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Badia al Pino e Gabriele Sandri

Badia al Pino

(@dettobene)

Da quella domenica del 2007 ogni 11 novembre ripenso a quanti autogrill ho visto macinando chilometri in giro per l’Italia dietro allo Spezia. A quante volte avrei potuto ritrovarmi nella situazione di Gabriele Sandri durante un viaggio con gli amici di sempre, a cinquanta come a cinquecento chilometri da casa. Un pensiero fatto anche oggi, dopo aver visto diverse volte negli anni il punto da cui sparò Spaccarotella come il pezzetto di prato dove si trova il cippo dove continuano a fermarsi tutti gli ultras. Mi è tornata in mente anche la prima volta, di ritorno da Avellino quando si tornò a giocare quindici giorni dopo il fatto e Vi il quale notando sugli scaffali dell’autogrill il modellino della Volante lo girò, in modo che non si vedesse, dicendo alla commessa “no signora, non mi sembra proprio il caso, non qui”.

Riporto qui alcuni passaggi di un pezzo scritto nel 2008 ad un anno dal fatto. (Qui)

“Il sabato per il calcio e il giorno successivo per la famiglia, a tavola mentre in giro per l’Italia migliaia di altri ragazzi si apprestano a vivere le stesse emozioni da te provate ventiquattrore prima. Migliaia meno uno; uno dei tanti, la cui vita è appena finita in un’anonima area di sosta in Toscana. Badia Al Pino è solo il nome di un luogo; Gabriele Sandri l’identità di una persona con la quale inizialmente ti sembra di non aver nulla a che fare. Poi nelle ore successive ti accorgi che quel ragazzo non era solo un tuo coetaneo, ma come te amava la vita, la musica e gli amici, condivideva la tua stessa passione per la propria squadra del cuore; tanto da ritrovarsi a viaggiare da Roma a Milano per vederla dal vivo. Apprendendo i particolari della vicenda, la dinamica del fatto e la genesi di quel viaggio, ricordi quante volte ti sei ritrovato in piedi prestissimo ma sveglio e lucido come non ti sarebbe mai capitato in altre occasioni. Puntuale all’appuntamento con gli amici, quelli di sempre, con i quali negli anni condividi gioie e dolori, magari conosciuti proprio grazie all’amore comune per la tua squadra. In piena notte oppure all’alba, con buona pace di genitori apprensivi che ti vorrebbero a casa anziché in viaggio alla volta di città lontane. Almeno apparentemente tranquillizzati dalle consuete frasi di circostanza, anche se dentro di te speri che tutto possa andare bene come sempre successo fino a quel momento. Persuaso da una sicurezza apparente, pur sapendo che talvolta le cose non dipendono da te, che per quanto tu possa essere pacifico, “tranquillo” o comunque portato a farti i fatti tuoi, possa capitarti di ritrovarti in situazioni pericolose o non volute. Avendo un minimo di esperienza, sei perfettamente conscio che per quanto gli stadi siano “sicuri”, gli autogrill e le aree di sosta per forza di cose non possano esserlo. Pur essendo al corrente della cosa pensi che per una logica del tutto irrazionale certe situazioni spiacevoli debbano capitare ad altri e non a te; lo fai senza un motivo preciso, rimandando, nascondendo la consapevolezza del pericolo. Rimani della tua idea fino a quando non prendi coscienza della morte, fino a quando in quel luogo tanto insignificante quanto disgraziato ti ci trovi, pochi giorni dopo l’accaduto. Immediatamente comprendi di un colpo di pistola sparato da settanta metri di distanza; vieni assalito dallo sconforto. Lì, in quel luogo di morte, capisci quante volte quel ragazzo avresti potuto essere tu, in una qualsiasi giornata di campionato in giro per l’Italia, fermo in una qualunque area di sosta bramando un caffè ed un cornetto cercando di scacciare dalla testa l’idea del letto caldo abbandonato qualche ora prima; ma sempre con l’irrefrenabile voglia di stare vicino ai tuoi colori”. 

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In trasferta con Phil, aquilotto di Aldershot

Phil Franklin a Salerno (foto Benedetto Marchese)

(@dettobene)

Ai tornelli del Picco è ormai un volto noto ma in trasferta non passa certo inosservato agli occhi degli steward, non solo per la stazza imponente ma soprattutto per le generalità dei documenti che rivelano immediatamente l’insolita origine britannica di Mr. Philip Franklin, classe 1950 e per tutti Phil, ormai assiduo sostenitore degli aquilotti sia in casa che fuori. È accaduto anche ieri pomeriggio ai cancelli dell’Arechi di Salerno, dove i ragazzi che hanno controllato il suo biglietto non hanno perso occasione per chiedergli delle sue origini e della sua passione. “E’ colpa loro” ha replicato sorridendo ed indicando i compagni di viaggio con i quali ha intrapreso il viaggio di 1300 chilometri fra andata e ritorno. Seconda trasferta stagionale dopo quella di Bari all’esordio e le molte delle ultime quattro stagioni, fra le quali Latina, Pescara, Lanciano, Empoli e Cittadella, sul pullman con i ragazzi della Curva Ferrovia o in auto con gli amici.
Una storia la sua che si unisce alle tante nate nel tempo grazie allo Spezia (anche con altri tifosi inglesi come protagonisti) e sempre caratterizzate da una grande passione, per il calcio ma anche per tutte le sensazioni ed esperienze ben più importanti che riesce a sviluppare. “Sono venuto per la prima volta in Italia in viaggio di nozze – racconta a Cds – era il luglio del 1982, la vigilia della finale dei Mondiali e c’era un’atmosfera incredibile. Poi nove anni fa mia moglie mi ha detto “Voglio una casa in Italia, voglio abitare vicino a questo posto, mi piace il nome” ha indicato Fivizzano sulla mappa così siamo finiti poco distanti, vicino a Villafranca. Ha deciso tutto lei – aggiunge con ironia – ma alla fine c’ho guadagnato io visto che all’inizio potevamo venire solo per alcune settimane all’anno poi da quando sono andato in pensione da British Telecom ho potuto iniziare a trascorrere qui diversi mesi, mentre lei lavora in Inghilterra”.

Da Aldershot sua città natale dell’Hampshire fino alla Lunigiana e al Picco, sempre con il calcio come filo conduttore. “Per quarant’anni ho seguito la squadra locale che ora milita in Conference – racconta – poi quando mi sono trasferito al Nord sono stato abbonato per una decina di stagioni al Newcastle fino a che mi sono stufato perché l’atmosfera del calcio inglese era sempre più sterile, io quando guardo una partita allo stadio voglio stare in piedi e lì non è più possibile, solo a Leeds i tifosi continuano a farlo. Stando qui mi è tornata la voglia di andare allo stadio, conoscevo solo il Genoa poi ho scoperto dal giornale che c’era anche lo Spezia ma non sapendo come fare per i biglietti ho chiesto ad un anziano amico del Bar Nello di Vilallafranca che tifa il club. inizialmente non è riuscito ad aiutarmi poi il giorno dopo mi ha rassicurato: “c’è una persona che ti vuole parlare” ed è arrivato Vinci. Non lo conoscevo ma poco dopo ha detto “ok, tu puoi venire con noi” ed eccomi qui a Salerno – sottolinea ridendo – per colpa sua”.
Un paio di birre, qualche racconto con uno dei baluardi del tifo aquilotto in Lunigiana, ed ecco quattro stagioni di partite in viale Fieschi e in giro per l’Italia, di cui tre da abbonato, l’ultima delle quali iniziata da pochi giorni. “Ho visto la prima partita in Coppa Italia nell’agosto 2012, era Spezia-Sorrento (4-1 il finale). La prima cosa che ho pensato entrando in curva? Ho respirato la stessa atmosfera che c’era in Inghilterra trent’anni fa: qui è tutto completamente diverso, c’è un gran tifo e si può stare in piedi, un atteggiamento che mi piace, perfetto. La prima trasferta l’ho fatta a Castellamare di Stabia e poi tutte le altre. Devo dire grazie a Vincenzo – precisa – senza di lui non avrei mai visto lo Spezia e incontrato tanti nuovi amici che sono contentissimo di aver conosciuto, lui è molto generoso e come diciamo in Inghilterra “madder than a box of frogs”, più pazzo di una scatola di rane”. Il sorriso che segue è lo stesso che accompagna le ore spese al seguito dgli aquilotti, unito alla curiosità nel vedere luoghi e stadi sempre nuovi, con buona pace della moglie. “Ah lei è crazy più di me – sorride – un giorno è uscita per comprare un frigo ed è tornata con un’auto, per lei non c’è problema se vado in trasferta. A 65 anni cerco di vivere ogni giorno nel modo migliore – conclude – quando mi chiamano per una nuova avventura con lo Spezia rispondo sempre ‘si’, mi preparo e vado volentieri”. Livorno è dietro l’angolo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 20 settembre 2015)

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Buon viaggio Ramon

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(@dettobene)

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché”, una sensazione più che un’idea sensata, che accomuna tutti coloro che negli ultimi quarant’anni si sono ritrovati almeno una volta a seguire lo Spezia in trasferta o al Picco, a soffrire, gioire o a rischiare qualcosa insieme ad altri ragazzi magari sconosciuti o lontanissimi per età, ideologie ed estrazione sociale ma legati indissolubilmente dalla stessa passione. È stato così anche per Ramon Bertucci, uno dei pochi veri leader riconosciuti, stimati e rispettati da tutti, anche dai nemici, che questa tifoseria abbia espresso nel corso della sua storia sempre caratterizzata dalla presenza di un gruppo solido più che da singoli condottieri.
Lui è stato uno di questi a partire dai primi anni Ottanta e per lungo tempo, guida carismatica della curva e interprete di quello spirito ruvido e orgoglioso che ha sempre caratterizzato gli Ultras Spezia, fino a questa mattina quando il suo cuore tormentato da anni di malattia si è fermato per sempre consegnando la sua esistenza all’epica viscerale e un po’ scorbutica di questa squadra e della sua gente che oggi lo ricorda con emozione, dai più giovani cresciuti con i racconti delle sue imprese, ai suoi coetanei. Un gruppo di giovanissimi, tutti classe 1967, che all’epoca vennero definiti “Gli Ultras di Ramon” proprio per la fedeltà a quella figura che incuteva timore negli altri e sicurezza agli amici, imponente, duro ma sempre impeccabile. Insolitamente elegante nel suo completo bianco o nell’impermeabile chiaro mentre bomber e giacconi sgargianti erano il simbolo di quegli anni in cui i propri colori, soprattutto i vessilli, andavano difesi nel vero senso della parola ogni domenica, soprattutto in trasferta dove il coraggio veniva prima delle parole e la reputazione si costruiva con i fatti. Con i suoi ragazzi aveva tenuto alto il nome degli Ultras Spezia da Carrara a Lucca, da Reggio Emilia a Trieste e in ogni luogo che aveva visto scendere in campo gli aquilotti in campionati raramente entusiasmanti. E proprio loro, i suoi fedelissimi, gli sono stati sempre vicini in questi ultimi anni segnati da una malattia che lo ha reso indifeso e vulnerabile ma senza mai sopirne l’ardore in quello sguardo che brillava in ogni occasione in cui una torcia illuminava sciarpe o striscioni oppure quando la curva si riuniva per occasioni particolari, nel quarantennale degli Ultras Spezia del novembre scorso quando gli venne dedicato un applauso emozionante o solo poche settimane fa per la festa di Ceparana.
In una vita caratterizzata dall’amore per la maglia bianca, ha sempre avuto al suo fianco la moglie Teresa angelo custode e madre di sua figlia Jennifer, che ne aveva assorbito la forza e il carisma nei momenti più duri dedicandogli ogni istante con amorevole cura, portandolo al Picco, a San Siro o a Chiavari come nell’ultima occasione, tenendolo sempre a stretto contatto con la sua passione che aveva espresso anche al termine del viaggio in moto a Capo Nord, esibendo l’immancabile sciarpa degli Ultras dei quali aveva scritto pagine indelebili, conquistandosi anche una solida fama anche al di fuori della città e delle categorie viste con lo Spezia. Aveva infatti frequentato spesso anche la Curva Nord dell’Inter e la Gradinata Sud della Sampdoria, mentre l’anno scorso, nel periodo della malattia, gli ultras della Roma gli avevano dedicato uno striscione molto affettuoso incoraggiandolo a non mollare. Pensieri e preghiere che gli amici di sempre e tutti coloro che negli ultimi trent’anni hanno condiviso la sua stessa passione, hanno portato avanti con ostinazione fino a ieri senza mai perdere la speranza e il coraggio come lui aveva insegnato loro, sempre fedele a se stesso e al suo modo di essere. Gli stessi che in queste ore si stringono attorno alla sua famiglia.

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché – scrisse sul libro che racconta la storia del tifo spezzino – da lì passione, treni, a volte pullman e ancora treni, chilometri su chilometri in nome di quella maglia bianca che ti prendeva in maniera indescrivibile e riassumibile solo con: passione. Ed è così che la tua giovinezza cambia, tutto ti prende e modifica il tuo modo di essere, di vedere le cose e nel bene e nel male inizi a definirti ultras. Domenica dopo domenica – proseguì – anno dopo anno, le facce sempre quelle, pulite, sempre in simbiosi l’una con l’altra tanto da percepirne costantemente sensazioni e stati d’animo”. Una lunga riflessione sui valori del passato e quelli di un presente vissuto più in disparte nonostante una presenza mai banale sintetizzata nel finale: “In definitiva non so’ cosa mi abbia legato a tutto ciò, ma so’ quello che mi manca: “butta una biretta”, “ce l’hai un birillo?” e “A semo in pochi, andemo lo stesso”. Voci sempre presenti”.
Voci innamorate e sincere di un popolo che oggi piange un uomo leale e coraggioso.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 6 maggio 2015)

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Appunti su un viaggio a Terni

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@dettobene

il ‘socialismo reale’ di Ciccio; Ciccio che si allontana con un monopattino svanendo nel nulla come Kaiser Soze; la Multipla e il doppio cd dei Clash rimasto lì dall’ultima trasferta; i nuvoloni del perenne stato d’allerta; Luca, Pisa e il trekking alle Seychelles; le lasagne della mamma del Baldo; il Baldo cinico; i racconti di Cavallo; il giovane Diesel che dorme come me; il Diesel che ogni tanto scuote la testa; il telefono moribondo e il Panda insofferente; il Lappe a casa che tribola; la cioccolata alla nocciole; il budello verso lo stadio; ‘i just can’t get enough’ prima della partita; i tre gradini dove bisogna stare uno addosso all’altro; ilGianca&laSonia; Marco in forma e il fante in balaustra; 150 molesti; Ebagua Chichizola la traversa il gol annullato; un punto importante; ‘vi vogliamo così’; ‘tutto lo stadio: perugino pez…’ e tutto lo stadio dietro; tanta roba; saluti; ‘quelli sono spezzini’ ‘oh caselanteeee!!!’; panino metano pizza; Barberino; come Barberino?!!; nooooo; casello di Roncobilaccio; sgomento; il pareggio della Croazia; ‘piove, ormai ci siamo’; Santo Stefano; casa. Riavvolgi, riparti, avanti Aquilotti!.

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Buon viaggio Califfo

Funerale Califfo

(@dettobene)

Ci sarà tutta la Curva Ferrovia domattina alle 11 alla chiesa del Favaro per l’ultimo saluto a Marco Canalini, per tutti “Califfo” scomparso ieri sera all’età di 52 anni, la maggior parte dei quali trascorsi al seguito dello Spezia. “Cali'” solo poche settimane fa era tornato al Picco per l’ultima volta, per vivere ancora l’atmosfera di un luogo in cui nessuno ti chiede cosa fai e da dove vieni, un luogo in cui la passione comune diventa legame fraterno. Lui veniva dal Favaro, quartiere che ha dato tantissimo alla storia del tifo spezzino compreso il gruppo degli ‘Irriducibili’ la cui la chiave inglese al centro dello striscione identifica l’estrazione popolare e saldamente legata alle proprie origini. Con loro aveva girato l’Italia in auto o su pullman sgangherati e oggi proprio quei ‘fratelli’ acquisiti macinando chilometri o cantando al freddo sotto la pioggia in campi sperduti, lo piangono commossi ricordando la sua semplicità, quel fisico esile, la voce roca, il sorriso e la barba grigia sopra il volto scavato dalla vita. Ha visto crescere tutti gli ultras che negli ultimi trent’anni hanno alzato al cielo una sciarpa aquilotta e con poche parole e una presenza discreta ma costante gli ha insegnato ad amare la maglia più dei giocatori, dei risultati e delle mode. I più giovani lo chiamavano ‘nonno’ e lui non mancava di prenderli in giro con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto.
Fiero del suo quartiere e della sua tradizione di sinistra frequentava attivamente il Circolo Arci e la Skaletta ed era un membro aggiunto dei VisiBì che lo ospitavano spesso durante le loro esibizioni.
Da domani il suo nome andrà ad aggiungersi a quelli di Mirco, Ilaria, Mattia e tutti gli altri presenti nel murales all’ingresso della Curva Ferrovia, mentre il suo ricordo resterà nelle persone che lo hanno conosciuto sui gradoni del Picco o per le strade del Favaro. (08/10/14)

Se non ci fosse stato il carro funebre ad indicarne inequivocabilmente il motivo, il corteo di questa mattina al Favaro avrebbe potuto essere scambiato per uno dei tanti che in questi anni hanno accompagnato le partite più importanti o i momenti storici nella storia dello Spezia Calcio. La presenza del feretro di Marco Canalini detto ‘Califfo’ davanti a parenti, amici di una vita o semplici conoscenti ha invece riportato tutti all’atmosfera triste e disperata che accomuna questi momenti. Torce, sciarpe e bandiere hanno così accompagnato lo storico sostenitore aquilotto, scomparso lunedì pomeriggio, dal piazzale del circolo Arci fino alla vicina chiesa dove diverse generazioni di ultras della Curva Ferrovia si sono strette attorno ai suoi parenti per cercare di alleviare un dolore che ha però riguardato tutti, in particolare i compagni di tanti episodi vissuti in lungo e in largo per la Penisola al seguito della maglia bianca.Momenti spesso tragicomici, talvolta pericolosi, dei quali si ricordano anche i dettagli più insignificanti e che fanno parte di un bagaglio di esperienze personali condivisibili solo con chi ti sei ritrovato a fianco a San Siro come ad Acireale. Pezzi di vita nei quali il calcio assume un ruolo quasi marginale come alcuni dei suoi interpreti che in una mattinata come questa avrebbero potuto apprendere sfumature emozionali molto significative sul proprio mestiere, toccando con mano gli aspetti più genuini della passione e dell’amicizia. Valori che hanno accomunato i tantissimi presenti che hanno dedicato al loro “Cali” lacrime sincere, rompendo un silenzio rispettosissimo solo per scandire il suo nome che presto tornerà a girare l’Italia su un drappo con i colori di una vita. (09/10/14)

(pubblicati su Cittadellaspezia)

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Aquilotti alla Scala

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Poco distante da un Meazza deserto e delineato ormai solo dalle luci soffuse immerse nella nebbia, fra le maglie di Honda e Kakà di una bancarella spiccano colori inconfondibili e la scritta “Spezia Campione” con il tricolore dei Pompieri e l’aquilotto, incrocio speciale per due club con vite e fortune molto diverse. In un’atmosfera fredda e ovattata infatti uno dei tanti ambulanti ripiega con cura il materiale invenduto, comprese le classiche sciarpe celebrative rossobianconere e quelle dedicate esclusivamente agli aquilotti con tanto di logo riprodotto perfettamente. Queste ultime in futuro potranno tornare utili se lo Spezia tornerà ad affacciarsi “alla Scala del calcio” che per una sera lo ha visto protagonista. Un bianco che non passa inosservato, fra il materiale in vendita come sugli spalti di San Siro dove sei o settemila tifosi hanno appena scritto una delle pagine più belle della loro storia.
Appuntamento irrinunciabile capitato in un mercoledì di gennaio a un orario che ha costretto mezza città ad annullare impegni, abbassare le saracinesche dei negozi e saltare un giorno di scuola. “La pizzeria? Oggi ho chiuso, magari apro quando torniamo se c’è da festeggiare” confessa uno dei tanti supporters in un autogrill di Fidenza dove si parla solo spezzino. I pullman che arrivano e ripartono a ritmo continuo fanno tutti rotta su Milano su un’autostrada interamente colorata dai vessilli bianchi. Una striscia infinita di corriere, macchine e pulmini, nei quali si parla solo di quello che sta per accadere, si ripercorrono i viaggi di una vita al seguito di questo o quello Spezia, si rincorrono aneddoti e racconti come da tradizione.
Il primo applauso della lunghissima giornata scatta poco prima della barriera di Melegnano, quando con lo sguardo s’incrocia lo striscione appeso ad uno dei tanti cantieri a bordo strada. La scritta “Avanti aquile” trasmette il senso di un qualcosa di unico ed irripetibile, atteso da troppo tempo. Ansia che cresce scorgendo lo stadio fra i cantieri dell’Expo 2015 e avvicinandosi a quei cancelli che in questi anni hanno accolto tutte le tifoserie più importanti d’Europa.

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Da Luni a Riomaggiore c’è una provincia che si raduna sotto le iconiche torri a spirale e davanti ai tornelli che si aprono senza l’obbligo di esibire tessere o documenti. Smartphone, sorrisi e passi frenetici accompagnano verso quegli spalti sognati tante volte, prima di quell’ultimo gradino e l’attimo che toglie il fiato. Primo anello verde con vista su un passato fatto di Vico Equense e Sestri Levante, Pizzighettone e Vittoria ed un presente che si chiama Milan, Coppa Italia, partita vera. Fratelli di fede, famiglie, parenti acquisiti campionato dopo campionato, tutti presenti fianco a fianco con un pensiero per chi non c’è più o non può esserci. Nell’unico settore affollato di una cattedrale maestosa c’è una città intera con la sua indole e il suo passato portati con orgoglio in ogni stadio d’Italia. Esperienza tradotta in cori per trascinare all’impresa impossibile una squadra che cambiando volto ogni sei mesi non può avere lo spirito della sua gente e che di fronte ai vari Montolivo e Pazzini si presenta senza il suo bomber e priva di un capitano al quale sarebbe stato giusto concedere quest’ultima passerella.
Chi sta in campo prova comunque a battersi inseguendo il pallone che viaggia veloce e preciso, infilandosi una, due, tre volte alle spalle di Leali. Mentre dall’altra parte del mondo mezzo Giappone esulta per il gol di Honda, a Milano un popolo che non si è mai arreso si emoziona intonando “o bela speza”, rivivendo batoste e trionfi e godendosi ogni istante di una notte da ricordare per sempre.
Dagli eroi dell’Arena a quelli di una sconfitta indolore che diventa dolcissima quando Ferrari segna il gol del 3-1 a tempo scaduto. Alle spalle di Abbiati un blocco unico di corpi e volti si disunisce disordinatamente liberando un boato che ha un senso profondo e commovente solo in un perimetro geografico ben circoscritto e solo per quei settemila che piangono e si abbracciano, perché per quei tre minuti che restano hanno vinto la speciale partita e onorato il loro appuntamento con la storia. Una vicenda di calcio e passione che non sarà mai una “bella favola” ma resterà sempre un avvincente racconto di mare, fra burrasche ed approdi fantastici.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 16/01/14)

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Andiamo a San Siro

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(@dettobene)

Prenota un pulmino, il 9 gennaio andiamo a San Siro!”. Mentre mi volto a guardare la signora che mi passa a fianco parlando al cellulare per pianificare la trasferta, incrocio un bimbo che chiede al padre: “Ma allora giochiamo contro il Milan?”. Cammino in via dei Pioppi in mezzo alla gente che esce dallo stadio, fra i bambini delle giovanili che superano i cancelli soddisfatti e disordinati e la gente che già s’interroga su numeri, biglietti e formazioni. Si, adremo a Milano – o meglio, per ora ci andrà lo Spezia perché senza tessera non so se riuscirò ad entrare – e andremo a giocarci un ottavo di Coppa Italia a casa Berlusconi, partita secca. Quattro anni fa eravamo a Vico Equense e a gennaio saremo al Meazza maleducati e orgogliosi come sempre. Un premio per 107 anni di storia sempre sofferti e sudati in ogni partita, o forse un imprevisto in quel percorso fatto di culo, sfighe e, coraggio che è il calcio. Si perché in altri periodi un’occasione come quella di oggi l’avremmo buttata via malamente, magari al novantesimo dopo una partita tutta all’attacco. Invece no, l’essere arrivato in ritardo come al solito, ma un minuto prima del momento cruciale di Spezia-Pescara, mi ha permesso di guardare in faccia Ebagua come tutta la Ferrovia; osservarlo mentre caricava il tiro e buttava dentro l’1-0. Se non fosse stato il pomeriggio giusto quel pallone sarebbe finito chissà dove. Invece fuori ci sono andati due dei loro nel giro di cinque minuti. Ok, sei in vantaggio e in undici contro nove però la devi chiudere perché non si sa mai. Basta aspettare un pochino poi Sansovini firma il 2-0. Ecco, visto il suo momento se segna così anche lui allora è quasi fatta. Anzi, lo è perché per tutto il secondo tempo si parla solo di pullman, di amici da avveritire, delle espressioni di Galliani, di Borghese con Balotelli e di Ebagua che più s’incazza e più segna. Quando Rivas infila il 3-0 siamo già tutti in viaggio per San Siro, incolonnati in tangenziale, emozionati e molesti. Ci siamo tutti, siamo una marea e facciamo ‘O bela speza’ con gli altri che ci stanno a guardare e quelli in balaustra che si dannano per farsi sentire. Dopo aver visto tutta l’Italia, anche nei posti più infimi, siamo a Milano, San Siro, in una notte di gennaio che racconteremo per settimane. Ci penso mentre faccio lo stesso tragitto di ogni partita per tornare alla macchina, fra palazzi, logoro cemento militare e il verde del Colombaio. Non ho fretta, mi godo il momento, la gioia e i sorrisi di chi s’infila in macchina o sfreccia in scooter suonando il clacson. I miei occhi lucidi invece li nascondo alzando il colletto del giaccone e abbassando un po’ di più il cappello, fa anche freddo ma oggi è solo un dettaglio.

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Newcastle-Sunderland, noia e disagio nelle crepe del ‘modello inglese’

Newcastle-Sunderland, ragazzo arrestato

Ragazzo arrestato durante gli scontri

di Benedetto Marchese (@dettobene)

Un brizzolato e robusto uomo di mezza età in maglia bianconera che sferra un pugno sul naso di un cavallo della Polizia. Può essere sufficiente questa immagine per parlare di un ritorno degli hooligans nel calcio inglese?. Ai quotidiani e media britannici basta e avanza visto il grandissimo risalto dato nelle ultime ore a quanto è successo domenica all’esterno di St.James Park a Newcastle dove i padroni di casa sono stati sconfitti per 3-0 nel sentitissimo derby contro il Sunderland di Paolo Di Canio, vittorioso in trasferta dopo 13 anni.

Dopo il fischio finale dell’arbitro Webb infatti un gruppo di tifosi locali, prima una cinquantina e dopo almeno trecento, si è radunato sotto la tribuna per attendere l’uscita dallo stadio dei “Mackems”, al termine della partita più attesa contro gli odiati rivali biancorossi, nella città del Tyneside che avevo avuto il piacere di scoprire nella scorsa stagione 

Nel percorso da Gallowgate Road e nelle vie limitrofe fino alla stazione, ci sono stati momenti di tensione e tafferugli con la Polizia che in più di un’occasione ha dovuto caricare con i cavalli per disperdere la gente. Ieri attraverso un comunicato stampa il Newcastle United ha espresso “imbarazzo e sgomento” per quanto accaduto, annunciando la diffida a vita per i tifosi coinvolti. Ventisette in tutto (di cui cinque prima del match e otto durante i novanta minuti) quelli arrestati dalla Polizia che ha impiegato più di due ore per riportare ai treni gli ospiti, blindati da ogni lato e sorvegliati dall’alto da un elicottero che per tutto l’incontro ha sorvolato l’affascinante impianto completamente sold out con i suoi 52mila posti a sedere. 

Arrivo in stazione dei tifosi del Sunderland

L’arrivo in stazione dei tifosi del Sunderland

Lancio di fumogeni dal settore ospiti

La rivalità fra le due città è fra le più antiche e sentite d’Inghilterra ed in passato non sono mai mancate scazzottate ed incidenti, ma quanto visto due giorni fa ha colpito particolarmente un’opinione pubblica che negli anni si era convinta di aver risolto il problema della violenza negli stadi, accorgendosi però con il passare del tempo di aver solo affievolito e delocalizzato il fenomeno, spostandolo nei pub e nelle aree di servizio, lontano da impianti sempre più cari ed inaccessibili alle classi più popolari. Giovedì per il ritorno di Europa League contro il Benfica il club aveva puntato su prezzi molto bassi per riempire lo stadio (impresa riuscita senza problemi dato che i Magpies possono contare su una delle tifoserie più fedeli ed affezionate ai propri colori), mentre per la sfida contro i “Black Cats” è tornato alle cifre abituali, nel mio caso 43 sterline per un posto in prima fila nella Leazes Stand. I problemi di Newcastle sono arrivati all’indomani di quelli di Wembley dove i tifosi del Millwall hanno ridato lustro alla propria fama scontrandosi con la Polizia dopo una lite scoppiata fra le proprie fila (le ipotesi parlano di uno spintone dato ad una bambina o di un regolamento di conti fra famiglie della malavita), che ha portato a quattordici arresti più altri due fra i supporters del Wigan che ha poi passato il turno di FA Cup. Intervistato dal Guardian in proposito, il Ministro dello sport Hugh Robertson ha espresso il proprio disappunto per l’accaduto a pochi mesi dalle Olimpiadi di Londra, chiarendo però di non credere ad un possibile ritorno di quella violenza che caratterizzò il calcio inglese negli anni Ottanta. Come riporta il tabloid, nello scorso campionato gli arresti sono calati del 24%, “ma -ha sottolineato Robertson- quanto successo nel weekend ha dimostrato che non ci si può distrarre” e il riferimento riguarda soprattutto la partita fra Inghilterra ed Irlanda in calendario il prossimo 29 maggio. In realtà le problematiche non mancano anche perché la sicurezza ha costi altissimi e non sempre giustificabili alla luce di una crisi economica che non ha risparmiato la Gran Bretagna alle prese con tagli pesantissimi in tutti i settori. Inoltre in questo contesto sta cambiando anche la mentalità dei tifosi, stanchi di essere solo “clienti” dei club costretti a rimanere seduti e a contenere esultanze ed emozioni, divisi in diversi settori dai prezzi degli abbonamenti, pronti a sgolarsi nei pub prima e dopo la partita ma a lungo silenziosi dentro gli stadi. Nella serata del ritorno di Europa League, la maggior parte dei bianconeri è rimasta indifferente all’esultanza dei sostenitori portoghesi nel loro settore. Chi si è lamentato con gli steward per le provocazioni ha avuto come risposta solo qualche alzata di spalle. Contraddizioni di un ‘calcio moderno’ (a proposito, da seguire il gran lavoro dei ragazzi di Stand AMF) che comincia a mostrare alcune crepe, delle quali qualcuno approfitta: in alcune realtà sono nati veri e propri gruppi ‘ultras’ con striscioni ed organizzazione precisa, mentre sulle gradinate cominciano ad entrare torce e fumogeni, utilizzati al St.James in entrambe le occasioni (domenica uno è stato lanciato fra i tifosi locali ferendo un ragazzo disabile), dato che all’entrata non ci sono perquisizioni. Un cambio di mentalità che in modo lento ma graduale si sta facendo strada in un modello troppo rigido e statico. Una minoranza destinata a crescere e che, non necessariamente con la violenza, tenta di riprendersi il proprio calcio. 

Newcastle-Sunderland

Tifosi del Newcastle si radunano all’esterno dello stadio

Tifosi del Newcastle fronteggiano la polizia

Cori e insulti davanti alla Polizia

Avendo visto da molto vicino quanto accaduto al termine di Newcastle-Sunderland mi sono fatto però un’idea leggermente diversa rispetto a quella dei media britannici che hanno abusato della parola ‘hooligan’ enfatizzando quanto accaduto nel derby nel Nord e nella semifinale di coppa nazionale. Molte delle persone che hanno dato vita ai tafferugli però allo stadio non sono nemmeno entrate, hanno iniziato a bere nei pub ben prima del fischio d’inizio -fissato alle 12 proprio per evitare l’abuso di alcol- e si sono ritrovate davanti allo stadio alla fine. Nelle prime file del gruppo che ha fronteggiato la Polizia c’erano tantissimi bambini o ragazzi sotto i 15 anni. Giovanissimi delle ‘generazione JD’ con trainers e tuta d’ordinanza, cresciuti noiosamente fra smartphone e tv in una città che trent’anni fa aveva visto partire molti dei suoi figli in cerca di lavoro a Londra o nella vicina Edimburgo ed ora è nuovamente alle prese con problemi occupazionali. Ragazzini attirati più dalla voglia di farsi qualche risata e un po’ di casino che non dal desiderio di difendere i propri colori come facevano i loro padri. Vicino a loro casuals malinconicamente vestiti tutti allo stesso modo e con il medesimo taglio di capelli. Decine di replicanti di uno stile diventato moda collettiva con ampio sfoggio di marchi come Adidas, Stone Island, Fred Perry o North Face. Tutti mescolati a curiosi e tifosi con le magliette di Ben Arfa e compagni, pronti a correre da una parte all’altra della città per insultare i rivali e la Polizia.  

Prime cariche dei cavalli

Newcastle-Sunderland, polizia a cavallo

Cavalli circondati dalla folla

Newcastle-Sunderland

Alle spalle del gruppo

Una massa variegata e disordinata, senza leader, molto diversa da quella che ci si potrebbe aspettare in Italia in una situazione analoga. Campione di una società che soffre gli effetti della crisi e di una sottile repressione quotidiana che inizia a creare disagio. Un’inquietudine che la Polizia sembra voler studiare proprio confrontandosi direttamente in occasioni come quella di domenica, con i tifosi lasciati fin troppo liberi di muoversi e controbattere, contenuti senza troppa fatica e mai entrati in contatto con gli ospiti. Un modo di agire completamente diverso da quello a cui siamo abituati, molto più permissivo nelle azioni -non ho visto una manganellata in tutto il pomeriggio- ma allo stesso tempo rigidissimo nelle reazioni come hanno dimostrato i 27 arresti, un numero visto raramente da noi in una sola giornata per simili fatti di piazza. 

Tifosi del Newcastle

Tutti si spostano per seguire il percorso degli ospiti nella strada parallela

 

I bambini seguono il gruppo

I bambini seguono il gruppo

Carica della polizia
Altra carica della Polizia

Una gestione dell’ordine pubblico da studiare e perfezionare nel calcio per poi essere applicata nelle strade che due anni fa furono teatro dei riots partiti dal Nord di Londra. Protagonisti gli stessi giovani dal futuro incerto, privi dell’adrenalina e degli stimoli che all’epoca della Thatcher contribuirono a creare una movimento molto influente in grado di dare vita ad una vera e propria sottocultura. Un’eredità sbiadita da una repressione che ha spremuto emotivamente ed economicamente i tifosi, spegnendo la passione lasciando solo noia e rabbia.

 

Newcastle-Sunderland

Altri lanci di bottiglie e sassi, incendiato un cassonetto

Newcastle-Sunderland

Un bambino osserva i tafferugli, ai suoi piedi un sasso lanciato poco prima

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Quartograd: un altro calcio è possibile

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Scudetto claret & blue, martelli incrociati e un pallone di cuoio. No, questo non è il West Ham e Londra è lontanissima ma a Quarto, sobborgo flegreo a nord-ovest di Napoli, il club della working class per antonomasia ha ispirato un gruppo di ragazzi che con pochi mezzi e tanta passione ha dato vita al progetto “Quartograd”. Una squadra dilettantistica iscritta al campionato di Terza Categoria, fondata su valori come l’aggregazione sociale e l’antirazzismo; un progetto in antitesi al ‘calcio moderno’ e ai suoi meccanismi legati al business e alla vittoria ad ogni costo. Bandiere No Tav, striscioni su Cucchi, Aldrovandi e Paolo Scaroni, o di sostegno alla Palestina, accompagnano ogni settimana i giocatori del Quartograd che domenica a Marano saranno attesi da un scontro al vertice contro la squadra locale.

Dopo aver scoperto questa bella realtà grazie al grandissimo lavoro dei ragazzi di Sportpeople, ho chiesto al presidente dell’associazione Giorgio Rollin di raccontare la storia di questo club che si batte per i veri ideali del calcio.

Nel desolante panorama italiano il ritorno ad un ‘calcio popolare’ rappresenta qualcosa di significativo, come nasce Quartograd e qual è l’origine del nome?

L’A.S.D. Quartograd, nasce ufficialmente il 26 di Giugno del 2012, ma le sue radici gettano le basi molto lontano. Era Gennaio del 2010 quando un gruppo di compagni appartenenti alla Sezione di Quarto (Na) del Partito dei C.A.R.C. acronimo di Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo, dava vita alla “I Edizione del Torneo Antifascista e Antirazzista di calcio a 8”. Doveva essere un gioco e un modo per racimolare un po’ di soldi per i compagni imputati in vari processi (Lotta al Fascismo, per aver partecipato alle lotte ambientaliste antidiscarica ecc). L’Antifascismo e l’antirazzismo era ed è ancora la discriminante fondamentale per prendere parte al Torneo, insieme al desiderio e alla voglia di allontanarsi da un calcio che oramai è sempre più marcio e lontano dalla gente comune, quella che la mattina si alza e va a lavorare e senza lavorare non può stare. In un Paese che va a rotoli è inconcepibile che quattro privilegiati prendano milioni di euro per correre e divertirsi dando calci ad un pallone, insomma oramai il tanto odiato calcio moderno non è nient’altro che un’industria di soldi, in cui si specula sulla popolarità di quello che è secondo noi uno degli sport più belli al mondo e sulla passione di centinaia di migliaia di persone.  Convinti che questo, come tutti gli sport di squadra, abbia un ruolo sociale e pedagogico fondamentale, nell’educazione di ogni individuo decidemmo di imbatterci in questa impresa. Alla I Edizione del Torneo parteciparono 8 squadre, per un totale di 150 ragazzi, che si fronteggiarono sui campi di via Learco Guerra (dove svolgiamo tutt’ora il Torneo), da quell’esperienza l’idea di riproporlo nel periodo estivo di quell’anno (iniziare a Maggio e finire ai primi di Agosto).

La II Edizione fu un vero e proprio successo, il numero di partecipanti raddoppiò mentre la partecipazione al Torneo divenne sempre più popolare variopinta e massiccia: la nostra cittadina incominciò a dividersi in fazioni che tifavano per una piuttosto che per l’altra squadra, una serie di giornali locali si interessarono al fenomeno facendoci un po’ di pubblicità. Nella III Edizione il Torneo Antifascista di Quarto diventava un vero e proprio campionato parallelo a quello della Serie A (iniziò a Gennaio e finì ad Agosto) 20 squadre tutti contro tutti in un unico Girone all’Italiana, 400 gli iscritti, centinaia i Tifosi; un programma settimanale, autoprodotto che intervistava i protagonisti della settimana e faceva vedere la sintesi delle partite, 50° Minuto, in ricordo del “nostalgico” 90°Minuto (perché a calciotto i tempi sono due da 25’Minuto); un collettivo di gestione diviso in diverse commissioni.

Un Account FB e un canale Youtube, pubblicizzavano la cosa sulla rete, avevamo raggiunto il nostro salto di qualità definitivo, da cosa ristretta ad un gruppo di compagni e amici, stavamo arrivando praticamente a tutto il territorio Flegreo, non vi erano più solo squadre di Quarto, ma praticamente da tutta la provincia di Napoli.

Da Quest’esperienza ci venne in mente di fondare una vera e propria squadra da iscrivere in un Campionato Ufficiale (FIGC III Categoria di Napoli), per iniziare a portare la nostra esperienza a contatto con altre realtà, in modo tale da poter “infettare” con il nostro progetto, quante più persone e contesti nuovi possibili.

Così, partendo dai giocatori che partecipavano al Torneo, organizzammo uno stage per selezionare la rosa della squadra; in 80 si sono presentanti allo stage e la scelta (presa da una commissione tecnica) è stata davvero difficile. A quel punto dovevamo solo scegliere il nome della nascente Associazione Sportiva Dilettantistica, altra scelta molto ardua e difficile, scegliemmo dopo diverse discussioni e anche qualche litigata il nome di Quartograd. Il riferimento è a ovviamente a Stalingrad, in quanto eravamo tutti d’accordo che “come a Stalingrado non passarono i Nazisti, sui campi in cui gioca il Quartograd non passeranno il Fascismo, il Razzismo e l’odio verso il diverso”, fu questa considerazione a mettere tutti d’accordo.

Il discorso può essere esteso alle gradinate: nelle categorie superiori tessere e divieti hanno contribuito a spegnere la passione dei tifosi, voi invece riuscite a portare gente allo stadio, soprattutto in trasferta e ad utilizzare gli striscioni come efficace mezzo di comunicazione. Quanto è importante all’interno del progetto il sostegno dei tifosi che vi seguono? 

Il Collettivo di Tifosi che segue il nostro progetto è importante quanto la squadra e il collettivo dirigenziale. Da subito abbiamo deciso d’impostare l’asd in modo tale che alle riunioni in cui decidiamo le linee di sviluppo del progetto, oltre ai compagni che partecipano al collettivo dirigenziale, prendono parte anche due componenti della squadra e un rappresentante della tifoseria; ciò va praticamente controtendenza rispetto a quanto siamo abituati a vedere oggi nelle altre società. Qui tutti sono fondamentali e possono dire la loro; squadra, tifosi e dirigenza sono tre collettivi che mensilmente si confrontano e dibattono su problematiche e difficoltà affrontate durante la settimana.

Il Quartograd è riuscito a coinvolgere in questo modo una cittadina intera; siamo in III Categoria e quindi rappresentiamo gli ultimi degli ultimi del calcio dilettantistico ma ogni domenica sui gradoni degli stadi in cui giochiamo (quando ci sono) vi sono almeno cento persone che assistono alle nostre partite: giovani, pensionati, disoccupati, casalinghe, mogli dei calciatori, madri, figli, tutti insieme a supportare con la loro presenza un progetto che sentono proprio.

Per anni il calcio è stato utilizzato da chi di dovere per mettere masse contro masse, per alimentare una guerra tra poveri; noi invece dimostriamo che è possibile rigettare al mittente ogni tentativo di dividerci e utilizzare anche il tifo in modo diverso. Lanciando appelli, sostenendo campagne (come quella per i numeri identificativi sulle fdo) o denunciando abusi (Caso Cucchi) oppure prendendo posizioni (Corteo Contro la Repressione di Teramo). I nostri nemici non sono certo i ragazzi che incontriamo sui campi in cui andiamo a giocare, loro al massimo sono delle vittime delle stesse contraddizioni che ogni giorno viviamo noi in questa società; i nostri nemici dichiarati sono piuttosto coloro che ci costringono ogni giorno a vivere in territori sempre più devastati da politiche antipopolari di devastazione e saccheggio, di abbrutimento morale, sociale ed economico, in cui regnano disoccupazione, mancanza di servizi e di diritti fondamentali (istruzione, sanità, mobilità, casa ecc). Il Quartograd ha dato un esempio concreto da questo punto di vista: le masse popolari autorganizzate possono tutto, anche senza proprietari, presidenti e padroni che le comandano. Dobbiamo essere un esempio per quanti oggi giorno non ne possono più, di pagare sulla propria pelle il prezzo di politiche scellerate di macelleria sociale attuate dai vari Governi, solo uniti, collettivizzando anche i problemi possiamo distruggere il nostro nemico. Hai bisogno di una casa? Organizzati in un comitato e occupala. Hai bisogno di un lavoro? Organizzati in liste dei disoccupati con altri e lotta per ottenerlo. Hai bisogno di spazi di aggregazione? Organizzati con altri giovani e occupa.

Quartograd rappresenta forse anche a livello europeo uno degli esempi più efficaci di contrasto al ‘calcio moderno’, tema molto attuale soprattutto in Inghilterra dove il processo di cambiamento del football è iniziato con largo anticipo. Secondo te cosa possono fare i tifosi per invertire questa tendenza per rimettere in primo piano gli aspetti più affascinanti di questo sport?

Penso ad una campagna reale, che potrebbe e dovrebbe partire a livello nazionale tra quanti realmente non ne possono più e vorrebbero ripartire da quelli che sono le radici di questo bellissimo sport, iniziando dai tifosi e dagli appassionati che in questi anni sono stati umiliati dagli scandali e dalla repressione.  Potrebbero ragionare su un vero e proprio boicottaggio del cosiddetto calcio che conta, quello in cui girano i soldi, bloccare l’economica mettendo un vero e proprio freno a tutto. Mi spiego meglio: Aumentano i biglietti e le norme di restrizione per l’acquisto ? Non andare piu’ allo stadio. La Pay Tv ? Boicottala, oppure invece di fare 50 abbonamenti, ne facciamo uno e guardiamo tutti la partita insieme. Se ami questo sport, non scommetterci su, ogni euro dato allo SNAI è una coltellata al pallone di cuoio. Hanno capito che sulla passione dei tifosi si può lucrare, e per tale motivo stanno cercando di spolparci fino in fondo. Cosa farebbero se improvvisamente si svuotassero gli stadi e si riducessero del 50% scommesse e abbonamenti alla PAY- TV?. Agli appassionati veri, dico: ricominciate dalle origini, dai campi di periferia, quelli di terra battuta, in cui fango e sudore si mischiano in uno strano tanfo e dove non esiste alcuna gloria se non quella di urlare goal.

Al di là dell’aspetto strettamente calcistico cosa chiedete a giocatori e staff tecnico e come finanziate il progetto?

Ai nostri ragazzi, chiediamo di tradurre in campo, i valori e gli ideali che ogni giorno noi portiamo nelle strade, nelle piazze e negli stadi. A loro infondo è affidato il compito più arduo e difficile, quello di competere, agonisticamente e dimostrare che “Un Altro Calcio è Possibile”. Il progetto si autofinanzia tramite, cene, feste e attraverso donazioni di singoli, piuttosto che attraverso una quota mensile di 20€ che versano i calciatori. Abbiamo fatto delle Tessere di Sostegno Economico al progetto, una sorta di abbonamento che però non serve ad accedere allo Stadio (l’ingresso è gratuito e aperto a tutti), ma finanziano il Quartograd.

Quartograd non è solo calcio ma anche impegno sociale e aggregazione. Un punto di riferimento per i giovani in un territorio in cui insidie e problemi non mancano. Quali sono state in questo senso le difficoltà incontrate fino ad ora?

Le difficoltà sono tante, da trovare strutture che ci ospitano senza speculare sul nostro modo “diverso” di fare sport, fino al far capire a tutti di dover contare solo ed esclusivamente sulle proprie forze per andare avanti. Intorno a noi ci c’è chi lavora e chi studia anche se molti purtroppo sono disoccupati. In questo contesto le contraddizioni sono molteplici, noi cerchiamo di trattarle con un unico spirito, cerchiamo di essere inclusivi anche facendo le scelte più difficili, condividendo le decisioni e cercando di stimolare sempre il dibattito e il confronto tra le parti. Le nostre vittorie sono l’aver creato il confronto fra ragazzi che prima di questo momento mai si sarebbero sognati di partecipare ad un’assemblea di autogestione, piuttosto che coinvolgere e stringere legami con altre realtà, una su tutti i ragazzi di Frattaminore che dopo aver giocato contro di noi e aver conosciuto la nostra esperienza, hanno deciso di portare avanti una mobilitazione popolare sul proprio territorio per farsi affidare il campo comunale. Lo spirito di gruppo è un’altra vittoria fondamentale, come l’aver portato in III Categoria ragazzi che si sono completamente allontanati dal mondo del calcio perché nauseati dal marcio che ci gira intorno o che al contrario hanno giocato in Campionati di Eccellenza, Promozione, Serie D o ancora nelle giovanili di squadre professionistiche.

Dopo pochi mesi di attività il campionato sta andando alla grande e il progetto funziona, quali sono i prossimi obiettivi e dove vogliono arrivare Quartograd e la sua gente?

Vogliamo crescere e iniziare a muoverci sulle nostre gambe. Vorremo iniziare a lavorare con i bambini, spiegare a loro quello che noi abbiamo imparato durante il nostro percorso di vita: m’immagino una Scuola Calcio Popolare, in cui a secondo della propria condizione sociale le famiglie pagano una retta d’iscrizione per sostenere il progetto. Allargarci anche ad altre discipline, iniziare a sviluppare un principio ad ampio raggio di Sport Popolare, e per Tutti, magari creare una Polisportiva, curare il corpo insomma ossia curare il proprio equilibrio psico-fisico. Avanti Quartograd!

Torneo antirazzista

Tifosi Quartograd

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Calcio e passione sulla strada per Marassi

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(@dettobene)

Il mio cuore batte altrove ma negli ultimi cinque anni seguendo Sampdoria e Genoa per il quotidiano Cittadigenova ho avuto modo di analizzare e capire abbastanza bene il profondo legame che c’è fra la gente e le due squadre cittadine. Genova resta una delle poche città in cui o si è rossoblu oppure blucerchiati e la percentuale di chi supporta altre squadre è davvero minima. Certo, quando arrivano Milan, Inter o Juventus c’è attesa, fibrillazione, ma niente è paragonabile al derby che “è come fossero Pasqua e Natale” come cantavano i Mau Mau qualche tempo fa. Dall’orgoglio dei doriani manifestato nella festa per la Champions come nell’amarissimo giorno della retrocessione, fino all’attaccamento dei genoani espresso nel giorno della partita contro il Siena o in tutto quello che in questi anni ha riguardato Claudio Spagnolo, da entrambi i lati ho sempre visto una passione vera e intensa, indipendente dai risultati delle squadre.

Prima i propri colori, poi tutto il resto. Un insegnamento che sotto la Lanterna passa di padre in figlio da generazioni come gli abbonamenti nelle due gradinate del Ferraris, fra le poche a non risentire del calo generale di presenze che ha riguardato negli ultimi  anni i nostri stadi. Al di là di quanto si vede in campo –nulla di entusiasmante da due stagioni a questa parte- da appassionato del tifo prima che del gioco ogni settimana mi godo il percorso da Brignole a Marassi mescolato ai sostenitori della squadra di casa. Dai bar e ristoranti in cui si consumano rapidi pasti prima del fischio d’inizio agli umori e alle speranze che accompagnano ultras e tifosi nel percorso verso lo stadio. Domenica prima di Genoa-Lazio mi ha colpito la determinazione del bimbo della foto, con sciarpa al collo e una bandiera con l’asta ben più alta di lui. In più di un’occasione il padre lo ha avvicinato per dargli una mano dato il forte vento –altra costante del calcio al Ferraris- ma lui non ne ha voluto sapere, tenendola con due mani, caparbiamente aperta sopra alla testa fino all’ingresso quando li ho persi di vista. Mi sarebbe piaciuto ritrovarli dopo la partita probabilmente ancora emozionati per la vittoria arrivata al quinto minuto di recupero, felici dopo pomeriggio intenso di calcio vissuto sugli spalti a cantare e soffrire per i propri colori.

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A Marassi per la Samp e contro il calcio moderno. La passione blucerchiata di un tifoso inglese

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Salvo poche eccezioni, e il derby di domenica fra Sampdoria e Genoa è una di queste, non si può certo dire che il fascino della nostra serie A sia lo stesso di qualche tempo fa quando abbondavano campioni e pubblico sugli spalti. Complici caro biglietti, tessere e leggi restrittive negli ultimi anni gli stadi hanno visto affievolirsi entusiasmo e presenze mentre le società hanno dovuto fare i conti con gestioni dai costi improponibili e la discesa in campo di magnati ed emiri che hanno cambiato le regole del mercato prendendosi i giocatori migliori. Non è un caso che molti tifosi ora preferiscano il comodo divano di casa per godersi lo spettacolo di Bundesliga, Liga o ancora meglio Premier League verso cui il pellegrinaggio di supporters italiani è ormai una costante settimanale specie a Londra. Pur con tutti i suoi problemi però la Serie A continua ad avere ammiratori Oltremanica, dove sono in continuo aumento coloro che compiono il percorso inverso per venire ad assistere dal vivo al nostro calcio, quello in cui si può stare ancora in piedi o fumare sulle gradinate, e dove i gruppi organizzati, nonostante tutto, provano a dare il proprio sostegno alle squadre. Dalla patria del calcio arriveranno a Genova degli appassionati anche per la stracittadina di domenica, mentre a fine settembre il blogger e tifoso del Brighton Steve Kirkwood ha raggiunto Marassi per Sampdoria-Torino. Un’esperienza raccontata con grande entusiasmo sulle pagine di “Stand Against modern football”, neonata fanzine che si schiera contro la deriva del ‘calcio moderno’ sempre più impostato a favore delle tv e con la gente in secondo piano. “Il 1992 è stato un anno fondamentale per il nostro calcio –racconta nel suo articolo ‘The Hovian’-perché Channel 4 iniziò a trasmettere le partite della Serie A”. Allora la Premier non era nemmeno paragonabile a quella attuale mentre il nostro campionato era ancora caratterizzato dalla presenza di grandi campioni: “La prima partita che vidi fu un 3-3 fra la Lazio e la Sampdoria di Vialli, Mancini e Lombardo che aveva appena vinto lo scudetto. Lo spettacolo in campo, un Marassi mozzafiato come sfondo e le meravigliose casacche della Sampdoria mi fecero innamorare di questo campionato, che ho seguito fino a quando è stato cancellato dalla tv in chiaro per fare spazio al business divano-tv-tifosi-soldi”. 

Lo stesso processo, iniziato da noi qualche hanno più tardi, che dato il via a quel tanto famoso “modello inglese” che si vorrebbe importare anche qui e che in Inghilterra ha stravolto le abitudini di generazioni di tifosi cresciuti sulle gradinate a tifare per la propria squadra. “Quest’hanno –prosegue- ho deciso di andare a vedere la Sampdoria contro il Torino, sbagliando solo ad acquistare il biglietto on line pagandolo 60 euro anziché 21 allo stadio. La partita mi ha riservato tutto quello che avevo sempre sperato: 22 mila persone urlanti, i Granata nel loro settore e ovviamente gli Ultras Tito Cucchiaroni nella Gradinata Sud. Torce, bandiere e qualche petardo hanno reso lo spettacolo memorabile. Ho potuto fumare stando in piedi nei distinti, con pochi steward in giro ed altri tifosi che hanno incitato la squadra per tutto il match o attaccato l’arbitro per alcuni episodi. Mi veniva la pelle d’oca ogni volta che si alzava un coro dalla Sud”.
Dal tifo blucerchiato all’agonismo in campo: “La sfida è stata incredibile –si legge ancora su Stand AMF, il cui terzo numero sarà disponibile a breve- in Premier ci sarebbero stati almeno quattro cartellini rossi, qui solo alcuni gialli. Maresca della Sampdoria è stato una vera rivelazione, è finita 1-1 ma è stata una delle partite più belle che abbia visto negli ultimi anni”. Per noi uno spettacolo non proprio entusiasmante ma ancora affascinante per chi è ormai abituato ad un calcio che obbliga la sua gente a stare seduta e composta al proprio posto.
“Finalmente ho coronato il mio sogno di vedere la Sampdoria –conclude quasi con emozione Steve- ed ho già prenotato per la partita di gennaio allo Juventus Stadium. Il calcio italiano è meno ricco e tecnico rispetto a com’era negli anni Novanta ma in confronto fare il tifo in Inghilterra è come guardare una partita di bocce”. Un motivo in più per godersi ogni sfumatura di un derby dal fascino impareggiabile nonostante tutto.

(pubblicato su Cittadigenova il 16 novembre 2012)

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Dieci anni per capire e conoscere un’emozione

di Benedetto Marchese

Una partita di Seconda Divisione, sei minuti di Nazionale e ancora Serie A e Premier League, tutto nel giro di pochi giorni. Diversi scenari ma stessa passione da assecondare, nata quasi per caso poco più di dieci anni fa in una Curva Ferrovia insolitamente colorata di azzurro nel play off contro il Rimini. Primi intensi contatti con quello che negli anni successivi sarebbe diventato il collante per innumerevoli esperienze di vita, amicizie, lavoro e la consapevolezza di guardare quel pallone, calciato da campioni milionari o brocchi squattrinati, sempre con occhio affascinato e rapito da tutto quello che sta intorno al rettangolo verde. Interesse nato in famiglia, con gli amici in piazza sognando di fare gol come questo o quel campione dalla maglia a strisce che nel corso degli anni si sono allargate, fino rimanere di un bianco denso di emozioni e significati. Curiosità cresciuta con i racconti di un fratello tifoso e le prime domeniche al Picco, sporadiche inizialmente e via via sempre più regolari, fino a diventare passione vera, in certi casi “malattia”, pensiero fisso con il quale far convivere tutti gli altri, più o meno importanti ma sempre dettati dall’incombenza della partita, la domenica o durante la settimana, notturna o pomeridiana che fosse. Dieci anni di vita spesso condizionati da orari ed umori, vittorie e sconfitte, comprensione di chi ha imparato a sopportare inspiegabile euforia o inconsolabile tristezza; ma anche complicità da parte delle tante persone incontrate sulla stessa strada, nello stesso girone dei dannati del calcio. Vicini di gradone, di pullman o di treno, perfetti sconosciuti divenuti amici speciali col passare del tempo, compagni di viaggi impossibili ed episodi irripetibili; sotto il sole di Crotone o la neve di Pizzighettone, nel diluvio di Bologna o nel caldo di Napoli, nel vento di Marassi o nel pomeriggio perfetto di un primo maggio a Padova. Gente con la quale hai pianto senza vergogna, trovando sempre un abbraccio più significativo di ogni parola, o con cui hai condiviso gioie e momenti di felicità che nient’altro potrà mai darti. Ognuno con il proprio personalissimo modo di vivere la tensione della partita o le fatiche di un viaggio, ma tutti con la stessa fede scritta sul cuore spesso messo a dura prova da una squadra sempre in bilico fra disfatte ed imprese. Impiegati e studenti, disoccupati e negozianti, operai, businessman, tutti uguali con una sciarpa al collo ed un filo di voce, in mezzo ai lacrimogeni come nel fumo e nelle luci di una coreografia; nella notte di Cesena, in Sala Dante con la mano al portafoglio, a Vico Equense, nel corteo per la promozione in serie B o sui binari ferroviari prima di Spezia-Genoa. Persone alle quali devi tantissimo, per tutto quello che hanno saputo darti e per la semplicità con la quale ti hanno ceduto un posto in macchina o un panino, facendo il possibile per rimediarti un biglietto o, molto più semplicemente, per averti insegnato a guardare il calcio dall’angolazione meno comoda ma più reale e viva. Quella disordinata e non omologabile, appresa senza tessere e televisioni ma trasmessa con gli sguardi, le espressioni e le emozioni, con la giocata in secondo piano e l’attenzione rivolta a quello che c’è fuori dal campo, all’esterno dello stadio; le strade, i palazzi e le persone delle altre città. Un modo di vivere e pensare il calcio che non cambia con il passare del tempo o le diverse abitudini ed esperienze personali, facendoti vivere la quotidianità con maggior sicurezza e serenità.
Una passione raccontata anche qui, con lo stesso spirito, da dieci anni a questa parte.

(Pubblicatosu www.cittadellaspezia.com il 18/11/2010)

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Ivan, la Tessera e le colpe di chi non vuole responsabilità

di Benedetto Marchese (pubblicato su Cittadigenova.com il 14/10/2010)

Maroni contro Vincenzi, Abete contro Blatter, Governo italiano contro quello serbo. A due giorni dai fatti di Marassi il confronto dialettico sembra non avere fine, fra reciproche accuse di “scarsa comunicazione” e “leggerezza” nella gestione del caso. Niente di nuovo in casi come questi, nei quali molti hanno responsabilità ma nessuno sembra in grado di prendersi colpe per quanto accaduto. Il tutto di fronte ad una città che ancora una volta ha vissuto sulla propria pelle ore di tensione e violenza, ed è nuovamente costretta a fare i conti con danni economici inattesi. Al bilancio dei danneggiamenti, dei feriti e degli arrestati, alla frettolosa corsa a rilasciare dichiarazioni di sdegno e condanna, o più semplicemente al rimbalzo di responsabilità da una parte all’altra, va inoltre aggiunto anche il comprensibilissimo disappunto di chi è arrivato da ogni parte d’Italia per assistere a sei minuti di calcio e due ore di surreale immobilismo organizzativo mentre i bengala volavano sul prato del Ferraris e delegati Uefa e Figc s’interrogavano sul da farsi.
Le assurde immagini del “terribile” Ivan e della sua milizia ultranazionalista hanno fatto il giro del Mondo, suscitando imbarazzo, sorpresa ma anche molte perplessità sulla gestione di una giornata che ha visto gli hooligans serbi agire indisturbati ma “controllati a vista” per le strade di Genova, prima che la situazione degenerasse nel piazzale di Marassi a notte fonda. In molti, frequentatori più o meno assidui di stadi e curve, si sono chiesti come abbiano fatto i teppisti ad entrare all’interno del Ferraris con un numero spropositato di bengala e fumogeni comprati anche in città; ad attraversare tutto il Nord Italia da un capo all’altro viaggiando con pullman carichi di bombe carta e torce sequestrate solo quando il peggio era ormai stato compiuto. Interrogativi più che leciti per chi da qualche anno a questa parte è costretto a fare i conti con trasferte contrassegnate da perquisizioni accuratissime in caselli e parcheggi periferici; a metter in preventivo di dover lasciare nello scatolone di turno accendini, portachiavi o tappini di plastica perché “atti ad offendere”; ultras o semplicemente tifosi abituati a fare i conti con biglietti nominali, movimenti limitatissimi e scorte severe ogni volta che si recano in una città che non è la loro. Abitudini che martedì sono incredibilmente venute meno per una delle frange più violente ed estreme del calcio internazionale.
Sia nel dopo partita che nelle dichiarazioni di questi giorni ha fatto un certo effetto sentir parlare di “violenza inaudita e inattesa” o “mancata intelligence” con la Polizia serba in merito all’arrivo di 3-400 personaggi abituati a ben altre efferatezze rispetto a quelle di due giorni fa. Era sufficiente vedere quanto accaduto nei giorni scorsi per le strade di Belgrado durante il Gay Pride, o ancora più semplicemente dedicare pochi minuti alla visione di video di Stella e Partizan su Youtube, per capire che i palestratissimi e tatuati serbi in tuta e scarpe da ginnastica non sarebbero arrivati a Genova per godersi l’insolito tepore di ottobre attorno alla fontana di De Ferrari. Lì, hanno invece potuto muoversi liberamente fra bottiglie di birra e scritte farneticanti, improvvisando il corteo che li ha portati fino allo stadio fra intemperanze e molta, troppa agilità di movimento. Quando poco dopo le 19.00 un gruppo è passato da Brignole, in molti avevano tubi di ferro e spranghe, bottiglie e torce da lanciare verso i passanti con un esiguo contingente di forze dell’ordine al seguito. Mentre al loro arrivo allo stadio hanno potuto confondersi liberamente in mezzo al pubblico di casa. Per parecchi minuti bar e biglietterie si sono riempite di serbi, molti dei quali nell’inadeguatezza delle indicazioni a loro destinate, si sono ritrovati ai tornelli della Sud, con tutto il tempo di nascondere nelle scarpe o nei pantaloni oggetti di ogni tipo prima di dirigersi verso il proprio settore.
Parlare di “stupore” o “sorpresa” per l’arrivo in città di un gruppo di persone già segnalate in una black list, in viaggio dal giorno prima e soprattutto in larga parte già in possesso, si presume, di un biglietto nominale, sembra quantomeno sorprendente per un Ministero che sta facendo della lotta alla violenza negli stadi uno dei suoi cavalli di battaglia, con decreti e provvedimenti restrittivi sia in termini di prevenzione che di gestione che prima, durante e dopo Italia-Serbia sono sembrati inefficaci. Come ampiamente prevedibile, è stata sottolineata l’importanza della tessera del tifoso che “avrebbe impedito” allo scatenato, e ora apparentemente pentito Bogdanov e alla sua banda, di conquistarsi così facilmente l’ambita vetrina internazionale per lanciare il proprio messaggio politico e propagandistico.
Al di là delle frasi di circostanza però resta indubbio che solo il divieto di assistere alla partita al gruppo in questione avrebbe evitato certi comportamenti che gli hooligans serbi avrebbero comunque compiuto anche se in possesso della famigerata tessera dato che si trovavano tutti contenuti nel settore ospiti, dotati di biglietto nominale regolarmente acquistato e sicuramente già schedati nel loro paese.
L’unica certezza alla luce di quanto accaduto, è stata l’iniziale sottovalutazione di un problema che poteva e doveva essere risolto ben prima della sospensione della partita o della guerriglia urbana nella notte di Marassi con la Polizia costretta al corpo a corpo con gli inesauribili energumeni serbi. Con un po’ più di attenzione da parte di chi mette in campo zelo ed intransigenza solo a fatto avvenuto, forse Genova avrebbe potuto godere di una meritatissima serata di calcio senza diventare involontaria protagonista dei giochi di potere e politica di chi a Belgrado non ne vuole sapere di entrare nell’Unione Europea.

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Il sogno di un popolo e il ragazzo che lo ha realizzato

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia il 15/06/2010)

Chiunque abbia perso almeno una volta la voce per sostenere lo Spezia dalla Curva Ferrovia ha sognato in chissà quante occasioni di correre fino a pochi centimetri dalla balaustra ed esultare per un gol. Guardare negli occhi i compagni di tante giornate passate a soffrire per la maglia bianca, di trasferte interminabili in giro per l’Italia; gli amici dei quali negli anni hai imparato a capire tensione, preoccupazione oppure entusiasmo attraverso uno sguardo o una parola. Corsa per un gol contro un’avversaria particolare o in una partita decisiva, prodezza da condividere con chi hai visto piangere per la delusione e gioire come nessun altro, chi ti ha regalato abbracci e momenti resi unici da un legame che va oltre la passione calcistica. Quel sogno, diventato quasi ossessione nella lunghissima vigilia iniziata dopo Legnano-Spezia, lo ha realizzato Alessandro Cesarini passato dai gradoni della curva all’erba del Picco senza perdere l’orgoglio ed il coraggio di chi a quella maglia ha dato e darà sempre tutto. La sua corsa da una parte all’altra del campo è stata quella di ognuno dei suoi tifosi, quelli che ha visto scaraventarsi dall’altro verso il basso man mano che si avvicinava al cuore del popolo spezzino. Ha urlato con loro, ha liberato la gioia per una doppietta impossibile da dimenticare per bellezza ed importanza; con due giocate da campione ha frantumato l’incubo dei play-off riscrivendo la propria storia e quella di una squadra che in due anni ha scalato le pareti dell’Inferno per tornare dove le compete. Tutto in dieci minuti, quando il tenace Legnano stava iniziando ad accarezzare il sogno dell’impresa e lo Spezia non riusciva a trovare la via del gol che avrebbe riacceso lo stadio. Fino al ventiquattresimo della ripresa infatti il Picco aveva vissuto la partita nella morsa della tensione, senza riuscire a fornire il proprio insostituibile contributo, fino a quando il ragazzo con la numero nove ha disegnato la palombella al centro dell’area dove Herzan ha trovato il fallo da rigore. Con l’incoscienza dell’età e la voglia di mettere il proprio nome su una giornata storica Alessandro Cesarini si è preso un pallone abbandonato da tutti e lo ha calciato, dopo una lunghissima attesa e con un po’ di fortuna, alle spalle di Furlan prima di lanciarsi nella prima folle corsa verso i propri tifosi, con il sottofondo di un urlo liberatorio che ha abbondantemente superato i confini del vecchio stadio. Eccolo lì il sogno che diventa realtà mentre l’eroe dei play-off si gode la sua prodezza e tu cerchi di conservare equilibrio e salute in una curva che sbanda di gioia. Anche gli ospiti capiscono che non è tempo per beffe ed amare sorprese, Legnano non sarà mai come Trieste, Como o Vico Equense, questo Spezia ha troppi conti in sospeso per cedere sul più bello. Questa gente deve dimenticare un fallimento, le trasferte improbabili della serie D e le difficoltà della Prima Divisione; questa gente ha una squadra ed un ragazzo che giocano con il cuore e merita tutto quello che novanta minuti, e non di più, possono regalare. Una perla ad esempio, come quella che s’inventa solo dieci minuti dopo ancora lui, ancora Alessandro Cesarini: esterno destro di prima intenzione, palla sul palo e poi in rete, come all’andata con Furlan spettatore immobile. La corsa questa volta è sfrenata, incontenibile come la gioia che in pochi secondi ti fa sentire finalmente lontano da tutto quello che hai vissuto fino a poche settimane fa, dilata le emozioni ed i minuti che non passano mai anche se la fine dell’incubo è ormai vicinissima. La vedi lasciandoti alle spalle Giaveno, Noceto e Ciriè, le amichevoli al Tanca e a Pietrasanta i “campi sportivi” e l’indifferenza della gente. Alla fine dell’incubo c’è la gente che in queste due stagioni è sempre rimasta al proprio posto sotto il sole o la pioggia, è lì e finalmente festeggia con gli eroi di questo Spezia: Lazzaro, Enow e tutti gli altri, compreso il ragazzo che continuerà a correre ancora a lungo sotto la sua Ferrovia.

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Lazzaro e i Fedeli alla tribù

Foto courtesy@Stefano Stradini

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia.it l’8/06/2009)

Qualche anno fa nel suo capolavoro “Fedeli alla Tribù”, John King scrisse che senza la passione il football sarebbe morto; senza i tifosi il gioco del calcio sarebbe ridotto a ventidue persone che corrono dietro ad un pallone. Secondo lo scrittore inglese e supporters del Chelsea, è invece la gente a farlo diventare una cosa importante, ad aggiungere il valore emozionale che gli permette di catalizzare l’interesse di milioni di persone. Per riconoscersi nel pensiero di King è sufficiente immaginarsi la partita di ieri in un’altra città: qualche decina di spettatori distratti, spalti semideserti e un gruppetto di irriducibili in un angolo a sostenere i propri colori. Nella disgrazia di questa categoria possiamo invece consolarci ripensando al pomeriggio vissuto e ai suoi tremila spettatori, al bianco della Curva Ferrovia e ad una gradinata che non si vedeva così da parecchi mesi. Clima da spettacolo vero, con una buona rappresentanza marchigiana e soprattutto la voglia del Picco di regalarsi qualche emozione in una stagione tanto lunga quanto avara di momenti esaltanti. Così nel teatro perfetto per una partita di calcio, anche chi è sceso in campo non ha voluto essere da meno, fornendo una prestazione molto convincete, determinata e si, a tratti spettacolare. Davanti al suo pubblico e ad un suo ex pupillo come Corrado Colombo, lo Spezia ha espresso finalmente quella superiorità che nei mesi passati era rimasta troppe volte nelle parole e nei giudizi dei tecnici avversari nel dopo gara. Ieri gli aquilotti hanno giocato da grande squadra, dimostrando di poter lottare per il traguardo finale potendo contare sull’apporto di tutto il gruppo. Contro il Fano i segnali più importanti sono arrivati dai più giovani come Triglia e Frateschi, ma anche dai più esperti e dotati tecnicamente come Masi, Capuano, autore di un tiro meraviglioso, e il solito Lazzaro con la sua doppietta. Gli autori dei gol hanno regalato giocate così belle da sembrare quasi stonate in questa categoria, hanno incantato la gente in bianco ed hanno ricevuto applausi convinti come non se ne sentivano da tempo. Per il bomber Lazzaro è arrivato anche un coro dal cuore del Picco che negli ultimi anni aveva dispensato i suoi battiti per un altro giocatore capace d’infiammarlo con le sue marcature. I paragoni non servono, ma l’andamento dell’attaccante di Susa e la dimostrazione d’affetto del pubblico devono al più presto essere tradotti in un nuovo e solido contratto in vista della prossima stagione. Le sue reti hanno contribuito a ridare nuovo entusiasmo ad una piazza che sembrava annichilita dal fallimento, spenta in quella che negli anni è stata la sua peculiarità più grande indipendentemente dalla categoria. I gol riaccendono la passione e la passione rende unico questo sport, perchè a Spezia come a Londra, in Premier come in serie D, è sempre una questione di fede.

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