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A Milazzo in memoria di Giuseppe Tusa

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(di @dettobene)

Cinque anni fa il crollo della Torre Piloti di Genova l’ho seguito in tv subito dopo l’accaduto, in piena notte. Nelle ore successive ne ho scritto e nel giorno della camera ardente al Porto Antico ho visto da vicino il dolore dei familiari.
Ieri a Milazzo ho conosciuto la vicenda in una dimensione diversa. Nei luoghi, negli affetti e nelle persone più vicine ad uno di quei nove ragazzi.
Ho conosciuto Adele Chiello Tusa, madre per le quali coraggio, tenacia e dignità sono parole vere, concrete contagiose.
Ho visto cosa c’è oltre oltre il clamore e l’attenzione mediatica del momento, cosa significano anni di udienze, speranze e frustrazioni e cosa significa lottare ogni singolo giorno contro giganti veri e cinici.
Ho ritrovato le stesse emozioni in Daniela, accomunata ad Adele dallo stesso dolore e dalla medesima forza.
Ho provato l’emozione di reggere e portare in giro quello striscione con i trentadue volti e la loro storia viareggina.
Ho vissuto ventiquattrore intensissime e preziose, trascorse con compagni di viaggio perfetti.
Grazie di cuore a tutto il Lavoratorio Artistico.

Qui i miei articoli usciti su GenovapostCittadellaspezia e Voceapuana

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Calcio e passione sulla strada per Marassi

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(@dettobene)

Il mio cuore batte altrove ma negli ultimi cinque anni seguendo Sampdoria e Genoa per il quotidiano Cittadigenova ho avuto modo di analizzare e capire abbastanza bene il profondo legame che c’è fra la gente e le due squadre cittadine. Genova resta una delle poche città in cui o si è rossoblu oppure blucerchiati e la percentuale di chi supporta altre squadre è davvero minima. Certo, quando arrivano Milan, Inter o Juventus c’è attesa, fibrillazione, ma niente è paragonabile al derby che “è come fossero Pasqua e Natale” come cantavano i Mau Mau qualche tempo fa. Dall’orgoglio dei doriani manifestato nella festa per la Champions come nell’amarissimo giorno della retrocessione, fino all’attaccamento dei genoani espresso nel giorno della partita contro il Siena o in tutto quello che in questi anni ha riguardato Claudio Spagnolo, da entrambi i lati ho sempre visto una passione vera e intensa, indipendente dai risultati delle squadre.

Prima i propri colori, poi tutto il resto. Un insegnamento che sotto la Lanterna passa di padre in figlio da generazioni come gli abbonamenti nelle due gradinate del Ferraris, fra le poche a non risentire del calo generale di presenze che ha riguardato negli ultimi  anni i nostri stadi. Al di là di quanto si vede in campo –nulla di entusiasmante da due stagioni a questa parte- da appassionato del tifo prima che del gioco ogni settimana mi godo il percorso da Brignole a Marassi mescolato ai sostenitori della squadra di casa. Dai bar e ristoranti in cui si consumano rapidi pasti prima del fischio d’inizio agli umori e alle speranze che accompagnano ultras e tifosi nel percorso verso lo stadio. Domenica prima di Genoa-Lazio mi ha colpito la determinazione del bimbo della foto, con sciarpa al collo e una bandiera con l’asta ben più alta di lui. In più di un’occasione il padre lo ha avvicinato per dargli una mano dato il forte vento –altra costante del calcio al Ferraris- ma lui non ne ha voluto sapere, tenendola con due mani, caparbiamente aperta sopra alla testa fino all’ingresso quando li ho persi di vista. Mi sarebbe piaciuto ritrovarli dopo la partita probabilmente ancora emozionati per la vittoria arrivata al quinto minuto di recupero, felici dopo pomeriggio intenso di calcio vissuto sugli spalti a cantare e soffrire per i propri colori.

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A Marassi per la Samp e contro il calcio moderno. La passione blucerchiata di un tifoso inglese

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Salvo poche eccezioni, e il derby di domenica fra Sampdoria e Genoa è una di queste, non si può certo dire che il fascino della nostra serie A sia lo stesso di qualche tempo fa quando abbondavano campioni e pubblico sugli spalti. Complici caro biglietti, tessere e leggi restrittive negli ultimi anni gli stadi hanno visto affievolirsi entusiasmo e presenze mentre le società hanno dovuto fare i conti con gestioni dai costi improponibili e la discesa in campo di magnati ed emiri che hanno cambiato le regole del mercato prendendosi i giocatori migliori. Non è un caso che molti tifosi ora preferiscano il comodo divano di casa per godersi lo spettacolo di Bundesliga, Liga o ancora meglio Premier League verso cui il pellegrinaggio di supporters italiani è ormai una costante settimanale specie a Londra. Pur con tutti i suoi problemi però la Serie A continua ad avere ammiratori Oltremanica, dove sono in continuo aumento coloro che compiono il percorso inverso per venire ad assistere dal vivo al nostro calcio, quello in cui si può stare ancora in piedi o fumare sulle gradinate, e dove i gruppi organizzati, nonostante tutto, provano a dare il proprio sostegno alle squadre. Dalla patria del calcio arriveranno a Genova degli appassionati anche per la stracittadina di domenica, mentre a fine settembre il blogger e tifoso del Brighton Steve Kirkwood ha raggiunto Marassi per Sampdoria-Torino. Un’esperienza raccontata con grande entusiasmo sulle pagine di “Stand Against modern football”, neonata fanzine che si schiera contro la deriva del ‘calcio moderno’ sempre più impostato a favore delle tv e con la gente in secondo piano. “Il 1992 è stato un anno fondamentale per il nostro calcio –racconta nel suo articolo ‘The Hovian’-perché Channel 4 iniziò a trasmettere le partite della Serie A”. Allora la Premier non era nemmeno paragonabile a quella attuale mentre il nostro campionato era ancora caratterizzato dalla presenza di grandi campioni: “La prima partita che vidi fu un 3-3 fra la Lazio e la Sampdoria di Vialli, Mancini e Lombardo che aveva appena vinto lo scudetto. Lo spettacolo in campo, un Marassi mozzafiato come sfondo e le meravigliose casacche della Sampdoria mi fecero innamorare di questo campionato, che ho seguito fino a quando è stato cancellato dalla tv in chiaro per fare spazio al business divano-tv-tifosi-soldi”. 

Lo stesso processo, iniziato da noi qualche hanno più tardi, che dato il via a quel tanto famoso “modello inglese” che si vorrebbe importare anche qui e che in Inghilterra ha stravolto le abitudini di generazioni di tifosi cresciuti sulle gradinate a tifare per la propria squadra. “Quest’hanno –prosegue- ho deciso di andare a vedere la Sampdoria contro il Torino, sbagliando solo ad acquistare il biglietto on line pagandolo 60 euro anziché 21 allo stadio. La partita mi ha riservato tutto quello che avevo sempre sperato: 22 mila persone urlanti, i Granata nel loro settore e ovviamente gli Ultras Tito Cucchiaroni nella Gradinata Sud. Torce, bandiere e qualche petardo hanno reso lo spettacolo memorabile. Ho potuto fumare stando in piedi nei distinti, con pochi steward in giro ed altri tifosi che hanno incitato la squadra per tutto il match o attaccato l’arbitro per alcuni episodi. Mi veniva la pelle d’oca ogni volta che si alzava un coro dalla Sud”.
Dal tifo blucerchiato all’agonismo in campo: “La sfida è stata incredibile –si legge ancora su Stand AMF, il cui terzo numero sarà disponibile a breve- in Premier ci sarebbero stati almeno quattro cartellini rossi, qui solo alcuni gialli. Maresca della Sampdoria è stato una vera rivelazione, è finita 1-1 ma è stata una delle partite più belle che abbia visto negli ultimi anni”. Per noi uno spettacolo non proprio entusiasmante ma ancora affascinante per chi è ormai abituato ad un calcio che obbliga la sua gente a stare seduta e composta al proprio posto.
“Finalmente ho coronato il mio sogno di vedere la Sampdoria –conclude quasi con emozione Steve- ed ho già prenotato per la partita di gennaio allo Juventus Stadium. Il calcio italiano è meno ricco e tecnico rispetto a com’era negli anni Novanta ma in confronto fare il tifo in Inghilterra è come guardare una partita di bocce”. Un motivo in più per godersi ogni sfumatura di un derby dal fascino impareggiabile nonostante tutto.

(pubblicato su Cittadigenova il 16 novembre 2012)

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Morrissey, l’eterno ragazzo che ha scaldato i cuori di Genova

di Benedetto Marchese (@dettobene)

Nell’estate delle reunion e dei grandi ritorni, dagli Stone Roses fino a New Order e Cure, qualcuno aveva sperato di poter rivedere sullo stesso palco gli Smiths ma la band di Manchester probabilmente non tornerà più per volere dei suoi stessi protagonisti. Il tour di questi giorni in Italia del carismatico leader Morrissey è stato però qualcosa di più di una semplice consolazione per i tantissimi fan del gruppo che ha segnato indelebilmente la storia della musica anglosassone negli anni Ottanta. Dopo la prima data di Roma la prova è arrivata ieri sera dal concerto che al Porto Antico di Genova ha chiuso la prima parte del Goa Boa Festival che proseguirà nella cornice di Villa Serra dal 13 luglio per altre tre serate.
‘Moz’ si presenta sul palco a pochi metri dal mare accompagnato da un affascinante tramonto sulla Lanterna e le gru del Porto e dal boato di un pubblico in cui molti arrivano da fuori regione. Dopo l’esibizione dell’americana Kristeen Young si prende tutta la scena, saluta in italiano e regala sorrisi ed inchini, stringe spesso le mani che si allungano dalle prime file senza mai rinunciare alle pose che lo hanno reso celebre prima con Marr e compagni e poi nella fortunata carriera da solista. “Shoplifters Of The World Unite”, “You have killed me” e “You’re the one for me, fatty” sono l’introduzione di un viaggio fra musica e parole lungo trent’anni, nel quale s’intrecciano mode, stili e generi che Morrissey ha saputo attraversare conservando la sua indole di divo controverso al quale tutto o quasi è concesso, compreso il divieto di vendere carne all’interno della zona concerto. Vezzi che passano in secondo piano davanti ad un carisma impareggiabile e ad una voce ancora intatta, come dimostrano la splendida “Everyday is like Sunday”, “Still ill”, “Speedway” e “Alma matters”. Guardando al ritratto di Oscar Wilde che sullo sfondo esclama ‘Who is Morrissey?” viene da pensare che per il ragazzo di Stretford il tempo sia passato solo per le camice che ora gli stanno un po’ più strette e che durante il concerto cambia più volte rimanendo anche a torso nudo durante “Let me kiss you”. “Ti guarda negli occhi” sottolinea qualcuno mentre lui canta l’amore e la poesia in un’atmosfera velatamente malinconica, rotta solo dai dialoghi con il pubblico che ne applaude ogni parola, ogni sguardo o movimento coreografico con il filo del microfono, che ascolta “Meat is murder” mentre scorrono immagini che denunciano la violenza sugli animali. Un pubblico che si divide sulla composizione della scaletta, dove forse manca quale pezzo storico degli Smiths ma che dopo “I’m throwing my arms around Paris” e “When Last I Spoke to Carol” si ritrova a cantare “How soon is now?” in un finale da brividi. Cellulari, mani e cuori protesi verso l’eterno ragazzo che ha interpretato emozioni e passioni di due generazioni e che in una notte d’estate si è preso Genova.
(pubblicato su www.cittadigenova.com)

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Zero-Plastica e “Basta!”, rap e coscienza da Genova agli Stati Uniti

di Benedetto Marchese

In più di venticinque anni di cultura hip hop in Italia vissuti fra grandi momenti di visibilità, incomprensioni, diatribe, perle underground e nomi durati il tempo di un singolo, fino all’attuale stabilizzazione come genere ‘per tutti’, le connessioni fra la nostra Penisola e gli Stati Uniti sono state per lo più unilaterali, con stili ed influenze che come logico hanno sempre attraversato l’Oceano per arrivare da noi ed essere reinterpretate o prese come esempio. Sono stati rarissimi invece i casi in cui il percorso è stato inverso, quando cioè la scena italiana è riuscita a ritagliarsi uno spazio nella terra dove il rap ha avuto la sua scintilla iniziale. Il primo nome che viene in mente è quello del pioniere Maurizio Cannavò in arte ‘The Next One’, unico bboy italiano apprezzato e riconosciuto a livello mondiale. Il secondo è “Zero Plastica”, ovvero dj Nio e Lurè (Erik Rosa e Lorenzo Pezzati), duo genovese da dieci anni sulla scena che lo scorso 25 aprile è uscito con l’album “Basta” prodotto dalla Nomadic Wax, etichetta internazionale con sede a New York. Per capire come abbiano fatto i nostri ad attirare l’interesse della label di Brooklyn (più o meno come ricevere un complimento da Leo Messi dopo un dribbilng ben riuscito), è sufficiente ascoltare le quattordici tracce contenute nel cd che condensa le esperienze d’instancabile attività sui palchi, le rime ed su un sound originale che ha catturato l’attenzione dell’etichetta che si occupa di hip hop anche attraverso la realizzazione di documentari che analizzano anche l’aspetto politico e sociale dei paesi di appartenenza dei vari artisti. Temi principali del potentissimo brano di apertura che riprende il titolo dell’album, raccontando l’Italia delle ‘armi di distrazione di massa’, del razzismo, degli abusi di potere, delle caste e di uno spettacolo politico da spegnere con il tasto di un telecomando fatto di coscienza ed impegno sociale. Una voglia di cambiamento che pervade anche il riuscitissimo ‘Cantico del precariato’ manifesto di una generazione che deve districarsi fra contratti a termine ed un futuro senza certezze. Istantanee di un presente difficile come quello dei migranti, il cui dramma viene raccontato in ‘Clandò-Clandestino’, con suoni e parole che raccolgono i problemi di un Mediterraneo che gli Zero Plastica guardano da una Genova anestetizzata da ‘lexotan e keta’, quella di ‘Benevenuti a Zena’, aperta da un frammento dei Trilli e chiusa in dub e jungle dai versi di Eugenio Montale. Città dalle mille contaminazioni stilistiche e culturali, tradotte in musica con la partecipazione del rapper tunisino GoMan Xtrazik o con la splendida voce di Raphael degli Eazy Skankers che impreziosisce l’incedere reggae di ‘Anima ribelle’. Collaborazioni di un album nel quale gli Zero Plastica hanno voluto anche alcuni storici musicisti genovesi come Marco Fadda, RobiGabri, Bob Quadrelli, Sergio Limuti, Riaccardo Kalb e Bobby Soul protagonista in ‘Get-to-Groove’, omaggio al funky delle origini del genere; pezzo che presto diventerà un video realizzato sempre con la proficua complicità di Ancioe Produzioni dopo i precedenti ‘Mukawma’ e ‘Internationally know’. Un lavoro nel quale il rap, senza mai cadere in banalità autorefenziali, convive perfettamente con l’elettronica, i ritmi in levare di ‘Piccolo fiore’, la patchanka de ‘Il colore della terra’ o la liquida delicatezza di ‘Oceania’. Brani che confermano la maturità ed il talento di Nio e Lurè e di un progetto che dalla resistenza quotidiana trae l’ispirazione sociale e culturale per raccontare Genova e tutto ciò che le sta intorno, dal Mediterraneo all’altro lato dell’Oceano.
(pubblicato su www.cittadigenova.com)

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L’Eden elettronico dei Subsonica nel 105 Stadium di Genova

di Benedetto Marchese

Chi si aspettava un gruppo arrugginito dopo i quasi quattro anni di stop e “venduto alla commerciabilità” dopo lo strepitoso successo di vendite di Eden, si è dovuto ricredere anche stavolta. Nell’esibizione di sabato al 105 Stadium di Genova, terza tappa del nuovo tour promozionale, i Subsonica hanno confermato lo status di miglior band live che il nostro panorama musicale possa offrire, coniugando al successo di presenze, sold out sfiorato e bagarini all’esterno, una carica se possibile superiore alle aspettative. Venticinque brani condensati in due ore di un live tiratissimo, dall’apertura con Prodotto interno lurido, alla chiusura affidata a l’Odore, secondo bis eseguito con le luci del palazzetto già accese. In mezzo un’ampia selezione di un repertorio che dopo quindici anni inizia ad essere sempre più consistente e nel quale le scelte sui brani da escludere si fanno via via più complicate, vedi l’assenza di classici come Strade, Sole silenzioso o Discolabirinto, e la riscoperta di pezzi storici come Depre, la travolgente Non identificato e la suadente Nicotina groove. Il risultato è un set energico e con rarissime pause per i quasi cinquemila che non smettono mai di ballare, fra influenze dubstep e arrangiamenti drum and bass, riuscitissimi Sul sole Il diluvio, nei quali spiccano il lavoro di Ninja sulla batteria ed un sound sempre più internazionale rispetto ad una scena spesso troppo lenta nel recepire ciò che accade al di fuori dei nostri confini. Ritmi ottimamente assorbiti da un pubblico sempre più trasversale nel quale i giovani dell’esordio discografico “Subsonica” saltano fianco a fianco con quelli di “Eden”. Sul brano che dà il titolo all’ultimo lavoro, come in Liberi Tutti, Colpo di pistola, Nuvole rapide e Tutti i miei sbagli, colonne portanti di una scaletta nella quale si integrano perfettamente Istrice, La funzione e l’ottima Serpente. Il merito è anche dell’impianto scenografico che accompagna quello sonoro, con lo spettacolo di luci e led luminosi che costituiscono il valore aggiunto all’entusiasmo ed alla carica adrenalinica della band, la cui attenzione per le tematiche sociali esce anche dagli argomenti trattati nei testi e si concretizza nell’appello di Max Casacci su temi attualissimi come il nucleare e la privatizzazione dell’acqua. “L’Eden da salvaguardare per le generazioni future” sottolinea il chitarrista e leader della band che da lì a poco riaccende il party dei terrestri con Il centro della fiamma, prima del gran finale che azzera forze ed energie, mentre sorrisi e volti entusiasti raccontano meglio di ogni parola il successo della serata. “Anche stavolta siete riusciti a farci sentire a casa” sottolinea Samuel dal palco e la risposta più significativa arriva in un secondo dalle migliaia di mani alzate al cielo a testimoniare un’empatia che il tempo non ha minimamente scalfito.

(pubblicato su www.cittadigenova.com)

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Da Kingston a Genova, la voce di Horace Andy affascina il Crazy Bull

di Benedetto Marchese

Sono quasi le tre del mattino quando Horace Andy con il sorriso sul volto ed il passo lentissimo lascia il palco del Crazy Bull sulle note di Leave Rasta. Il pubblico del locale di Sampierdarena chiede ancora un po’ di reggae e gli ultimi passaggi in falsetto di una delle voci più belle mai uscite dalla Giamaica. Ma “Sleepy”, classe 1951, saluta e se va dopo aver lasciato una testimonianza emozionante del suo passaggio in una città che si sta riscoprendo sempre più legata al genere, con il secondo concerto in pochi giorni dopo quello di Junior Kelly. Il presente ed un pezzo di storia della musica che partendo da Kingston ha conquistato l’Europa, anche grazie ai successi di Horace Hinds, che negli anni Settanta hanno segnato il periodo ska inglese ed una ventina d’anni più tardi sono stati riscoperti dai Massive Attack. La carriera di Horace Andy abbraccia infatti quasi quarant’anni di musica reggae, riassunti in quasi due ore di concerto nella serata del Crazy Bull aperta dagli ottimi Skankin Time e promossa con la passione di sempre dall’associazione Radicicaballanu. Accompagnato dai Dub Asante ed avvolto in uno sgargiante completo che richiama la sua fede rastafariana, l’arzillo Horace spara subito i pezzi da novanta di una carriera sterminata: Spying Glass, Man next door, Fever e Don’t let problems get you down, che scatenano l’entusiasmo di un pubblico affascinato dal carisma di una delle leggende viventi del reggae. Una voce unica e dal timbro inconfondibile che si esalta su classici come Money Money, Every tongue shall tell, Cus cus ed il capolavoro Skylarking che segue Rasta no style rasta no fashion, brano che rivendica la spiritualità di un movimento spesso visto con troppa superficialità. L’accompagnamento dei Dub Asante è perfetto, passa dal roots al dub accennando rocksteady e perfino jungle testimoniando in questo caso la profonda influenza del reggae anche sul genere elettronico. Quelle contaminazioni che i Massive Attack hanno riscoperto negli anni Novanta riportando alla ribalta il cantante in brani come “Hymn of the big wheel”, che lui dedica a tutti i fans del collettivo di Bristol e soprattutto della splendida Angel, della quale invece rivendica la paternità eseguendola nella versione originale. Il lunghissimo finale come detto è affidato a Leave Rasta, con il carismatico Horace che socchiude gli occhi, accenna un sorriso e saluta Genova ed un pubblico che si è portato a casa una serata da ricordare.

(pubblicato su www.cittadigenova.com)

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Ivan, la Tessera e le colpe di chi non vuole responsabilità

di Benedetto Marchese (pubblicato su Cittadigenova.com il 14/10/2010)

Maroni contro Vincenzi, Abete contro Blatter, Governo italiano contro quello serbo. A due giorni dai fatti di Marassi il confronto dialettico sembra non avere fine, fra reciproche accuse di “scarsa comunicazione” e “leggerezza” nella gestione del caso. Niente di nuovo in casi come questi, nei quali molti hanno responsabilità ma nessuno sembra in grado di prendersi colpe per quanto accaduto. Il tutto di fronte ad una città che ancora una volta ha vissuto sulla propria pelle ore di tensione e violenza, ed è nuovamente costretta a fare i conti con danni economici inattesi. Al bilancio dei danneggiamenti, dei feriti e degli arrestati, alla frettolosa corsa a rilasciare dichiarazioni di sdegno e condanna, o più semplicemente al rimbalzo di responsabilità da una parte all’altra, va inoltre aggiunto anche il comprensibilissimo disappunto di chi è arrivato da ogni parte d’Italia per assistere a sei minuti di calcio e due ore di surreale immobilismo organizzativo mentre i bengala volavano sul prato del Ferraris e delegati Uefa e Figc s’interrogavano sul da farsi.
Le assurde immagini del “terribile” Ivan e della sua milizia ultranazionalista hanno fatto il giro del Mondo, suscitando imbarazzo, sorpresa ma anche molte perplessità sulla gestione di una giornata che ha visto gli hooligans serbi agire indisturbati ma “controllati a vista” per le strade di Genova, prima che la situazione degenerasse nel piazzale di Marassi a notte fonda. In molti, frequentatori più o meno assidui di stadi e curve, si sono chiesti come abbiano fatto i teppisti ad entrare all’interno del Ferraris con un numero spropositato di bengala e fumogeni comprati anche in città; ad attraversare tutto il Nord Italia da un capo all’altro viaggiando con pullman carichi di bombe carta e torce sequestrate solo quando il peggio era ormai stato compiuto. Interrogativi più che leciti per chi da qualche anno a questa parte è costretto a fare i conti con trasferte contrassegnate da perquisizioni accuratissime in caselli e parcheggi periferici; a metter in preventivo di dover lasciare nello scatolone di turno accendini, portachiavi o tappini di plastica perché “atti ad offendere”; ultras o semplicemente tifosi abituati a fare i conti con biglietti nominali, movimenti limitatissimi e scorte severe ogni volta che si recano in una città che non è la loro. Abitudini che martedì sono incredibilmente venute meno per una delle frange più violente ed estreme del calcio internazionale.
Sia nel dopo partita che nelle dichiarazioni di questi giorni ha fatto un certo effetto sentir parlare di “violenza inaudita e inattesa” o “mancata intelligence” con la Polizia serba in merito all’arrivo di 3-400 personaggi abituati a ben altre efferatezze rispetto a quelle di due giorni fa. Era sufficiente vedere quanto accaduto nei giorni scorsi per le strade di Belgrado durante il Gay Pride, o ancora più semplicemente dedicare pochi minuti alla visione di video di Stella e Partizan su Youtube, per capire che i palestratissimi e tatuati serbi in tuta e scarpe da ginnastica non sarebbero arrivati a Genova per godersi l’insolito tepore di ottobre attorno alla fontana di De Ferrari. Lì, hanno invece potuto muoversi liberamente fra bottiglie di birra e scritte farneticanti, improvvisando il corteo che li ha portati fino allo stadio fra intemperanze e molta, troppa agilità di movimento. Quando poco dopo le 19.00 un gruppo è passato da Brignole, in molti avevano tubi di ferro e spranghe, bottiglie e torce da lanciare verso i passanti con un esiguo contingente di forze dell’ordine al seguito. Mentre al loro arrivo allo stadio hanno potuto confondersi liberamente in mezzo al pubblico di casa. Per parecchi minuti bar e biglietterie si sono riempite di serbi, molti dei quali nell’inadeguatezza delle indicazioni a loro destinate, si sono ritrovati ai tornelli della Sud, con tutto il tempo di nascondere nelle scarpe o nei pantaloni oggetti di ogni tipo prima di dirigersi verso il proprio settore.
Parlare di “stupore” o “sorpresa” per l’arrivo in città di un gruppo di persone già segnalate in una black list, in viaggio dal giorno prima e soprattutto in larga parte già in possesso, si presume, di un biglietto nominale, sembra quantomeno sorprendente per un Ministero che sta facendo della lotta alla violenza negli stadi uno dei suoi cavalli di battaglia, con decreti e provvedimenti restrittivi sia in termini di prevenzione che di gestione che prima, durante e dopo Italia-Serbia sono sembrati inefficaci. Come ampiamente prevedibile, è stata sottolineata l’importanza della tessera del tifoso che “avrebbe impedito” allo scatenato, e ora apparentemente pentito Bogdanov e alla sua banda, di conquistarsi così facilmente l’ambita vetrina internazionale per lanciare il proprio messaggio politico e propagandistico.
Al di là delle frasi di circostanza però resta indubbio che solo il divieto di assistere alla partita al gruppo in questione avrebbe evitato certi comportamenti che gli hooligans serbi avrebbero comunque compiuto anche se in possesso della famigerata tessera dato che si trovavano tutti contenuti nel settore ospiti, dotati di biglietto nominale regolarmente acquistato e sicuramente già schedati nel loro paese.
L’unica certezza alla luce di quanto accaduto, è stata l’iniziale sottovalutazione di un problema che poteva e doveva essere risolto ben prima della sospensione della partita o della guerriglia urbana nella notte di Marassi con la Polizia costretta al corpo a corpo con gli inesauribili energumeni serbi. Con un po’ più di attenzione da parte di chi mette in campo zelo ed intransigenza solo a fatto avvenuto, forse Genova avrebbe potuto godere di una meritatissima serata di calcio senza diventare involontaria protagonista dei giochi di potere e politica di chi a Belgrado non ne vuole sapere di entrare nell’Unione Europea.

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Don Gallo, i Subsonica e le strade che portano al Palacep

di Benedetto Marchese

Le strade di Genova, quelle buie degli ultimi e degli emarginati, ma anche quelle tortuose di un’Italia raccontata in tutte le sue contraddizioni in quasi quindici anni di carriera. Don Gallo e i Subsonica, il prete che va in direzione ostinata e contraria e il gruppo che ha portato la propria musica in ogni angolo della Penisola, e che la prossima settimana toccherà anche lo Sziget Festival di Budapest. Due realtà solo apparentemente distanti, riunite mercoledì dalla strada che porta al Cep, le cui curve sono state drizzate negli anni dall’impegno degli abitanti che hanno creato una comunità forte, attiva, in grado di dare vita ad un luogo come il Palacep nel quale Genova ed i Subsonica hanno reso il dovuto omaggio ad una realtà altrettanto importante. Quarant’anni di attività, quelli della Comunità di San Benedetto, festeggiati da una delle band più vive della musica italiana, sempre attenta e puntuale nell’analizzare le dinamiche e le evoluzioni della nostra società. “Si parla tanto di legge, ordine e presidi militarizzati –ha spiegato il leader e chitarrista Max Casacci dal palco- ma non c’è risposta migliore della socialità, dell’attività notturna e della vita. Invitiamo il sindaco di Genova a fare qualcosa di più sugli orari e sulla qualità degli spazi per rendere viva la città e non lasciare che la notte sia ostaggio dell’illegalità”. Un’idea di spazio attivo d’interazione simboleggiato dalla folla che ha raggiunto la struttura nella quale negli ultimi mesi si sono succedute numerose attività musicali e culturali, che hanno contribuito a far dimenticare l’etichetta del Cep come quartiere difficile, associando invece il suo nome a serate come quella vissuta solo pochi giorni fa. “Qui –ha spiegato Carlo Besana, instancabile promotore delle attività del luogo- abbiamo festeggiato i cinquant’anni di sacerdozio di Don Gallo, mentre stasera celebriamo l’attività della Comunità da lui fondata. Inoltre ho il privilegio di nominarlo socio onorario del consorzio Sportivo Pianacci”. Lui, il prete che invita a fare l’amore con il preservativo, ha risposto con il consueto entusiasmo, sventolando la bandiera della Pace e invitando i giovani arrivati da tutta l’Italia “a tirare su la testa”, a gridare “viva la libertà”, sorprendendo con la sua vitalità coloro che non avevano mai avuto il piacere d’incontrarlo e regalando l’ennesimo motivo di orgoglio ai tanti che da anni lo seguono nelle sue battaglie tenaci ma pacifiche verso l’uguaglianza ed il rispetto per i diritti. Dai volontari della Comunità agli attivisti dei Centri Sociali, fino agli Zero Plastica e gli Assalti Frontali che hanno aperto la lunga serata. Poi la festa più adrenalinica, quella con Strade, Disco Labirinto, Tutti i miei sbagli, Nuvole Rapide e tutti i classici dei Subsonica che Samuel e compagni hanno riproposto dal vivo ad un anno dall’ultimo live, con l’aggiunta dell’inedito ed ironico “Benzina Ogoshi”. Ingredienti di una notte magica lassù al Cep, dove le strade e le persone s’incontrano regalando grandi emozioni.

(Pubblicato su Cittadigenova l’8 agosto 2010)

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Al Blue Moon trionfo reggae con David Rodigan e Eazy Skankers

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadigenova.com il 16/01/10)

Big night doveva essere e grande notte è stata ieri al Blue Moon di Marassi per il primo appuntamento del 2010 firmato da Raidicaballanu. L’associazione, che sta già lavorando alla prossima edizione della Festa del Sole, ha trovato nel locale una validissima base per eventi saldamente legati alla musica reggae come ha dimostrato la prima di ieri con Eazy Skankers e David Rodigan. Una lunga e caldissima notte in levare iniziata con la presentazione dell’ottimo libro di Andrea Bolla “Uno sporco reggae”, noir edito da Statale 11 profondamente influenzato dalle sonorità giamaicane che poco dopo sono state tradotte in musica. L’affiatato gruppo savonese, che ha al suo attivo collaborazioni con artisti del calibro di Michael Rose e Lutan Fyah ed ha ricordato le vittime di Haiti, si è distinto con un set roots molto inteso nel quale hanno brillato l’ottima “Don’t let dem cry” e la perla “To the foundation”, prima dell’intermezzo a cura di Cuffa Sound che ha introdotto l’ospite d’onore della serata. Non è un dj come tutti gli altri David Rodigan, non solo per i trent’anni di carriera che ha alle spalle, ma anche per come riesce a trascinare i suoi spettatori in un viaggio sonoro che si snoda attraverso vinili e cd spesso introvabili o stampati appositamente per lui. Una conoscenza musicale di cui ha dato subito prova, aprendo il suo set con una cover di “Giamaica”, brano di Giorgio Consolini targato 1958. Accompagnato dalle luci degli accendini e dal travolgente entusiasmo del numerosissimo pubblico che ha riempito il Blue Moon, il distinto inglese di mezza età ha proseguito il suo show con l’inconfondibile voce di Alborosie che infiammato una dance hall che per oltre due ore ha continuato a ballare con i dubplates di un Rodigan in gran forma. Ecco allora Shaggy, Bounty Killer, Boom da Bash, il classico “Operazione sole” di Peppino di Capri e la versione di “Messico e nuvole” firmata da Giuliano Palma e Blubeaters e ancora Gioman e Killacat con “Musica”, fino al breve blackout che ha concesso qualche secondo di tregua alle gambe di un pubblico provato ma entusiasta . Non ne ha avuto bisogno il dj, con tshirt griffata Festa del Sole ed una copia di “Uno sporco reggae” sulla consolle, che poco dopo intonando “Blue moon” ha ripreso ad incitare la sua gente, a saltare e a spingere ritmi storici come “Police in helicopter”, altri brani di Alborosie, la versione personalizzata dell’inno salentino “Radici ca tieni” dei Sud Sound System ed una carrellata di super classici che hanno messo a dura prova la tenuta dello scintillante locale di Marassi. Pezzi leggendari come “Israelites”, “My boy lollipop”, “Carry go bring come” hanno anticipato una lunga dedica a Robert Nesta Marley e imprevedibili chicche come “La società dei magnaccioni” di cui Rodigan ha mostrato con sorridente orgoglio il 45 giri e ancora “Volare” e “O sole mio”. Il finale, poco prima dell’alba, è stato affidato a Marley con “Stir it up”, bis acclamato da un Blue Moon che ha decretato con il suo entusiasmo il trionfo di questo primo e fortunatamente non ultimo appuntamento con il reggae a Genova.

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“G8anni dopo”, i fatti di Genova al Rototom Sunsplash

Ho avuto modo di conoscere Beppe Cremagnani proprio in questa occasione, solo tre giorni prima della sua morte improvvisa. In quel pomeriggio, al fianco di persone Vere e di fronte ad un pubblico Vero ha parlato da giornalista libero quale è sempre stato. Un’autentica lezione non solo per me ma per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo nel suo ultimo evento pubblico.

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di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadigenova.com il 4/7/2009, foto Luca Sgamellotti per Rototom Sunsplash)

Otto anni dopo il G8 di Genova è ancora un tema di stretta attualità, continua a riempire le pagine dei quotidiani e rendere ancora più nitidi i ricordi di una città ferita dalle violenze e dai molti silenzi che ne hanno caratterizzato i fatti principali. Dal 2001 ad oggi si sono susseguite pubblicazioni e dibattiti che hanno ricostruito più o meno dettagliatamente quei giorni attraverso le parole dei protagonisti diretti; un esercizio di memoria storica che ieri ha aperto la serie degli incontri nell’area No-Profit del Rototom Sunsplash di Osoppo, con il dibattito “G8anni dopo”. Luogo ideale, per tranquillità e interesse alle tematiche sociali del suo pubblico, per ricostruire e ricordare quei giorni attraverso le parole di Giuliano Giuliani, Beppe Cremagnani, Franco Corleone e Furio Colombo. Un lungo pomeriggio arrivato a pochi giorni del G8 dell’Aquila ed iniziato con la proiezione del film realizzato da Cremagnani ed Enrico Deaglio: “G8 2001, come fare un golpe e farla franca”, documento che ricostruisce gli eventi di quel luglio grazie alle testimonianze fra gli altri dell’ex ministro Scajola, il giornalista Mark Covell e l’ex sindaco Pericu. Immagini durissime, e parole sulle quali riflettere, amare come quelle pronunciate nel successivo dibattito. “Per molti – ha iniziato Cremagnani- quello di Genova è un tema sorpassato, ma per quanto mi riguarda continua a vivere nella nostra quotidianità. I fatti del 2001 hanno segnato l’inizio della crisi cittadino-autorità e la tesi del film è proprio quella che tutto quello che avvenne non fu casuale. Credo che la richiesta fatta dai Pm nei confronti di De Gennaro e Mortola rappresenti un fatto nuovo, per la prima volta si toccano i vertici della Polizia. Tutto il mondo ci chiede ancora conto di quei giorni nei quali poteva verificarsi il più grande raduno pacifista, ancora più numeroso e sentito rispetto a quello di Seattle. Deve far riflettere –ha concluso Cremagnani- come tutti i protagonisti delle vicende più discusse siano stati promossi. Se stiamo ancora parlando di quei giorni è perchè ci sono migliaia di testimonianze foto e video, altrimenti la verità ufficiale sarebbe stata diversa”. Un intervento tanto amaro quanto lucido, supportato dalle sequenze del film e dagli interventi degli altri ospiti che per oltre due ore hanno catalizzato l’attenzione dei giovani interlocutori nella platea.
“Ricordando Genova -ha aggiunto Franco Corleone, ex deputato europeo e da sempre legato ai temi della giustizia e dei diritti – non va dimenticato quanto avvenne a Bolzaneto, carcere improvvisato nel quale anche le donne subirono violenze. In tema di carceri vorrei sottolineare quanto sia critica la situazione nel nostro paese con oltre 63 mila detenuti. Un contesto caldissimo che potrebbe esplodere da un momento all’altro soprattutto in questi mesi estivi, non mi stupirei se ci fossero rivolte”. Non ha potuto essere presente nell’affascinante scenario del Parco del Rivellino, ma ha comunque tenuto ad esserci in diretta telefonica Furio Colombo, direttore dell’Unità durante il G8. “Quello di Genova e del 2001 -ha detto- fu il primo episodio di una lunga serie di violazioni dei diritti, doveva essere ed è stato un evento drammatico. Ma quella potrebbe non essere stata un’eccezione, l’Italia si è incattivita, il pacchetto sicurezza appena varato contiene norme denigratorie nei confronti degli stranieri; allo stesso modo i respingimenti al largo delle nostre coste rappresentano un’offesa alla nostra dignità. Per quanto mi riguarda però un altro mondo è possibile e lo dimostra l’elezione di Barak Obama, la sua storia dev’essere un punto di partenza per tutti”. Un mondo diverso, come quello ipotizzato da Giuliano Giuliani nel suo duro e sentito intervento; un mondo che nella Genova del 2001 si manifestò nella sua veste peggiore e che ieri ha riempito i dubbi ed i pensieri di un festival che ha dimostrato di essere sempre legato saldamente non solo alla musica ma anche alle tematiche sociali.

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Rototom Sunsplash/ Intervista a Giuliano Giuliani

Luca Sgamellotti per Rototom Sunsplash

di Benedetto Marchese

(pubblicata si Cittadigenova il 04/07/2009)

A centinaia di chilometri dalla sua Genova, a otto anni dal tragico luglio del 2001, ieri Giuliano Giuliani ha incontrato il pubblico del Rototom Sunsplash raccontando il suo punto di vista sulla vicenda, quello di cittadino e di padre, ma soprattutto di uomo ancora alla ricerca della verità. A margine dell’incontro ha deciso con molta disponibilità di ampliare con Cittadigenova i temi trattati nel seguitissimo dibattito.

Sono già trascorsi otto anni da quel luglio 2001, la città di Genova come ha vissuto questo lasso di tempo nel quale si sono susseguiti dibattiti, ricordi e processi?
È normale che una città ferita abbia anche la tendenza e la tentazione di andare oltre, di guardare avanti dimenticando. Però questa cosa effettivamente non è successa, certo non c’è l’attenzione del primo o del secondo anno, questa inevitabilmente tende a ridursi. Mi pare però ci sia la voglia di trovare finalmente una visione di verità, nonostante l’assassinio di Carlo sia stato archiviato, gli altri processi hanno fatto emergere altri particolari drammatici, da una parte quello dei manifestanti e dall’altra poliziotti e forze dell’ordine. Hanno avuto degli esiti anche in qualche modo contraddittori. Secondo me quello che fino ad oggi non è uscito è il principio di responsabilità, quello che doveva stabilire le colpe di chi era in alto prima che in basso. La responsabilità maggiore è sempre in alto. Il dramma che cresce interiormente questo clima di impunità o meglio di impunibilità.

In questo senso il comitato “Piazza Carlo Giuliani” ha il compito di tenere viva e vigile l’attenzione su quei giorni.
Stiamo lavorando all’inaugurazione della sede che avverrà nei prossimi giorni. Il comitato ha come finalità la ricerca della verità, vuole informare e cercare di fare luce sui fatti del G8, ma anche fare attività di solidarietà, dalle adozioni di bambini a distanza agli aiuti per la Palestina, ma anche donazioni alla comunità di Don Gallo.

Torna dopo tre anni qui al Rototom di Osoppo, un luogo sempre aperto alle tematiche sociali, che guarda ai giovani come risorsa e punto di partenza per il futuro
Questo luogo è meraviglioso, è difficile trovare così tanti giovani tutti insieme come in questa occasione. La stessa sensazione importante l’ho avuta durante il recente Gay Pride di Genova. La città ha aderito con entusiasmo perchè ha capito lo slogan di fondo: se non difendi i diritti dei più deboli poi vengono intaccati anche i tuoi. La gente ha capito ed era li a difesa di un diritto per salvaguardare anche i propri e questo ha un valore importantissimo. È un messaggio generale che dovremmo avere il coraggio di lanciare, anche dal punto di vista politico.

Se a Genova le aule dei tribunali continuano ad ospitare processi legati al G8, altrove ne sono in svolgimento altri che la riguardano molto vicino, altre famiglie come la sua cercano verità sulla morte dei propri giovani figli; mi riferisco al caso Aldrovandi e a quello Sandri.
Questo è l’effetto di tale clima di impunità, il fatto di Federico Aldrovandi è chiaro. All’inizio c’è stato troppo silenzio e la paura di tanta gente, solo una cittadina ha fornito la propria testimonianza squarciando il velo del silenzio. La responsabilità è evidente, è stato un omicidio. Il caso Sandri purtroppo è molto simile a quello di Carlo, si è parlato di spari in aria e deviazioni, sempre con lo stesso funzionario coinvolto. Torniamo al discorso del principio di responsabilità. Tutti gli anni mi chiamano a parlare nelle scuole di Genova, vedo molta attenzione da parte dei giovani e a loro ripeto sempre che forse quello di Carlo è stato un gesto di difesa della nostra libertà che valeva la pena di fare.

Foto: Luca Sgamellotti per Rototom Sunsplash

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