie pagano una retta d’iscrizione per sostenere il progetto. Allargarci anche ad altre discipline, iniziare a sviluppare un principio ad ampio raggio di Sport Popolare, e per Tutti, magari creare una Polisportiva, curare il corpo insomma ossia curare il proprio equilibrio psico-fisico. Avanti Quartograd!

Torneo antirazzista

Tifosi Quartograd

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Calcio e passione sulla strada per Marassi

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(@dettobene)

Il mio cuore batte altrove ma negli ultimi cinque anni seguendo Sampdoria e Genoa per il quotidiano Cittadigenova ho avuto modo di analizzare e capire abbastanza bene il profondo legame che c’è fra la gente e le due squadre cittadine. Genova resta una delle poche città in cui o si è rossoblu oppure blucerchiati e la percentuale di chi supporta altre squadre è davvero minima. Certo, quando arrivano Milan, Inter o Juventus c’è attesa, fibrillazione, ma niente è paragonabile al derby che “è come fossero Pasqua e Natale” come cantavano i Mau Mau qualche tempo fa. Dall’orgoglio dei doriani manifestato nella festa per la Champions come nell’amarissimo giorno della retrocessione, fino all’attaccamento dei genoani espresso nel giorno della partita contro il Siena o in tutto quello che in questi anni ha riguardato Claudio Spagnolo, da entrambi i lati ho sempre visto una passione vera e intensa, indipendente dai risultati delle squadre.

Prima i propri colori, poi tutto il resto. Un insegnamento che sotto la Lanterna passa di padre in figlio da generazioni come gli abbonamenti nelle due gradinate del Ferraris, fra le poche a non risentire del calo generale di presenze che ha riguardato negli ultimi  anni i nostri stadi. Al di là di quanto si vede in campo –nulla di entusiasmante da due stagioni a questa parte- da appassionato del tifo prima che del gioco ogni settimana mi godo il percorso da Brignole a Marassi mescolato ai sostenitori della squadra di casa. Dai bar e ristoranti in cui si consumano rapidi pasti prima del fischio d’inizio agli umori e alle speranze che accompagnano ultras e tifosi nel percorso verso lo stadio. Domenica prima di Genoa-Lazio mi ha colpito la determinazione del bimbo della foto, con sciarpa al collo e una bandiera con l’asta ben più alta di lui. In più di un’occasione il padre lo ha avvicinato per dargli una mano dato il forte vento –altra costante del calcio al Ferraris- ma lui non ne ha voluto sapere, tenendola con due mani, caparbiamente aperta sopra alla testa fino all’ingresso quando li ho persi di vista. Mi sarebbe piaciuto ritrovarli dopo la partita probabilmente ancora emozionati per la vittoria arrivata al quinto minuto di recupero, felici dopo pomeriggio intenso di calcio vissuto sugli spalti a cantare e soffrire per i propri colori.

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Mi ricordo Gianni Brera

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(@dettobene)

Il 19 dicembre 1992 a Codogno se ne andava Gianni Brera, giornalista che come nessun altro ha influenzato la scrittura sportiva con uno stile innovativo e ricco di neologismi tuttora indispensabili per chi scrive di calcio e di sport. Ha raccontato il football senza pay-tv, quello degli stadi pieni, dei personaggi leggendari e delle maglie dall’uno all’undici.

Il mio ricordo di Gianni Brera è legato alle tante estati passate a Monterosso nel mese di luglio. Verso le otto di sera usciva di casa accompagnato dai figli e attraversava la strada entrando nella spiaggia quasi deserta. Con passo lento e affaticato arrivava direttamente con l’accappatoio e si spogliava poco prima di entrar in acqua. Io avevo 9-10 anni e mi godevo l’ultimo lunghissimo bagno della giornata, quando uscivo mio papà mi diceva “vedi, quello è Gianni Brera”. Sono già passati vent’anni.

Di seguito due estratti dall’introduzione di Gianni Mura al libro “Parola di Brera” uscito oggi con La Repubblica, quotidiano per il quale iniziò a lavorare nel 1982 dopo aver lasciato Il Giornale.

“La partita notturna inchioda al rispetto degli orari, Gianni Brera o Pinco Pallino non fa differenza. Per questo, più d’una volta, Brera non si metteva nemmeno a battere sui tasti dell’Olivetti. Guardava gli appunti e dettava a braccio, come stesse raccontando la partita a un amico. Era uno spettacolo, davvero. E lo spettacolo, per chi l’aveva visto all’opera, era l’indomani il pezzo stampato, che tutto sembrava meno che dettato a braccio”.

“Era alle prese col rapporto qualità-tempo, che Brera svettava leoninamente: i pezzi come piatti di un ristorante stellato, ma coi ritmi di una pizzeria da asporto”. 

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A Marassi per la Samp e contro il calcio moderno. La passione blucerchiata di un tifoso inglese

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Salvo poche eccezioni, e il derby di domenica fra Sampdoria e Genoa è una di queste, non si può certo dire che il fascino della nostra serie A sia lo stesso di qualche tempo fa quando abbondavano campioni e pubblico sugli spalti. Complici caro biglietti, tessere e leggi restrittive negli ultimi anni gli stadi hanno visto affievolirsi entusiasmo e presenze mentre le società hanno dovuto fare i conti con gestioni dai costi improponibili e la discesa in campo di magnati ed emiri che hanno cambiato le regole del mercato prendendosi i giocatori migliori. Non è un caso che molti tifosi ora preferiscano il comodo divano di casa per godersi lo spettacolo di Bundesliga, Liga o ancora meglio Premier League verso cui il pellegrinaggio di supporters italiani è ormai una costante settimanale specie a Londra. Pur con tutti i suoi problemi però la Serie A continua ad avere ammiratori Oltremanica, dove sono in continuo aumento coloro che compiono il percorso inverso per venire ad assistere dal vivo al nostro calcio, quello in cui si può stare ancora in piedi o fumare sulle gradinate, e dove i gruppi organizzati, nonostante tutto, provano a dare il proprio sostegno alle squadre. Dalla patria del calcio arriveranno a Genova degli appassionati anche per la stracittadina di domenica, mentre a fine settembre il blogger e tifoso del Brighton Steve Kirkwood ha raggiunto Marassi per Sampdoria-Torino. Un’esperienza raccontata con grande entusiasmo sulle pagine di “Stand Against modern football”, neonata fanzine che si schiera contro la deriva del ‘calcio moderno’ sempre più impostato a favore delle tv e con la gente in secondo piano. “Il 1992 è stato un anno fondamentale per il nostro calcio –racconta nel suo articolo ‘The Hovian’-perché Channel 4 iniziò a trasmettere le partite della Serie A”. Allora la Premier non era nemmeno paragonabile a quella attuale mentre il nostro campionato era ancora caratterizzato dalla presenza di grandi campioni: “La prima partita che vidi fu un 3-3 fra la Lazio e la Sampdoria di Vialli, Mancini e Lombardo che aveva appena vinto lo scudetto. Lo spettacolo in campo, un Marassi mozzafiato come sfondo e le meravigliose casacche della Sampdoria mi fecero innamorare di questo campionato, che ho seguito fino a quando è stato cancellato dalla tv in chiaro per fare spazio al business divano-tv-tifosi-soldi”. 

Lo stesso processo, iniziato da noi qualche hanno più tardi, che dato il via a quel tanto famoso “modello inglese” che si vorrebbe importare anche qui e che in Inghilterra ha stravolto le abitudini di generazioni di tifosi cresciuti sulle gradinate a tifare per la propria squadra. “Quest’hanno –prosegue- ho deciso di andare a vedere la Sampdoria contro il Torino, sbagliando solo ad acquistare il biglietto on line pagandolo 60 euro anziché 21 allo stadio. La partita mi ha riservato tutto quello che avevo sempre sperato: 22 mila persone urlanti, i Granata nel loro settore e ovviamente gli Ultras Tito Cucchiaroni nella Gradinata Sud. Torce, bandiere e qualche petardo hanno reso lo spettacolo memorabile. Ho potuto fumare stando in piedi nei distinti, con pochi steward in giro ed altri tifosi che hanno incitato la squadra per tutto il match o attaccato l’arbitro per alcuni episodi. Mi veniva la pelle d’oca ogni volta che si alzava un coro dalla Sud”.
Dal tifo blucerchiato all’agonismo in campo: “La sfida è stata incredibile –si legge ancora su Stand AMF, il cui terzo numero sarà disponibile a breve- in Premier ci sarebbero stati almeno quattro cartellini rossi, qui solo alcuni gialli. Maresca della Sampdoria è stato una vera rivelazione, è finita 1-1 ma è stata una delle partite più belle che abbia visto negli ultimi anni”. Per noi uno spettacolo non proprio entusiasmante ma ancora affascinante per chi è ormai abituato ad un calcio che obbliga la sua gente a stare seduta e composta al proprio posto.
“Finalmente ho coronato il mio sogno di vedere la Sampdoria –conclude quasi con emozione Steve- ed ho già prenotato per la partita di gennaio allo Juventus Stadium. Il calcio italiano è meno ricco e tecnico rispetto a com’era negli anni Novanta ma in confronto fare il tifo in Inghilterra è come guardare una partita di bocce”. Un motivo in più per godersi ogni sfumatura di un derby dal fascino impareggiabile nonostante tutto.

(pubblicato su Cittadigenova il 16 novembre 2012)

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Il primo gol di Tony Hibbert. We riot

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Dopo più di 300 partite con la maglia dell’Everton senza averla mai buttata dentro, Tony Hibbert ha scelto la giornata più importante, durante il ‘testimonial’ a lui dedicato, per segnare il suo primo gol con i Toffes. Nella sponda meno vincente del Merseyside infatti Hibbert è un pezzo di storia, nato ad Huyton nei sobborghi di Liverpool, ha sempre vestito la maglia blu, dalle giovanili fino alla prima squadra di cui fa parte dal 2001. Un’intera carriera dedicata all’Everton di cui il terzino è diventato una vera e propria bandiera nonostante le poche soddisfazioni sportive per un club che ha dovuto spesso assistere ai festeggiamenti degli odiati Reds. Giocatore generoso ed affidabile che in tutti questi anni non aveva mai provato la gioia di segnare un gol da festeggiare con i suoi tifosi. Un’astinenza diventata record nel 2009 quando era rimasto l’unico giocatore di Premier con il più alto numero di partite senza reti e sintetizzata dai tifosi nello striscione “If Hibbert Scores, We Riot” esposto in una gara di FA Cup. Tifosi che sono stati di parola nei giorni scorsi, durante la partita contro l’Aek Atene in cui sono stati celebrati i dieci anni di militanza di Hibbo nell’Everton. Sul 3-0 per i padroni di casa dopo la tripletta di Naismith, il tecnico Moyes ha fatto battere una punizione dai venticinque metri al suo numero 2, invocato da tutto il leggendario Goodison Park. Destro rasoterra a fil di palo e palla in rete con la complicità del portiere. 309 partite e primo gol di Tony Hibbert, nella sua partita, nella sua notte di gloria. “Una favola” come lui stesso l’ha definita, dopo l’abbraccio dei compagni e quello di decine di tifosi che hanno lasciato il proprio posto in gradinata e si sono riversati in campo per andare ad abbracciare il proprio idolo. Un’invasione pacifica, emozionante, attesa per più di dieci anni per ringraziare l’uomo che ha scelto di legare la sua carriera ad una sola squadra, ai suoi colori e alla sua gente.

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We are the Geordies. Il derby Newcastle-Sunderland

di Benedetto Marchese (@dettobene)

Dopo alcuni precedenti nella capitale la prima esperienza con il calcio inglese lontano da Londra è a Newcastle per il derby locale con il Sunderland che due volte l’anno esalta l’eterna rivalità fra le due città. L’occasione è il primo weekend di marzo, con la complicità di un Geordie adottato dalla Curva Ferrovia ed alcuni compagni di tante trasferte su e giù per l’Italia al seguito degli aquilotti. L’arrivo è proprio nella City, prima del trasferimento in treno più su a nord, dopo aver attraversato campagne, colline e città dall’atmosfera molto più raccolta rispetto a quella appena lasciata alle spalle. Ad accogliere vecchi e nuovi visitatori nel Tyneside è “L’angelo del Nord” una gigantesca scultura in ferro dell’artista Antony Gormley situata alle porte di Newcastle, ultimo grosso centro urbano prima del confine con la Scozia.

Il primo impatto con la città è ottimo: ben curata, viva e raccolta in un centro nel quale sono ancora riconoscibili i segni della presenza dei Romani che la fondarono e le diedero il nome attuale. Ma a richiamare l’attenzione è soprattutto l’attesa febbrile per quella che di fatto è la partita più importante dell’anno per l’unica squadra cittadina seguita con grande attaccamento. Una vigilia vissuta in un sabato sera dal tasso alcolico altissimo, che finisce per riprendere allo stesso modo il giorno del match. Per motivi di sicurezza infatti il kick-off è fissato alle 12.00 quindi già alle 9 i pub sono imballati di tifosi che tra una birra e l’altra provano a domare la tensione. In stazione arrivano anche gli odiati rivali del Sunderland, duemilasettecento, i quali scortati da un imponente servizio d’ordine arrivano a piedi fino allo stadio in coincidenza con il grosso dei supporters bianconeri. In Gallowgate Road i due gruppi camminano a pochi metri di distanza, divisi solo dalla Polizia e lo scambio di insulti, cori e sfottò è inevitabile, qualcuno prova anche rompere i cordoni ma viene respinto dai cavalli. Le divise fluorescenti degli agenti spiccano fra l’abbigliamento impeccabile dei lads di ambo le parti con immancabili trainers Adidas, giacconi Stone Island e Barbour, anche se molti, nonostante il freddo si limitano ad indossare camicie e maglioni. Sguardi di sfida ed adrenalina a mille per circa cento metri, prima che Mackems e padroni di casa raggiungano i propri settori. Rispetto a quando accade a Londra spicca l’assenza di italiani ad eccezione dei ragazzi del club Newcastle di Bergamo arrivati appositamente per la partita.

Al fischio d’inizio mancano pochissimi minuti ma le procedure d’ingresso sono come sempre brevi ed essenziali: nessuno ti chiede documenti o tessere né ti perquisisce; agli steward non interessa il nome riportato sul biglietto, ma solo che il codice a barre venga letto regolarmente dallo strettissimo tornello. Una volta all’interno ci vogliono pochi secondi per trovare il proprio posto nel Sir John Hall Stand, nella parte più nuova di uno degli impianti più antichi di tutta l’Inghilterra con i suoi 52mila posti a sedere e perfettamente inserito nel cuore della città. Nella struttura di vetro ed alluminio rimbombano i cori che accolgono in campo le due squadre e si fanno sentire anche gli ospiti i quali non mancano di sottolineare con ironia la svolta “commerciale” del presidente del Newcastle che recentemente ha cambiato il nome allo stadio sostituendolo con quello della catena Sport Direct di sua proprietà, raccogliendo il comprensibile sdegno dei tifosi del club. Agli sfottò dei rivali i Magpies rispondono mostrando la mano ben aperta a simboleggiare i cinque gol inflitti nel memorabile derby dell’ottobre 2010 e sventolando decine di mazzi di chiavi il cui suono ricorda l’accento degli avversari. Battaglia verbale sugli spalti e calci veri in campo dove Cattermole viene ammonito dopo un solo minuto. Entrate dure favorite anche dalla pioggia battente e molta tensione, con gli ospiti che partono meglio e al ventiquattresimo sbloccano la partita. Williamson atterra Turner in area e l’arbitro Dean fischia il calcio di rigore che Bendtner trasforma nonostante il tuffo dell’ottimo Krul. Il Newcastle prova subito a reagire ma Demba Ba non è Shearer e su azione d’angolo colpisce la traversa di testa mentre poco dopo i padroni di casa reclamano anche un rigore. Nell’intervallo Pardew scuote i suoi togliendo anche lo spento Santon, tornato su ottimi livelli in Premier League, ed affidandosi al talentuoso Ben Arfa per cercare di rimettere in piedi l’incontro. Il francese prende per mano i suoi che riescono a schiacciare nella propria metà campo i ragazzi di O’Neill, rimasti anche in dieci dopo l’espulsione di Sessegnon.

La rincorsa del Newcastle viene finalmente premiata quando la bandiera del club Shola Ameobi, entrato da poco, cerca ed ottiene un calcio di rigore. Ad otto minuti dalla fine St.James trattiene il fiato ma Ba sciupa tutto facendo fare bella figura a Mignolet che si distende e para. Il boato degli ospiti equivale ad un gol e sembra spegnere l’entusiasmo del resto dello stadio. Una delusione che si trasforma però in bolgia quando al secondo dei cinque minuti di recupero proprio Ameobi anticipa tutti e segna il suo settimo gol in carriera ai “Black cats” che vedono così svanire il sogno di una vittoria esterna nel derby. Il Newcastle prova addirittura ad inseguire l’incredibile raddoppio trascinato anche dalla sua gente ma l’1-1 finale vale quanto una vittoria sia per i giocatori che per i supporters che fra solidi abbracci e pugni chiusi al cielo si rivolgono ai rivali ammutoliti con tutto il repertorio d’insulti del caso.

Il deflusso dall’affascinante impianto è rapido e festoso mentre i Sunderland escono solo dopo circa mezz’ora, scortati dalla Polizia che in alcuni momenti fatica ad evitare contatti pericolosi. Così mentre gli ospiti fanno ritorno in stazione il centro di Newcastle si ripopola nuovamente dell’entusiasmo e dell’inesauribile sete dei suoi tifosi, fra sorrisi e cori che esaltano l’orgoglio Geordie e la passione per i propri colori.

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Niente tessera sono inglesi, un pomeriggio da tifoso in Premier League

Foto B.M.

Foto B.M.

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su cittadigenova.com e cittadellaspezia.com l’11/10/2009)

Biglietto rigorosamente nominale in una mano, carta d’identità nell’altra e perquisizione post tornello. Procedura ormai ordinaria per tutti i tifosi italiani che assiduamente seguono la propria squadra del cuore e che da gennaio si troveranno ad aver a che fare anche con la famigerata e tutt’altro che attesa tessera del tifoso. Non proprio l’approccio ideale per quello che dovrebbe essere esclusivamente un appuntamento di passione magari impreziosito da una vittoria o da una bella partita; una sensazione ancora più frustrante qualora capiti di ritrovarsi Oltremanica per una qualsiasi partita di Premier League. Uno degli innumerevoli derby di Londra ad esempio, quello fra il West Ham di Gianfranco Zola ed il Fulham di Roy Hodgson nel quartiere popolare di Newham nell’est metropolitano. Nel viaggio dal centro cittadino verso Upton Park, i vagoni della metro, col susseguirsi delle fermate si riempiono dei colori Claret & Blue dei tifosi che una volta a destinazione si riversano nella lunga Green Street che porta allo stadio e alla statua che celebra Bobby Moore e gli eroi del Mondiale del ’66. Niente a che vedere con le recenti immagini degli scontri con i rivali di sempre del Millwall o le imprese dell’aspirante hooligan Frodo-Elijah Wood; la strada è invasa dei supporters di casa il cui religioso percorso verso il Boleyn Ground casa del West Ham, è contraddistinto dalle tradizionali consuetudini: l’acquisto del match programme, la birra e l’hamburger con gli amici e la tappa obbligata fra bancarelle e negozio del club per gli ultimi arrivi del merchandising. Non manca quello griffato “Inter City Firm”, il materiale della gang che negli anni Ottanta portava scompiglio negli stadi di Sua Maestà ed ora è acquistabile proprio di fronte all’ingresso principale. Il rispetto della coda, sia essa per un panino o per una maglietta è essenziale, ma quella che porta ai botteghini colpisce per rapidità di scorrimento ed il motivo è spiegato appena arriva il proprio turno. I biglietti preventivamente acquistati sul sito ufficiale del club, tre con un solo nominativo uguale per tutti, e pagati comodamente con carta di credito, vengono stampati e consegnati in brevissimo tempo e soprattutto senza l’esibizione di alcun documento; tutto viene affidato al codice numerico che si riceve via mail. La procedura, di per se sorprendete rispetto ai nostri standard, risulta ancora più semplice e snella al momento dell’ingresso. Mostrando solo il biglietto allo steward in pochi secondi si passa dal tornello al cuore dell’impianto. Niente carta d’identità, nessuna perquisizione ne tantomeno alcuna tessera da esibire; solo molta cordialità e la sensazione di apprestarsi davvero a vivere una partita di calcio. La conferma arriva una volta preso posto sugli spalti che in pochi minuti si colorano dei colori di casa e dei simboli che ne hanno fatto la storia, i martelli incrociati ed il numero 6 del capitano campione del Mondo. Quando tutti sono già sistemati nel proprio seggiolino, lo stesso di stagione in stagione, come testimoniano i saluti con i vicini di gioie e dolori, ecco l’inno “I’m forever blowing bubbles”. Tutti in piedi per seguire gli altoparlanti che dopo una strofa lasciano spazio solo al coro dei tifosi e al loro orgoglio. L’atmosfera testimonia perfettamente il senso di appartenenza del popolo degli Hammers alla propria squadra nonostante da anni sia lontana dai vertici della sempre più esterofila Premier, con i suoi dieci presidenti stranieri, padroni di casa compresi. Sul perfetto terreno di gioco però lo spettacolo non è dei più entusiasmanti nonostante il vantaggio dei locali dopo pochi minuti con Cole. Il gioco delle due squadre fa sicuramente rimpiangere il nostro campionato, ma ai tifosi bastano un tackle efficace o un tiro da venti metri per alimentare il proprio entusiasmo mentre il solo Diamanti sembra essere capace di fare la differenza fra i ventidue. Gli ospiti decidono di non stare a guardare il talento italiano e sospinti anche dal sorprendente calore dei propri sostenitori ribaltano il risultato nella ripresa nonostante l’uomo in meno. In quello che è anche un derby fra quartieri diversi per status sociale, la working class da una parte e quella più agiata dall’altra, l’esperienza di Hodgson sembra avere la meglio sull’abilità tattica di Zola, fino al novantesimo quando Stanislas appena entrato pesca il tiro fortunoso che regala il tanto sofferto pareggio al West Ham. L’applauso finale, sentito e convinto, sembra non risentire della classifica non proprio esaltante, e poco dopo i supporters delle due squadre si ritrovano nuovamente sulla strada verso la stazione, fianco a fianco in coda in attesa del treno, ognuno con i propri i colori e le prorprie sensazioni dopo un intenso pomeriggio come tanti dedicati al football. Perché il tifoso lo fanno il calcio e la passione, non una tessera.

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