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Vincere a Chiavari

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(@dettobene)

Questa è una trasferta senza pathos. Sarà la terza o quarta volta che vengo in  sto stadio e ho sempre preso solo freddo, umidità e gol, non c’è mai stato nulla di particolarmente interessante o da ricordare. Non c’è rivalità, non è di quelle che non ti fanno dormire la sera prima e poi la distanza è troppo breve; c’è pieno di gente che non vedi mai quando ci sono da fare più di cento chilometri.

L’unica istantanea di Chiavari che mi viene in mente è quella di Ramon: lui che arriva accompagnato da Teresa e io che gli scatto una foto mentre salutano un amico di vecchia data, e sorridono. Intorno c’è il solito casino di macchine e corriere ma tutti e tre si distinguono nettamente. 
Non ho una confidenza particolare con loro, però fermare la scena mi sembra una cosa quasi naturale, dovuta verso chi ha fatto un pezzo di storia della curva ed è lì in trasferta nonostante tutto. Poi in fondo mi è sempre piaciuto fare foto allo stadio. Come in ogni altra situazione per me è come prendere un appunto da conservare e ricercare per ricordare quel momento, una giornata o su una situazione precisa. Questa non è nemmeno particolarmente bella, è sfocata e fatta da lontano ma qualche tempo dopo diventerà ancor più significativa.

Ripenso a quel pomeriggio mentre passiamo davanti all’ingresso per cercare un posto dove mollare la macchina. E’ buio, pioviggina e manca più di un’ora alla partita. Una cosa incredibile per le nostre abitudini e ne approfitto subito per rompere i coglioni agli altri e cercare un posto dove mangiare. Non potete uscire” fa lo steward in un impeto di autoritarismo inutile, il tempo di trovare la stradina lungo l’Entella e siamo fuori dal recinto a caccia di cibo. In cinque, in direzione opposta allo stadio e con Andre che sembra un orco col cappuccio, diamo parecchio nell’occhio, ma qui il calcio è cosa da due ore il fine settimana e poi non manchiamo di rispetto a nessuno. La fame invece è cosa seria altrimenti non accetterei di mangiare in un posto con le pizze che hanno il nome delle canzoni di Vasco e le pareti sembrano quelle di un museo tutto dedicato a lui. Manca solo la cameriera con la fascetta sulla fronte.

Marco gode e Dani mi prende per il culo ma almeno arriviamo al settore ospiti a pancia piena. In ritardo ovviamente, perché abbiamo già perso la coreografia e il minuto per quel gran personaggio di Vicini. Siamo un ammasso casinista di giacconi fradici, patch Stone Island e cerate stropicciate, che si spostano continuamente fra il bar, la rete e i gradini di lamiera scivolosa a tre metri dal campo. Giochiamo in casa e glielo facciamo notare con l’arroganza che qui diventa quasi spontanea. Viene da dirla come quel fesso del cugino di Frodo in Green Street: “Entella, gioco così così, tifo zero”. Quelli che ci sono dell’altra parte si danno da fare, ma non c’è partita. In campo invece fatichiamo, del resto se i risultati fossero influenzati dalla passione avremmo una bacheca più grande. Un tempo intero di entrate dure, tiracci, pioggia e cazzate che diciamo io e Lore. Poi entra Giulietto e Palladino diventa quello che qualche anno fa ho visto zittire la Sud in un derby vero. Dani m’abbraccia e ride perché sa che dovrà mantenere la promessa, Marco è tranquillo perché tanto lui in trasferta non perde mai mentre Andre non si scompone troppo, anche se ci sta prendendo gusto.

Mentre passano i minuti e loro ci provano, picchiano e si buttano, mi viene in mente Roger. Stasera sarebbe qui anche lui, col giubottino leggero e il cappuccio legato troppo stretto sotto il collo. Al fischio finale tirerebbe giù un bestemmione liberatorio e poi ci piazzerebbe un sorriso dei suoi. Questi ultimi non mancano ma in mezzo a tutta sta gente mi piacerebbe cercarlo sapendo di poterlo trovare e guardarlo che se la ghigna felice come un bimbo. 

 

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Badia al Pino e Gabriele Sandri

Badia al Pino

(@dettobene)

Da quella domenica del 2007 ogni 11 novembre ripenso a quanti autogrill ho visto macinando chilometri in giro per l’Italia dietro allo Spezia. A quante volte avrei potuto ritrovarmi nella situazione di Gabriele Sandri durante un viaggio con gli amici di sempre, a cinquanta come a cinquecento chilometri da casa. Un pensiero fatto anche oggi, dopo aver visto diverse volte negli anni il punto da cui sparò Spaccarotella come il pezzetto di prato dove si trova il cippo dove continuano a fermarsi tutti gli ultras. Mi è tornata in mente anche la prima volta, di ritorno da Avellino quando si tornò a giocare quindici giorni dopo il fatto e Vi il quale notando sugli scaffali dell’autogrill il modellino della Volante lo girò, in modo che non si vedesse, dicendo alla commessa “no signora, non mi sembra proprio il caso, non qui”.

Riporto qui alcuni passaggi di un pezzo scritto nel 2008 ad un anno dal fatto. (Qui)

“Il sabato per il calcio e il giorno successivo per la famiglia, a tavola mentre in giro per l’Italia migliaia di altri ragazzi si apprestano a vivere le stesse emozioni da te provate ventiquattrore prima. Migliaia meno uno; uno dei tanti, la cui vita è appena finita in un’anonima area di sosta in Toscana. Badia Al Pino è solo il nome di un luogo; Gabriele Sandri l’identità di una persona con la quale inizialmente ti sembra di non aver nulla a che fare. Poi nelle ore successive ti accorgi che quel ragazzo non era solo un tuo coetaneo, ma come te amava la vita, la musica e gli amici, condivideva la tua stessa passione per la propria squadra del cuore; tanto da ritrovarsi a viaggiare da Roma a Milano per vederla dal vivo. Apprendendo i particolari della vicenda, la dinamica del fatto e la genesi di quel viaggio, ricordi quante volte ti sei ritrovato in piedi prestissimo ma sveglio e lucido come non ti sarebbe mai capitato in altre occasioni. Puntuale all’appuntamento con gli amici, quelli di sempre, con i quali negli anni condividi gioie e dolori, magari conosciuti proprio grazie all’amore comune per la tua squadra. In piena notte oppure all’alba, con buona pace di genitori apprensivi che ti vorrebbero a casa anziché in viaggio alla volta di città lontane. Almeno apparentemente tranquillizzati dalle consuete frasi di circostanza, anche se dentro di te speri che tutto possa andare bene come sempre successo fino a quel momento. Persuaso da una sicurezza apparente, pur sapendo che talvolta le cose non dipendono da te, che per quanto tu possa essere pacifico, “tranquillo” o comunque portato a farti i fatti tuoi, possa capitarti di ritrovarti in situazioni pericolose o non volute. Avendo un minimo di esperienza, sei perfettamente conscio che per quanto gli stadi siano “sicuri”, gli autogrill e le aree di sosta per forza di cose non possano esserlo. Pur essendo al corrente della cosa pensi che per una logica del tutto irrazionale certe situazioni spiacevoli debbano capitare ad altri e non a te; lo fai senza un motivo preciso, rimandando, nascondendo la consapevolezza del pericolo. Rimani della tua idea fino a quando non prendi coscienza della morte, fino a quando in quel luogo tanto insignificante quanto disgraziato ti ci trovi, pochi giorni dopo l’accaduto. Immediatamente comprendi di un colpo di pistola sparato da settanta metri di distanza; vieni assalito dallo sconforto. Lì, in quel luogo di morte, capisci quante volte quel ragazzo avresti potuto essere tu, in una qualsiasi giornata di campionato in giro per l’Italia, fermo in una qualunque area di sosta bramando un caffè ed un cornetto cercando di scacciare dalla testa l’idea del letto caldo abbandonato qualche ora prima; ma sempre con l’irrefrenabile voglia di stare vicino ai tuoi colori”. 

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In trasferta con Phil, aquilotto di Aldershot

Phil Franklin a Salerno (foto Benedetto Marchese)

(@dettobene)

Ai tornelli del Picco è ormai un volto noto ma in trasferta non passa certo inosservato agli occhi degli steward, non solo per la stazza imponente ma soprattutto per le generalità dei documenti che rivelano immediatamente l’insolita origine britannica di Mr. Philip Franklin, classe 1950 e per tutti Phil, ormai assiduo sostenitore degli aquilotti sia in casa che fuori. È accaduto anche ieri pomeriggio ai cancelli dell’Arechi di Salerno, dove i ragazzi che hanno controllato il suo biglietto non hanno perso occasione per chiedergli delle sue origini e della sua passione. “E’ colpa loro” ha replicato sorridendo ed indicando i compagni di viaggio con i quali ha intrapreso il viaggio di 1300 chilometri fra andata e ritorno. Seconda trasferta stagionale dopo quella di Bari all’esordio e le molte delle ultime quattro stagioni, fra le quali Latina, Pescara, Lanciano, Empoli e Cittadella, sul pullman con i ragazzi della Curva Ferrovia o in auto con gli amici.
Una storia la sua che si unisce alle tante nate nel tempo grazie allo Spezia (anche con altri tifosi inglesi come protagonisti) e sempre caratterizzate da una grande passione, per il calcio ma anche per tutte le sensazioni ed esperienze ben più importanti che riesce a sviluppare. “Sono venuto per la prima volta in Italia in viaggio di nozze – racconta a Cds – era il luglio del 1982, la vigilia della finale dei Mondiali e c’era un’atmosfera incredibile. Poi nove anni fa mia moglie mi ha detto “Voglio una casa in Italia, voglio abitare vicino a questo posto, mi piace il nome” ha indicato Fivizzano sulla mappa così siamo finiti poco distanti, vicino a Villafranca. Ha deciso tutto lei – aggiunge con ironia – ma alla fine c’ho guadagnato io visto che all’inizio potevamo venire solo per alcune settimane all’anno poi da quando sono andato in pensione da British Telecom ho potuto iniziare a trascorrere qui diversi mesi, mentre lei lavora in Inghilterra”.

Da Aldershot sua città natale dell’Hampshire fino alla Lunigiana e al Picco, sempre con il calcio come filo conduttore. “Per quarant’anni ho seguito la squadra locale che ora milita in Conference – racconta – poi quando mi sono trasferito al Nord sono stato abbonato per una decina di stagioni al Newcastle fino a che mi sono stufato perché l’atmosfera del calcio inglese era sempre più sterile, io quando guardo una partita allo stadio voglio stare in piedi e lì non è più possibile, solo a Leeds i tifosi continuano a farlo. Stando qui mi è tornata la voglia di andare allo stadio, conoscevo solo il Genoa poi ho scoperto dal giornale che c’era anche lo Spezia ma non sapendo come fare per i biglietti ho chiesto ad un anziano amico del Bar Nello di Vilallafranca che tifa il club. inizialmente non è riuscito ad aiutarmi poi il giorno dopo mi ha rassicurato: “c’è una persona che ti vuole parlare” ed è arrivato Vinci. Non lo conoscevo ma poco dopo ha detto “ok, tu puoi venire con noi” ed eccomi qui a Salerno – sottolinea ridendo – per colpa sua”.
Un paio di birre, qualche racconto con uno dei baluardi del tifo aquilotto in Lunigiana, ed ecco quattro stagioni di partite in viale Fieschi e in giro per l’Italia, di cui tre da abbonato, l’ultima delle quali iniziata da pochi giorni. “Ho visto la prima partita in Coppa Italia nell’agosto 2012, era Spezia-Sorrento (4-1 il finale). La prima cosa che ho pensato entrando in curva? Ho respirato la stessa atmosfera che c’era in Inghilterra trent’anni fa: qui è tutto completamente diverso, c’è un gran tifo e si può stare in piedi, un atteggiamento che mi piace, perfetto. La prima trasferta l’ho fatta a Castellamare di Stabia e poi tutte le altre. Devo dire grazie a Vincenzo – precisa – senza di lui non avrei mai visto lo Spezia e incontrato tanti nuovi amici che sono contentissimo di aver conosciuto, lui è molto generoso e come diciamo in Inghilterra “madder than a box of frogs”, più pazzo di una scatola di rane”. Il sorriso che segue è lo stesso che accompagna le ore spese al seguito dgli aquilotti, unito alla curiosità nel vedere luoghi e stadi sempre nuovi, con buona pace della moglie. “Ah lei è crazy più di me – sorride – un giorno è uscita per comprare un frigo ed è tornata con un’auto, per lei non c’è problema se vado in trasferta. A 65 anni cerco di vivere ogni giorno nel modo migliore – conclude – quando mi chiamano per una nuova avventura con lo Spezia rispondo sempre ‘si’, mi preparo e vado volentieri”. Livorno è dietro l’angolo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 20 settembre 2015)

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Buon viaggio Ramon

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(@dettobene)

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché”, una sensazione più che un’idea sensata, che accomuna tutti coloro che negli ultimi quarant’anni si sono ritrovati almeno una volta a seguire lo Spezia in trasferta o al Picco, a soffrire, gioire o a rischiare qualcosa insieme ad altri ragazzi magari sconosciuti o lontanissimi per età, ideologie ed estrazione sociale ma legati indissolubilmente dalla stessa passione. È stato così anche per Ramon Bertucci, uno dei pochi veri leader riconosciuti, stimati e rispettati da tutti, anche dai nemici, che questa tifoseria abbia espresso nel corso della sua storia sempre caratterizzata dalla presenza di un gruppo solido più che da singoli condottieri.
Lui è stato uno di questi a partire dai primi anni Ottanta e per lungo tempo, guida carismatica della curva e interprete di quello spirito ruvido e orgoglioso che ha sempre caratterizzato gli Ultras Spezia, fino a questa mattina quando il suo cuore tormentato da anni di malattia si è fermato per sempre consegnando la sua esistenza all’epica viscerale e un po’ scorbutica di questa squadra e della sua gente che oggi lo ricorda con emozione, dai più giovani cresciuti con i racconti delle sue imprese, ai suoi coetanei. Un gruppo di giovanissimi, tutti classe 1967, che all’epoca vennero definiti “Gli Ultras di Ramon” proprio per la fedeltà a quella figura che incuteva timore negli altri e sicurezza agli amici, imponente, duro ma sempre impeccabile. Insolitamente elegante nel suo completo bianco o nell’impermeabile chiaro mentre bomber e giacconi sgargianti erano il simbolo di quegli anni in cui i propri colori, soprattutto i vessilli, andavano difesi nel vero senso della parola ogni domenica, soprattutto in trasferta dove il coraggio veniva prima delle parole e la reputazione si costruiva con i fatti. Con i suoi ragazzi aveva tenuto alto il nome degli Ultras Spezia da Carrara a Lucca, da Reggio Emilia a Trieste e in ogni luogo che aveva visto scendere in campo gli aquilotti in campionati raramente entusiasmanti. E proprio loro, i suoi fedelissimi, gli sono stati sempre vicini in questi ultimi anni segnati da una malattia che lo ha reso indifeso e vulnerabile ma senza mai sopirne l’ardore in quello sguardo che brillava in ogni occasione in cui una torcia illuminava sciarpe o striscioni oppure quando la curva si riuniva per occasioni particolari, nel quarantennale degli Ultras Spezia del novembre scorso quando gli venne dedicato un applauso emozionante o solo poche settimane fa per la festa di Ceparana.
In una vita caratterizzata dall’amore per la maglia bianca, ha sempre avuto al suo fianco la moglie Teresa angelo custode e madre di sua figlia Jennifer, che ne aveva assorbito la forza e il carisma nei momenti più duri dedicandogli ogni istante con amorevole cura, portandolo al Picco, a San Siro o a Chiavari come nell’ultima occasione, tenendolo sempre a stretto contatto con la sua passione che aveva espresso anche al termine del viaggio in moto a Capo Nord, esibendo l’immancabile sciarpa degli Ultras dei quali aveva scritto pagine indelebili, conquistandosi anche una solida fama anche al di fuori della città e delle categorie viste con lo Spezia. Aveva infatti frequentato spesso anche la Curva Nord dell’Inter e la Gradinata Sud della Sampdoria, mentre l’anno scorso, nel periodo della malattia, gli ultras della Roma gli avevano dedicato uno striscione molto affettuoso incoraggiandolo a non mollare. Pensieri e preghiere che gli amici di sempre e tutti coloro che negli ultimi trent’anni hanno condiviso la sua stessa passione, hanno portato avanti con ostinazione fino a ieri senza mai perdere la speranza e il coraggio come lui aveva insegnato loro, sempre fedele a se stesso e al suo modo di essere. Gli stessi che in queste ore si stringono attorno alla sua famiglia.

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché – scrisse sul libro che racconta la storia del tifo spezzino – da lì passione, treni, a volte pullman e ancora treni, chilometri su chilometri in nome di quella maglia bianca che ti prendeva in maniera indescrivibile e riassumibile solo con: passione. Ed è così che la tua giovinezza cambia, tutto ti prende e modifica il tuo modo di essere, di vedere le cose e nel bene e nel male inizi a definirti ultras. Domenica dopo domenica – proseguì – anno dopo anno, le facce sempre quelle, pulite, sempre in simbiosi l’una con l’altra tanto da percepirne costantemente sensazioni e stati d’animo”. Una lunga riflessione sui valori del passato e quelli di un presente vissuto più in disparte nonostante una presenza mai banale sintetizzata nel finale: “In definitiva non so’ cosa mi abbia legato a tutto ciò, ma so’ quello che mi manca: “butta una biretta”, “ce l’hai un birillo?” e “A semo in pochi, andemo lo stesso”. Voci sempre presenti”.
Voci innamorate e sincere di un popolo che oggi piange un uomo leale e coraggioso.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 6 maggio 2015)

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Buon viaggio Califfo

Funerale Califfo

(@dettobene)

Ci sarà tutta la Curva Ferrovia domattina alle 11 alla chiesa del Favaro per l’ultimo saluto a Marco Canalini, per tutti “Califfo” scomparso ieri sera all’età di 52 anni, la maggior parte dei quali trascorsi al seguito dello Spezia. “Cali'” solo poche settimane fa era tornato al Picco per l’ultima volta, per vivere ancora l’atmosfera di un luogo in cui nessuno ti chiede cosa fai e da dove vieni, un luogo in cui la passione comune diventa legame fraterno. Lui veniva dal Favaro, quartiere che ha dato tantissimo alla storia del tifo spezzino compreso il gruppo degli ‘Irriducibili’ la cui la chiave inglese al centro dello striscione identifica l’estrazione popolare e saldamente legata alle proprie origini. Con loro aveva girato l’Italia in auto o su pullman sgangherati e oggi proprio quei ‘fratelli’ acquisiti macinando chilometri o cantando al freddo sotto la pioggia in campi sperduti, lo piangono commossi ricordando la sua semplicità, quel fisico esile, la voce roca, il sorriso e la barba grigia sopra il volto scavato dalla vita. Ha visto crescere tutti gli ultras che negli ultimi trent’anni hanno alzato al cielo una sciarpa aquilotta e con poche parole e una presenza discreta ma costante gli ha insegnato ad amare la maglia più dei giocatori, dei risultati e delle mode. I più giovani lo chiamavano ‘nonno’ e lui non mancava di prenderli in giro con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto.
Fiero del suo quartiere e della sua tradizione di sinistra frequentava attivamente il Circolo Arci e la Skaletta ed era un membro aggiunto dei VisiBì che lo ospitavano spesso durante le loro esibizioni.
Da domani il suo nome andrà ad aggiungersi a quelli di Mirco, Ilaria, Mattia e tutti gli altri presenti nel murales all’ingresso della Curva Ferrovia, mentre il suo ricordo resterà nelle persone che lo hanno conosciuto sui gradoni del Picco o per le strade del Favaro. (08/10/14)

Se non ci fosse stato il carro funebre ad indicarne inequivocabilmente il motivo, il corteo di questa mattina al Favaro avrebbe potuto essere scambiato per uno dei tanti che in questi anni hanno accompagnato le partite più importanti o i momenti storici nella storia dello Spezia Calcio. La presenza del feretro di Marco Canalini detto ‘Califfo’ davanti a parenti, amici di una vita o semplici conoscenti ha invece riportato tutti all’atmosfera triste e disperata che accomuna questi momenti. Torce, sciarpe e bandiere hanno così accompagnato lo storico sostenitore aquilotto, scomparso lunedì pomeriggio, dal piazzale del circolo Arci fino alla vicina chiesa dove diverse generazioni di ultras della Curva Ferrovia si sono strette attorno ai suoi parenti per cercare di alleviare un dolore che ha però riguardato tutti, in particolare i compagni di tanti episodi vissuti in lungo e in largo per la Penisola al seguito della maglia bianca.Momenti spesso tragicomici, talvolta pericolosi, dei quali si ricordano anche i dettagli più insignificanti e che fanno parte di un bagaglio di esperienze personali condivisibili solo con chi ti sei ritrovato a fianco a San Siro come ad Acireale. Pezzi di vita nei quali il calcio assume un ruolo quasi marginale come alcuni dei suoi interpreti che in una mattinata come questa avrebbero potuto apprendere sfumature emozionali molto significative sul proprio mestiere, toccando con mano gli aspetti più genuini della passione e dell’amicizia. Valori che hanno accomunato i tantissimi presenti che hanno dedicato al loro “Cali” lacrime sincere, rompendo un silenzio rispettosissimo solo per scandire il suo nome che presto tornerà a girare l’Italia su un drappo con i colori di una vita. (09/10/14)

(pubblicati su Cittadellaspezia)

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Aquilotti alla Scala

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Poco distante da un Meazza deserto e delineato ormai solo dalle luci soffuse immerse nella nebbia, fra le maglie di Honda e Kakà di una bancarella spiccano colori inconfondibili e la scritta “Spezia Campione” con il tricolore dei Pompieri e l’aquilotto, incrocio speciale per due club con vite e fortune molto diverse. In un’atmosfera fredda e ovattata infatti uno dei tanti ambulanti ripiega con cura il materiale invenduto, comprese le classiche sciarpe celebrative rossobianconere e quelle dedicate esclusivamente agli aquilotti con tanto di logo riprodotto perfettamente. Queste ultime in futuro potranno tornare utili se lo Spezia tornerà ad affacciarsi “alla Scala del calcio” che per una sera lo ha visto protagonista. Un bianco che non passa inosservato, fra il materiale in vendita come sugli spalti di San Siro dove sei o settemila tifosi hanno appena scritto una delle pagine più belle della loro storia.
Appuntamento irrinunciabile capitato in un mercoledì di gennaio a un orario che ha costretto mezza città ad annullare impegni, abbassare le saracinesche dei negozi e saltare un giorno di scuola. “La pizzeria? Oggi ho chiuso, magari apro quando torniamo se c’è da festeggiare” confessa uno dei tanti supporters in un autogrill di Fidenza dove si parla solo spezzino. I pullman che arrivano e ripartono a ritmo continuo fanno tutti rotta su Milano su un’autostrada interamente colorata dai vessilli bianchi. Una striscia infinita di corriere, macchine e pulmini, nei quali si parla solo di quello che sta per accadere, si ripercorrono i viaggi di una vita al seguito di questo o quello Spezia, si rincorrono aneddoti e racconti come da tradizione.
Il primo applauso della lunghissima giornata scatta poco prima della barriera di Melegnano, quando con lo sguardo s’incrocia lo striscione appeso ad uno dei tanti cantieri a bordo strada. La scritta “Avanti aquile” trasmette il senso di un qualcosa di unico ed irripetibile, atteso da troppo tempo. Ansia che cresce scorgendo lo stadio fra i cantieri dell’Expo 2015 e avvicinandosi a quei cancelli che in questi anni hanno accolto tutte le tifoserie più importanti d’Europa.

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Da Luni a Riomaggiore c’è una provincia che si raduna sotto le iconiche torri a spirale e davanti ai tornelli che si aprono senza l’obbligo di esibire tessere o documenti. Smartphone, sorrisi e passi frenetici accompagnano verso quegli spalti sognati tante volte, prima di quell’ultimo gradino e l’attimo che toglie il fiato. Primo anello verde con vista su un passato fatto di Vico Equense e Sestri Levante, Pizzighettone e Vittoria ed un presente che si chiama Milan, Coppa Italia, partita vera. Fratelli di fede, famiglie, parenti acquisiti campionato dopo campionato, tutti presenti fianco a fianco con un pensiero per chi non c’è più o non può esserci. Nell’unico settore affollato di una cattedrale maestosa c’è una città intera con la sua indole e il suo passato portati con orgoglio in ogni stadio d’Italia. Esperienza tradotta in cori per trascinare all’impresa impossibile una squadra che cambiando volto ogni sei mesi non può avere lo spirito della sua gente e che di fronte ai vari Montolivo e Pazzini si presenta senza il suo bomber e priva di un capitano al quale sarebbe stato giusto concedere quest’ultima passerella.
Chi sta in campo prova comunque a battersi inseguendo il pallone che viaggia veloce e preciso, infilandosi una, due, tre volte alle spalle di Leali. Mentre dall’altra parte del mondo mezzo Giappone esulta per il gol di Honda, a Milano un popolo che non si è mai arreso si emoziona intonando “o bela speza”, rivivendo batoste e trionfi e godendosi ogni istante di una notte da ricordare per sempre.
Dagli eroi dell’Arena a quelli di una sconfitta indolore che diventa dolcissima quando Ferrari segna il gol del 3-1 a tempo scaduto. Alle spalle di Abbiati un blocco unico di corpi e volti si disunisce disordinatamente liberando un boato che ha un senso profondo e commovente solo in un perimetro geografico ben circoscritto e solo per quei settemila che piangono e si abbracciano, perché per quei tre minuti che restano hanno vinto la speciale partita e onorato il loro appuntamento con la storia. Una vicenda di calcio e passione che non sarà mai una “bella favola” ma resterà sempre un avvincente racconto di mare, fra burrasche ed approdi fantastici.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 16/01/14)

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Dieci anni per capire e conoscere un’emozione

di Benedetto Marchese

Una partita di Seconda Divisione, sei minuti di Nazionale e ancora Serie A e Premier League, tutto nel giro di pochi giorni. Diversi scenari ma stessa passione da assecondare, nata quasi per caso poco più di dieci anni fa in una Curva Ferrovia insolitamente colorata di azzurro nel play off contro il Rimini. Primi intensi contatti con quello che negli anni successivi sarebbe diventato il collante per innumerevoli esperienze di vita, amicizie, lavoro e la consapevolezza di guardare quel pallone, calciato da campioni milionari o brocchi squattrinati, sempre con occhio affascinato e rapito da tutto quello che sta intorno al rettangolo verde. Interesse nato in famiglia, con gli amici in piazza sognando di fare gol come questo o quel campione dalla maglia a strisce che nel corso degli anni si sono allargate, fino rimanere di un bianco denso di emozioni e significati. Curiosità cresciuta con i racconti di un fratello tifoso e le prime domeniche al Picco, sporadiche inizialmente e via via sempre più regolari, fino a diventare passione vera, in certi casi “malattia”, pensiero fisso con il quale far convivere tutti gli altri, più o meno importanti ma sempre dettati dall’incombenza della partita, la domenica o durante la settimana, notturna o pomeridiana che fosse. Dieci anni di vita spesso condizionati da orari ed umori, vittorie e sconfitte, comprensione di chi ha imparato a sopportare inspiegabile euforia o inconsolabile tristezza; ma anche complicità da parte delle tante persone incontrate sulla stessa strada, nello stesso girone dei dannati del calcio. Vicini di gradone, di pullman o di treno, perfetti sconosciuti divenuti amici speciali col passare del tempo, compagni di viaggi impossibili ed episodi irripetibili; sotto il sole di Crotone o la neve di Pizzighettone, nel diluvio di Bologna o nel caldo di Napoli, nel vento di Marassi o nel pomeriggio perfetto di un primo maggio a Padova. Gente con la quale hai pianto senza vergogna, trovando sempre un abbraccio più significativo di ogni parola, o con cui hai condiviso gioie e momenti di felicità che nient’altro potrà mai darti. Ognuno con il proprio personalissimo modo di vivere la tensione della partita o le fatiche di un viaggio, ma tutti con la stessa fede scritta sul cuore spesso messo a dura prova da una squadra sempre in bilico fra disfatte ed imprese. Impiegati e studenti, disoccupati e negozianti, operai, businessman, tutti uguali con una sciarpa al collo ed un filo di voce, in mezzo ai lacrimogeni come nel fumo e nelle luci di una coreografia; nella notte di Cesena, in Sala Dante con la mano al portafoglio, a Vico Equense, nel corteo per la promozione in serie B o sui binari ferroviari prima di Spezia-Genoa. Persone alle quali devi tantissimo, per tutto quello che hanno saputo darti e per la semplicità con la quale ti hanno ceduto un posto in macchina o un panino, facendo il possibile per rimediarti un biglietto o, molto più semplicemente, per averti insegnato a guardare il calcio dall’angolazione meno comoda ma più reale e viva. Quella disordinata e non omologabile, appresa senza tessere e televisioni ma trasmessa con gli sguardi, le espressioni e le emozioni, con la giocata in secondo piano e l’attenzione rivolta a quello che c’è fuori dal campo, all’esterno dello stadio; le strade, i palazzi e le persone delle altre città. Un modo di vivere e pensare il calcio che non cambia con il passare del tempo o le diverse abitudini ed esperienze personali, facendoti vivere la quotidianità con maggior sicurezza e serenità.
Una passione raccontata anche qui, con lo stesso spirito, da dieci anni a questa parte.

(Pubblicatosu www.cittadellaspezia.com il 18/11/2010)

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Dal Picco al The Den

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su Cittadellaspezia il 18/10/2008)

Londra, metropoli multietnica da otto milioni di abitanti e dagli innumerevoli spunti culturali e sociali, ma anche patria di un calcio che per molti versi racchiude ancora intatti molti dei suoi valori più sani. Luogo ideale per lasciarsi alle spalle le recentissime delusioni: Sarzana, il Lottogiaveno e le successive contestazioni; trascorrendo qualche giorno con amici accomunati dallo stesso amore per le aquile seppur molto lontani da casa. Soffrono per le sorti della squadra incollati alla Rete a caccia di notizie, chiedono e s’informano, non avendo ancora vissuto dal vivo la nuova categoria, cercano risposte ai perché di una situazione apparsa inizialmente più rassicurante; bramando quanto prima il ritorno al Picco. Le ragioni però non possono che essere sommarie, poco esaustive perché per certi versi inspiegabili dopo risultati poco confortanti. Allora la presenza in città di squadre e stadi dal fascino indiscusso, diventa una buona scusa per mettere da parte l’argomento e addentrarsi in una realtà piuttosto distante da quella vissuta in prima persona. Certo, sperare di assistere ad un match dal vivo nella settimana santificata alla nazionale dei tre leoni di Fabio Capello, è un po’ come trovarsi nel Paese dei Balocchi il giorno di chiusura; ma un breve tour in tre zone e altrettanti stadi della capitale, riesce comunque ad appagare la voglia di quel calcio sempre visto in tv o letto sui libri. Stamford Bridge per iniziare, casa del Chelsea di Roman Abramovich, che sorge nel benestante e curatissimo quartiere di Fulham, a ovest della città. L’inizio con una delle squadre fra le più forti e ricche del panorama europeo è casuale, ma si rivela utile per un confronto con quelle successive, meno votate al business ad ogni costo. Se non fosse per le gigantografie della squadra o di alcune vecchie glorie quali Peter Osgood, si potrebbe infatti pensare di essere capitati in un moderno centro commerciale con annessi alberghi a lato degli ingressi dei vari settori. La visita all’interno è ovviamente a pagamento, mentre l’entrata nel negozio ufficiale è un po’ forzata ma comunque libera. Dalle magliette al modellino dello stadio, fino al cellulare, si può acquistare qualsiasi oggetto griffato con il leone blu rampante. Espressione massima della commercializzazione della passione e dei propri colori, resa ancora più netta dalla struttura dell’impianto e dal contesto del quartiere; con l’unico richiamo al passato dato da una targa, appesa ad un muro, che lo ricorda come luogo fisico della vecchia “Shed”, la gradinata simbolo dei Blues.
Tutto funzionale, sontuoso e moderno, ma troppo freddo, poco appassionante; troppo distante dai canoni abituali per essere apprezzato. Per trovare qualcosa di più autentico ed emozionante, è necessario spostarsi allora dall’altro lato della città, dall’agiato ovest di Londra al più popolare quartiere di Newham, a due passi dall’East end, un tempo approdo di immigrati ed ora protagonista di una vera e propria rinascita architettonica e culturale. La fermata di Upton Park porta ad un contesto molto diverso da quello precedente, e la famosa Green Street che conduce allo stadio del West Ham, rispecchia pienamente le origini di un quartiere nel quale da decenni gruppi etnici fra i più disparati convivono in simbiosi l’uno con l’altro. Da un lato della strada lunghe file di case popolari, dall’altro il maestoso impianto, con la caratteristica cancellata che apre la visuale sulle due torri, nelle quali spiccano i martelli incrociati sul caratteristico sfondo “Claret & blue”. Il bordò e il celeste che rifiniscono ogni dettaglio del Boleyn Ground, stadio che da qualche mese ospita mister Gianfranco Zola. Qui, dove una delle gradinate è dedicata alla leggenda Bobby Moore, si respira un clima diverso; certo vi si trovano l’hotel, il museo, l’immancabile negozio e la visita guidata in cambio di un po’ di sterline; però si ha veramente la sensazione di essere in uno dei luoghi di culto del calcio britannico, nonostante l’inevitabile impronta commerciale. Un impressione confermata dalla statua che domina l’incrocio a pochi passi dall’impianto e dal Boleyn, il pub di riferimento dei tifosi degli “Irons”. Il monumento è quello dedicato agli eroi del Mondiale del ’66: Geoff Hurst, Martin Peters and Ray Wilson che sorreggono il capitano Moore con la coppa Rimet; quattro campioni del Mondo con la maglia del West Ham, un pezzo di storia che da solo vale la visita.
Ritrovarsi in luoghi come questi, reduci dal Miro Luperi, mette a disagio fa sentire un po’ fuori luogo, a distanze impossibili dalla realtà attuale, parlando comunque di club che frequentano stabilmente lo sfarzoso e spettacolare teatro della Premier League. Il desiderio di scendere più in profondità è forte e la soluzione è vicina, appena sotto il Tamigi, a Bermondsey; sud-est della City poco distante dal London Bridge ma fuori da ogni rotta turistica; casa o meglio “tana” del Millwall parafrasando il nome del suo stadio il “The Den” appunto. Autofficine, depositi e caseggiati popolari sono il perimetro poco ospitale dello stadio di recente costruzione, distante solo pochi isolati da luogo in cui sorgeva il vecchio impianto, che come quello attuale non ha mai vissuto momenti di gloria paragonabili a quelli degli altri team londinesi. La squadra infatti, fondata da operai portuali scozzesi e attualmente in terza divisione; nella sua storia ultracentenaria non ha mai vinto scudetti ne F.a. Cup (persa in finale nel 2005 con il Manchester) concedendo ben poche soddisfazioni ai suoi affezionati tifosi. La storia del club e il clima particolarmente “provinciale” suonano molto più familiari rispetto ai due precedenti, e la cordialità delle persone, prossime alla fine del turno di lavoro all’interno dello stadio, creano un’atmosfera molto vicina a quella voluta. Dalla segretaria, che apre senza problemi le porte degli spogliatoi e del campo da gioco, fino all’addetto alla vendita dei biglietti. Racconta di un club che solitamente arriva a otto-novemila spettatori e registra il tutto esaurito per incontri sentiti come quello di ieri con il Leeds (vinto 3-1), e soprattutto chiede e s’informa sulla provenienza dei suoi interlocutori stranieri. “Spezia” è la più ovvia delle risposte e di lì a poco ci si ritrova su un bus in piena Londra, a raccontare, non senza orgoglio, della serie B, della Juve, di una vittoria impossibile ad un secondo dalla fine; ma anche di retrocessione, fallimento, di una categoria troppo brutta per essere vera. L’espressione è quella di chi riesce a capire perfettamente la situazione e lo stato d’animo, e prima di sparire nella metro, dopo i sorrisi e i saluti, l’uomo si congeda con una frase che sa di benedizione calcistica: ‘God bless your team’. Un arrivederci che vale quanto una vittoria esterna, che a centinaia di chilometri da casa riesce a farti sentire ancora più fiero della tua squadra, della sua storia e della sua dimensione.

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Lazzaro e i Fedeli alla tribù

Foto courtesy@Stefano Stradini

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia.it l’8/06/2009)

Qualche anno fa nel suo capolavoro “Fedeli alla Tribù”, John King scrisse che senza la passione il football sarebbe morto; senza i tifosi il gioco del calcio sarebbe ridotto a ventidue persone che corrono dietro ad un pallone. Secondo lo scrittore inglese e supporters del Chelsea, è invece la gente a farlo diventare una cosa importante, ad aggiungere il valore emozionale che gli permette di catalizzare l’interesse di milioni di persone. Per riconoscersi nel pensiero di King è sufficiente immaginarsi la partita di ieri in un’altra città: qualche decina di spettatori distratti, spalti semideserti e un gruppetto di irriducibili in un angolo a sostenere i propri colori. Nella disgrazia di questa categoria possiamo invece consolarci ripensando al pomeriggio vissuto e ai suoi tremila spettatori, al bianco della Curva Ferrovia e ad una gradinata che non si vedeva così da parecchi mesi. Clima da spettacolo vero, con una buona rappresentanza marchigiana e soprattutto la voglia del Picco di regalarsi qualche emozione in una stagione tanto lunga quanto avara di momenti esaltanti. Così nel teatro perfetto per una partita di calcio, anche chi è sceso in campo non ha voluto essere da meno, fornendo una prestazione molto convincete, determinata e si, a tratti spettacolare. Davanti al suo pubblico e ad un suo ex pupillo come Corrado Colombo, lo Spezia ha espresso finalmente quella superiorità che nei mesi passati era rimasta troppe volte nelle parole e nei giudizi dei tecnici avversari nel dopo gara. Ieri gli aquilotti hanno giocato da grande squadra, dimostrando di poter lottare per il traguardo finale potendo contare sull’apporto di tutto il gruppo. Contro il Fano i segnali più importanti sono arrivati dai più giovani come Triglia e Frateschi, ma anche dai più esperti e dotati tecnicamente come Masi, Capuano, autore di un tiro meraviglioso, e il solito Lazzaro con la sua doppietta. Gli autori dei gol hanno regalato giocate così belle da sembrare quasi stonate in questa categoria, hanno incantato la gente in bianco ed hanno ricevuto applausi convinti come non se ne sentivano da tempo. Per il bomber Lazzaro è arrivato anche un coro dal cuore del Picco che negli ultimi anni aveva dispensato i suoi battiti per un altro giocatore capace d’infiammarlo con le sue marcature. I paragoni non servono, ma l’andamento dell’attaccante di Susa e la dimostrazione d’affetto del pubblico devono al più presto essere tradotti in un nuovo e solido contratto in vista della prossima stagione. Le sue reti hanno contribuito a ridare nuovo entusiasmo ad una piazza che sembrava annichilita dal fallimento, spenta in quella che negli anni è stata la sua peculiarità più grande indipendentemente dalla categoria. I gol riaccendono la passione e la passione rende unico questo sport, perchè a Spezia come a Londra, in Premier come in serie D, è sempre una questione di fede.

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