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L’ultima partita a porte aperte

di Dettobene

L’atmosfera è strana, incerta e un po’ surreale. Probabilmente l’ultima partita a porte aperte del calcio italiano poteva capitare solo a noi che di situazioni balorde ne abbiamo vissute parecchie, tipo a Pescara costretti a star fuori perché non ci facevano i biglietti, o a Cesena la sera di Raciti.
In fondo non mi sorprenderei di arrivare sotto la Ferrovia e sentirmi dire “è cambiato tutto, non si può entrare”. Fortunatamente non è così anche se il clima è diverso e non c’è coda, alla fine sono le ultime quattro ore che si possono passare in mezzo a un po’ di gente.
A fianco a me al cancello un gruppo di ragazzi si sente dire dallo steward “non potete entrare, non avente quindici anni”, “perché? siamo sempre entrati” ribattono loro con documento e biglietto alla mano. Ma dai? Oltretutto stasera con sta situazione? Poi non sono mica dei bimbetti. Mentre loro si guardano indecisi se andarsene, mi vengono in mente i racconti degli amici che hanno vissuto il calcio senza tornelli e biglietti nominali – quello che io ho conosciuto al tramonto – quando i fanti entravano col primo signore che gli capitava a tiro. Allora prendo sotto braccio un ragazzo e dico allo steward “lui è mio figlio, entra con me”. La risposta è uno sguardo perplesso ma Davide mi viene dietro e ne prende un altro “lui è mio figlio, lo accompagno io” e così fa il tizio davanti che ha seguito la scena, altri due o tre nel frattempo si infilano mentre lo sguardo dello steward è rassegnato.
Tutti dentro, c’è da veder vincere gli aquilotti.

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La fiera del gol

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(@dettobene)

Questo settore ospiti sembra uno di quelli che vedi nelle foto degli stadi dell’Est. Ci sono le reti, il filo spinato e i seggiolini scoloriti. Sono pieni d’acqua che gocciola fin sotto nel tunnel pieno di scritte, dove cammini saltando le pozzanghere degli scarichi che escono dai cessi. Mancano solo gli orchi ultra tatuati e ultra nazionalisti e mancano anche le guardie con le mimetiche. Invece ci sono solo i ragazzini insieme ai genitori nella tribuna a fianco, ti mandano in culo mentre gli steward balcanici, massicci e di poche parole, se la ghignano sapendo che sarà un pomeriggio tranquillo.

La curva del Perugia si riempie subito prima del fischio d’inizio, noi invece siamo tutti qua e siamo questi, pochi. Non è un bel periodo, la trasferta è lontana e poi oggi c’è la fiera e da Spezia non esce nessuno. In questi miei quasi vent’anni è capitato altre volte di essere in trasferta nei giorni di San Giuseppe ed è sempre stata la stessa storia. Per me la fiera è un ricordo degli anni Ottanta: il viaggio interminabile in corriera con i miei nonni e col sorriso, le navi in arsenale e le bancarelle a caccia di giocattoli. Più tardi, quando è capitato, ha significato un settore ospiti con i soliti a fare il conto dei presenti, come a Lucca, quando abbiamo vinto grazie a quel pacco di Scoponi, oppure a Latina. Lo ricordo a Lore e al Gianca, gli dico “magari vinciamo anche oggi” anche se in trasferta non succede mai. Loro non mi danno nemmeno retta e fanno bene.

Lì davanti i ragazzi manco ci pensano. Cantano, tirano su le bandiere e mandano affanculo i perugini. Orgoglio che oggi vale anche più del solito e lo sanno, anche perché in campo va come sempre. Cerri oltre a essere grande e grosso ha anche del culo, segna e almeno non ci fa i versi come Ardemagni l’unica volta che sono stato qui prima di questa. Due a zero e non serve nemmeno cercare di vedere qualcosa, incrociando le maglie delle reti di metallo. All’intervallo siamo già finiti. I quattro passi a vuoto verso il bar, che è in realtà un bibitaro vecchio stile, servono solo per rivedere la scritta a bomboletta “Ma che siete venuti a fa?”. Ce l’hai sulla testa appena rientri sui gradoni e non puoi fare a meno di leggerla. Almeno chi non è venuto si è risparmiato anche questa, così come l’inutile secondo tempo di una partita che per noi è già finita. Segna anche Bianco che qualche anno fa a Bari mi aveva dato la maglia, la prima presa e subito regalata al piccolo Jimmy. Era quasi ferragosto ed eravamo in pochi. Avevamo perso.

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Romanticismo sottozero

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Il San Nicola mi fa sempre l’effetto di un’astronave fuori produzione, circondata da grovigli di tangenziali con il profilo di una città brulicante e ospitale sullo sfondo. Il cielo terso e il sole ne illuminano il cemento e i cancelli, mettendo in evidenza tutti i suoi ventott’anni, mentre l’aria fredda si abbatte sulle nostre facce stanche e incazzate. La terza volta qui è quella della beffa, di una partita che non si gioca per neve, anche se la neve è ormai sparita del tutto e al kick-off mancano più di quattro ore. Più ci guardiamo intorno e meno riusciamo a credere alla più grande presa per il culo da quando abbiamo sta passione malsana.

Decisamente peggio di Pescara, dove non ci fecero i biglietti nonostante lo stadio semi deserto, o di quella volta a Bolzano, quando ci toccò vederla dal terrazzino di una palestra perché non avevamo la tessera. Oggi due ore di neve sono bastate al Prefetto per togliersi il pensiero e rinviare tutto. Poco importa se lo slogan della Lega di B è “Il campionato degli italiani” e quell’hashtag #rispetto lo piazzano su ogni cartellone. Ferie, soldi, ottocento chilometri in macchina, pullman o furgone non meritano rispetto?. No, e non è una novità, altrimenti fra poche ore saremmo di nuovo qua in sto parcheggio ricongiunti a tutti gli altri e pronti sgolarci dentro quell’astronave troppo grande per questo campionato. Invece non arriverà nessun altro e fra un po’ ce ne andremo anche noi, per finire in città una giornata amara e surreale in questo gelo soleggiato.

Mentre faccio due passi per dar tregua alla schiena, fra una telefonata e una tremila notifiche di oggi, mi viene in mente Ale che qualche giorno fa m’ha detto “siete dei romantici”. Gli raccontavo che stavo guidando verso il Picco, che sarei arrivato più o meno all’intervallo ma che sarei andato comunque. Gli ho risposto “può darsi ma siamo anche un po’ coglioni, è così e non possiamo farci niente”. Se mi richiamasse adesso gli ridirei la stessa cosa con la stessa convinzione, per il freddo, le ore di viaggio e tutto il resto. Probabilmente gli ripeterei le stesse parole perché alla fine qua ci siamo arrivati anche oggi, nonostante tutto.

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Vincere a Chiavari

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(@dettobene)

Questa è una trasferta senza pathos. Sarà la terza o quarta volta che vengo in  sto stadio e ho sempre preso solo freddo, umidità e gol, non c’è mai stato nulla di particolarmente interessante o da ricordare. Non c’è rivalità, non è di quelle che non ti fanno dormire la sera prima e poi la distanza è troppo breve; c’è pieno di gente che non vedi mai quando ci sono da fare più di cento chilometri.

L’unica istantanea di Chiavari che mi viene in mente è quella di Ramon: lui che arriva accompagnato da Teresa e io che gli scatto una foto mentre salutano un amico di vecchia data, e sorridono. Intorno c’è il solito casino di macchine e corriere ma tutti e tre si distinguono nettamente. 
Non ho una confidenza particolare con loro, però fermare la scena mi sembra una cosa quasi naturale, dovuta verso chi ha fatto un pezzo di storia della curva ed è lì in trasferta nonostante tutto. Poi in fondo mi è sempre piaciuto fare foto allo stadio. Come in ogni altra situazione per me è come prendere un appunto da conservare e ricercare per ricordare quel momento, una giornata o su una situazione precisa. Questa non è nemmeno particolarmente bella, è sfocata e fatta da lontano ma qualche tempo dopo diventerà ancor più significativa.

Ripenso a quel pomeriggio mentre passiamo davanti all’ingresso per cercare un posto dove mollare la macchina. E’ buio, pioviggina e manca più di un’ora alla partita. Una cosa incredibile per le nostre abitudini e ne approfitto subito per rompere i coglioni agli altri e cercare un posto dove mangiare. Non potete uscire” fa lo steward in un impeto di autoritarismo inutile, il tempo di trovare la stradina lungo l’Entella e siamo fuori dal recinto a caccia di cibo. In cinque, in direzione opposta allo stadio e con Andre che sembra un orco col cappuccio, diamo parecchio nell’occhio, ma qui il calcio è cosa da due ore il fine settimana e poi non manchiamo di rispetto a nessuno. La fame invece è cosa seria altrimenti non accetterei di mangiare in un posto con le pizze che hanno il nome delle canzoni di Vasco e le pareti sembrano quelle di un museo tutto dedicato a lui. Manca solo la cameriera con la fascetta sulla fronte.

Marco gode e Dani mi prende per il culo ma almeno arriviamo al settore ospiti a pancia piena. In ritardo ovviamente, perché abbiamo già perso la coreografia e il minuto per quel gran personaggio di Vicini. Siamo un ammasso casinista di giacconi fradici, patch Stone Island e cerate stropicciate, che si spostano continuamente fra il bar, la rete e i gradini di lamiera scivolosa a tre metri dal campo. Giochiamo in casa e glielo facciamo notare con l’arroganza che qui diventa quasi spontanea. Viene da dirla come quel fesso del cugino di Frodo in Green Street: “Entella, gioco così così, tifo zero”. Quelli che ci sono dell’altra parte si danno da fare, ma non c’è partita. In campo invece fatichiamo, del resto se i risultati fossero influenzati dalla passione avremmo una bacheca più grande. Un tempo intero di entrate dure, tiracci, pioggia e cazzate che diciamo io e Lore. Poi entra Giulietto e Palladino diventa quello che qualche anno fa ho visto zittire la Sud in un derby vero. Dani m’abbraccia e ride perché sa che dovrà mantenere la promessa, Marco è tranquillo perché tanto lui in trasferta non perde mai mentre Andre non si scompone troppo, anche se ci sta prendendo gusto.

Mentre passano i minuti e loro ci provano, picchiano e si buttano, mi viene in mente Roger. Stasera sarebbe qui anche lui, col giubottino leggero e il cappuccio legato troppo stretto sotto il collo. Al fischio finale tirerebbe giù un bestemmione liberatorio e poi ci piazzerebbe un sorriso dei suoi. Questi ultimi non mancano ma in mezzo a tutta sta gente mi piacerebbe cercarlo sapendo di poterlo trovare e guardarlo che se la ghigna felice come un bimbo. 

 

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Un tè buttato via

carp

(@dettobene)

Almeno oggi non fa freddo. Vabbè, ho le mani gelate e le scaldo con un bicchiere di tè chimico che fa schifo, ma per fortuna non si gela come l’altra volta quando c’era la neve ovunque. Eravamo stranamente in balaustra, non riuscivamo nemmeno a muoverci se non per prenderli per il culo dopo che Lotito aveva detto che erano troppo pochi per andare in A. Che poi alla fine ci sono andati davvero, mica come noi che siamo ancora qui a esaurirci con i playoff, gli esodi, i sogni, le lacrime e le trasferte impossibili.

Quattro gatti erano e quattro gatti sono, però la soddisfazione se la sono tolta. Dal nulla a girare ovunque, una stagione intera che noi ci metteremmo la firma anche solo a fare un girone d’andata sopra sta categoria. Tipo Mora, che qualcosa si è goduto anche se ha giocato poco. A vederlo con barba e capelli lunghi in mezzo a questi tutti uguali gli mancano solo l’accento incomprensibile da inglese del nord e la maglia di lana pesante. Chissà se ha letto la scritta di Ponzo prima di infilarsi la nostra.

Grande Paolino, oggi c’avrebbe fatto comodo per mettere un po’ di cuore lì in mezzo e far muovere tutti. Gli bastava vedere pallone e avversari e li rincorreva fino alla fine. Un po’ come noi che se ce ne fosse bisogno andremmo anche a sfidare qualche stadio di orchi in Russia, solo per attaccare pezze e sventolare bandiere.

“Non me ne frega un cazzo se Mora è forte e fa dei gol, basta che esca sudato”. David la fa facile, catapultato in trasferta sette anni dopo aver tribolato di notte, attaccato al computer con la telecronaca in chissà che cazzo di lingua pur di vedere lo Spezia a Cittadella o in casa col Trapani. Ha pianto di gioia o bestemmiato insieme a noi, solo che stava dall’altra parte del mondo. “Frè ti va bene che qua non ci sei mai stato, io sto posto lo odio”.

Il tè fa veramente schifo ma tutto sommato mi è andata meglio degli altri. Li ho lasciati alle prese con birra analcolica e un bombardino che riesce a bere solo Riccio. E’ ancora tiepido ma ci mette un secondo a volare oltre la ringhiera e finire sul cemento in discesa di sto finto velodromo. Mentre cade laggiù davanti esultano tutti, lo speaker dice cose senza senso e Mbakogu ci ricorda che qua non si passa, che i nomi e i soldi ce li possiamo anche tenere. Jerry Mbakogu, potrebbe stare in un video grime girato a Newham con la tuta dell’Adidas e le rime incazzate, e invece è qua che non lo tiene nessuno e se ne frega dei buu di qualche fesso.

Qui non c’è storia, finirebbero a prenderci per il culo anche se ci presentassimo con Ibrahimovic là davanti. Si perché Terzi la butta dentro solo per illuderci che stavolta possa andare diversamente, o magari solo per far scriccare quella torcia che alla fine la sua figura la fa sempre.

Esulti, ci credi, gli fai il verso della sega ma i vecchi in gradinata sono belli tranquilli, lo sanno che noi qua siam venuti solo per pagare il biglietto e far l’incasso al bar. Lo sa anche Melchiorri che non segna da un anno e ci guarda tutti uno per uno mentre la butta dentro. Mi dice “eccolo il tuo compleanno” e non ho manco un altro tè da buttar via.

Mentre ci cantano “non vincete mai” siamo già in via Marx. Di nuovo su questo vialone, in mezzo a tutti ste monotone palazzine anni Sessanta, impregnate di nebbia e indifferenza per noi che ce ne andiamo incazzati. Ancora una volta.

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Aquilotti alla Scala

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Poco distante da un Meazza deserto e delineato ormai solo dalle luci soffuse immerse nella nebbia, fra le maglie di Honda e Kakà di una bancarella spiccano colori inconfondibili e la scritta “Spezia Campione” con il tricolore dei Pompieri e l’aquilotto, incrocio speciale per due club con vite e fortune molto diverse. In un’atmosfera fredda e ovattata infatti uno dei tanti ambulanti ripiega con cura il materiale invenduto, comprese le classiche sciarpe celebrative rossobianconere e quelle dedicate esclusivamente agli aquilotti con tanto di logo riprodotto perfettamente. Queste ultime in futuro potranno tornare utili se lo Spezia tornerà ad affacciarsi “alla Scala del calcio” che per una sera lo ha visto protagonista. Un bianco che non passa inosservato, fra il materiale in vendita come sugli spalti di San Siro dove sei o settemila tifosi hanno appena scritto una delle pagine più belle della loro storia.
Appuntamento irrinunciabile capitato in un mercoledì di gennaio a un orario che ha costretto mezza città ad annullare impegni, abbassare le saracinesche dei negozi e saltare un giorno di scuola. “La pizzeria? Oggi ho chiuso, magari apro quando torniamo se c’è da festeggiare” confessa uno dei tanti supporters in un autogrill di Fidenza dove si parla solo spezzino. I pullman che arrivano e ripartono a ritmo continuo fanno tutti rotta su Milano su un’autostrada interamente colorata dai vessilli bianchi. Una striscia infinita di corriere, macchine e pulmini, nei quali si parla solo di quello che sta per accadere, si ripercorrono i viaggi di una vita al seguito di questo o quello Spezia, si rincorrono aneddoti e racconti come da tradizione.
Il primo applauso della lunghissima giornata scatta poco prima della barriera di Melegnano, quando con lo sguardo s’incrocia lo striscione appeso ad uno dei tanti cantieri a bordo strada. La scritta “Avanti aquile” trasmette il senso di un qualcosa di unico ed irripetibile, atteso da troppo tempo. Ansia che cresce scorgendo lo stadio fra i cantieri dell’Expo 2015 e avvicinandosi a quei cancelli che in questi anni hanno accolto tutte le tifoserie più importanti d’Europa.

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Da Luni a Riomaggiore c’è una provincia che si raduna sotto le iconiche torri a spirale e davanti ai tornelli che si aprono senza l’obbligo di esibire tessere o documenti. Smartphone, sorrisi e passi frenetici accompagnano verso quegli spalti sognati tante volte, prima di quell’ultimo gradino e l’attimo che toglie il fiato. Primo anello verde con vista su un passato fatto di Vico Equense e Sestri Levante, Pizzighettone e Vittoria ed un presente che si chiama Milan, Coppa Italia, partita vera. Fratelli di fede, famiglie, parenti acquisiti campionato dopo campionato, tutti presenti fianco a fianco con un pensiero per chi non c’è più o non può esserci. Nell’unico settore affollato di una cattedrale maestosa c’è una città intera con la sua indole e il suo passato portati con orgoglio in ogni stadio d’Italia. Esperienza tradotta in cori per trascinare all’impresa impossibile una squadra che cambiando volto ogni sei mesi non può avere lo spirito della sua gente e che di fronte ai vari Montolivo e Pazzini si presenta senza il suo bomber e priva di un capitano al quale sarebbe stato giusto concedere quest’ultima passerella.
Chi sta in campo prova comunque a battersi inseguendo il pallone che viaggia veloce e preciso, infilandosi una, due, tre volte alle spalle di Leali. Mentre dall’altra parte del mondo mezzo Giappone esulta per il gol di Honda, a Milano un popolo che non si è mai arreso si emoziona intonando “o bela speza”, rivivendo batoste e trionfi e godendosi ogni istante di una notte da ricordare per sempre.
Dagli eroi dell’Arena a quelli di una sconfitta indolore che diventa dolcissima quando Ferrari segna il gol del 3-1 a tempo scaduto. Alle spalle di Abbiati un blocco unico di corpi e volti si disunisce disordinatamente liberando un boato che ha un senso profondo e commovente solo in un perimetro geografico ben circoscritto e solo per quei settemila che piangono e si abbracciano, perché per quei tre minuti che restano hanno vinto la speciale partita e onorato il loro appuntamento con la storia. Una vicenda di calcio e passione che non sarà mai una “bella favola” ma resterà sempre un avvincente racconto di mare, fra burrasche ed approdi fantastici.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 16/01/14)

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Modello inglese a Bristol: tafferugli e arresti nel derby fra City e Rovers

(foto dalla homepage del sito http://www.bristolpost.co.uk)

di Benedetto Marchese (@dettobene)

Mentre l’Italia continua a disquisire sul sasso romanista che domenica ha infranto un vetro del pullman del Verona, l’Inghilterra torna a fare i conti con episodi di violenza legati al calcio. Dopo i fatti dei giorni scorsi con le tensioni di Wrexham-Chester e i 23 arresti successivi alla partita fra Port Vale e Wolves, ieri sera il derby fra Bristol City e Bristol Rovers è finito con l’invasione di campo dei fans di casa e la polizia a cavallo che è dovuta intervenire per evitare il contatto con i Rovers sistemati nella gradinata riservata agli ospiti. Chiari segnali di come il tanto decantato “modello inglese” sia ormai superato (ne avevo scritto anche qui) da una nuova generazione di ultras britannici che non avendo vissuto le repressioni Thatcheriane degli anni Ottanta ora vivono partite e rivalità con la consapevolezza dei loro padri – che tuttavia non hanno certo dimenticato le vecchie abitudini – slegandosi dall’omologazione patinata imposta dalla Premier League. Un approccio molto diverso che in certi casi prevede anche striscioni e torce e soprattutto la fortissima richiesta di posti in piedi nei settori ‘popolari’ nonostante i divieti dei club.

La città che si affaccia sul fiume Avon, resa celebre da trip hop e drum and bass, dopo sei anni era tornata a respirare clima di derby grazie al primo turno della Johnstone’s Paint Trophy, competizione che dal 2006 mette di fronte squadre di League One e League Two. Ma ad Ashton Gate, casa del City, le cose non sono andate troppo bene. Secondo quanto riporta il Bristol Post infatti una piccola parte dei 18 mila tifosi presenti infatti si era scontrata all’esterno dello stadio prima del fischio d’inizio nonostante l’intervento della Polizia antissommossa che ha faticato non poco a separare le due tifoserie. Tafferugli che sono proseguiti anche all’interno, dove i padroni di casa hanno vinto 2-1, con i supporters biancorossi che al fischio finale hanno invaso il campo per andare cercare di raggiungere gli ospiti, separati appunto dalle pettorine degli steward e dai poliziotti a cavallo.

Da Wrexham a Vale Park fino a Bristol, tre episodi che dimostrano come a distanza di anni quello che doveva essere un modello di riferimento abbia perso efficacia. L’ultimo proprio ieri, nel giorno in cui in Italia il presidente del Coni Giovanni Malagò nel diluvio di considerazioni post Roma-Verona, ha messo in discussione l’utilità ma soprattutto la civiltà dei biglietti nominali che erano stati uno dei punti cardine delle disposizioni del Viminale prima della Tessera del Tifoso. L’auspicio è che presto certi provvedimenti vengano rivisti e la tdt possa essere messa in un cassetto quanto prima da chi l’ha imposta o sottoscritta. 

(altre foto e video qui)

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Newcastle-Sunderland, noia e disagio nelle crepe del ‘modello inglese’

Newcastle-Sunderland, ragazzo arrestato

Ragazzo arrestato durante gli scontri

di Benedetto Marchese (@dettobene)

Un brizzolato e robusto uomo di mezza età in maglia bianconera che sferra un pugno sul naso di un cavallo della Polizia. Può essere sufficiente questa immagine per parlare di un ritorno degli hooligans nel calcio inglese?. Ai quotidiani e media britannici basta e avanza visto il grandissimo risalto dato nelle ultime ore a quanto è successo domenica all’esterno di St.James Park a Newcastle dove i padroni di casa sono stati sconfitti per 3-0 nel sentitissimo derby contro il Sunderland di Paolo Di Canio, vittorioso in trasferta dopo 13 anni.

Dopo il fischio finale dell’arbitro Webb infatti un gruppo di tifosi locali, prima una cinquantina e dopo almeno trecento, si è radunato sotto la tribuna per attendere l’uscita dallo stadio dei “Mackems”, al termine della partita più attesa contro gli odiati rivali biancorossi, nella città del Tyneside che avevo avuto il piacere di scoprire nella scorsa stagione 

Nel percorso da Gallowgate Road e nelle vie limitrofe fino alla stazione, ci sono stati momenti di tensione e tafferugli con la Polizia che in più di un’occasione ha dovuto caricare con i cavalli per disperdere la gente. Ieri attraverso un comunicato stampa il Newcastle United ha espresso “imbarazzo e sgomento” per quanto accaduto, annunciando la diffida a vita per i tifosi coinvolti. Ventisette in tutto (di cui cinque prima del match e otto durante i novanta minuti) quelli arrestati dalla Polizia che ha impiegato più di due ore per riportare ai treni gli ospiti, blindati da ogni lato e sorvegliati dall’alto da un elicottero che per tutto l’incontro ha sorvolato l’affascinante impianto completamente sold out con i suoi 52mila posti a sedere. 

Arrivo in stazione dei tifosi del Sunderland

L’arrivo in stazione dei tifosi del Sunderland

Lancio di fumogeni dal settore ospiti

La rivalità fra le due città è fra le più antiche e sentite d’Inghilterra ed in passato non sono mai mancate scazzottate ed incidenti, ma quanto visto due giorni fa ha colpito particolarmente un’opinione pubblica che negli anni si era convinta di aver risolto il problema della violenza negli stadi, accorgendosi però con il passare del tempo di aver solo affievolito e delocalizzato il fenomeno, spostandolo nei pub e nelle aree di servizio, lontano da impianti sempre più cari ed inaccessibili alle classi più popolari. Giovedì per il ritorno di Europa League contro il Benfica il club aveva puntato su prezzi molto bassi per riempire lo stadio (impresa riuscita senza problemi dato che i Magpies possono contare su una delle tifoserie più fedeli ed affezionate ai propri colori), mentre per la sfida contro i “Black Cats” è tornato alle cifre abituali, nel mio caso 43 sterline per un posto in prima fila nella Leazes Stand. I problemi di Newcastle sono arrivati all’indomani di quelli di Wembley dove i tifosi del Millwall hanno ridato lustro alla propria fama scontrandosi con la Polizia dopo una lite scoppiata fra le proprie fila (le ipotesi parlano di uno spintone dato ad una bambina o di un regolamento di conti fra famiglie della malavita), che ha portato a quattordici arresti più altri due fra i supporters del Wigan che ha poi passato il turno di FA Cup. Intervistato dal Guardian in proposito, il Ministro dello sport Hugh Robertson ha espresso il proprio disappunto per l’accaduto a pochi mesi dalle Olimpiadi di Londra, chiarendo però di non credere ad un possibile ritorno di quella violenza che caratterizzò il calcio inglese negli anni Ottanta. Come riporta il tabloid, nello scorso campionato gli arresti sono calati del 24%, “ma -ha sottolineato Robertson- quanto successo nel weekend ha dimostrato che non ci si può distrarre” e il riferimento riguarda soprattutto la partita fra Inghilterra ed Irlanda in calendario il prossimo 29 maggio. In realtà le problematiche non mancano anche perché la sicurezza ha costi altissimi e non sempre giustificabili alla luce di una crisi economica che non ha risparmiato la Gran Bretagna alle prese con tagli pesantissimi in tutti i settori. Inoltre in questo contesto sta cambiando anche la mentalità dei tifosi, stanchi di essere solo “clienti” dei club costretti a rimanere seduti e a contenere esultanze ed emozioni, divisi in diversi settori dai prezzi degli abbonamenti, pronti a sgolarsi nei pub prima e dopo la partita ma a lungo silenziosi dentro gli stadi. Nella serata del ritorno di Europa League, la maggior parte dei bianconeri è rimasta indifferente all’esultanza dei sostenitori portoghesi nel loro settore. Chi si è lamentato con gli steward per le provocazioni ha avuto come risposta solo qualche alzata di spalle. Contraddizioni di un ‘calcio moderno’ (a proposito, da seguire il gran lavoro dei ragazzi di Stand AMF) che comincia a mostrare alcune crepe, delle quali qualcuno approfitta: in alcune realtà sono nati veri e propri gruppi ‘ultras’ con striscioni ed organizzazione precisa, mentre sulle gradinate cominciano ad entrare torce e fumogeni, utilizzati al St.James in entrambe le occasioni (domenica uno è stato lanciato fra i tifosi locali ferendo un ragazzo disabile), dato che all’entrata non ci sono perquisizioni. Un cambio di mentalità che in modo lento ma graduale si sta facendo strada in un modello troppo rigido e statico. Una minoranza destinata a crescere e che, non necessariamente con la violenza, tenta di riprendersi il proprio calcio. 

Newcastle-Sunderland

Tifosi del Newcastle si radunano all’esterno dello stadio

Tifosi del Newcastle fronteggiano la polizia

Cori e insulti davanti alla Polizia

Avendo visto da molto vicino quanto accaduto al termine di Newcastle-Sunderland mi sono fatto però un’idea leggermente diversa rispetto a quella dei media britannici che hanno abusato della parola ‘hooligan’ enfatizzando quanto accaduto nel derby nel Nord e nella semifinale di coppa nazionale. Molte delle persone che hanno dato vita ai tafferugli però allo stadio non sono nemmeno entrate, hanno iniziato a bere nei pub ben prima del fischio d’inizio -fissato alle 12 proprio per evitare l’abuso di alcol- e si sono ritrovate davanti allo stadio alla fine. Nelle prime file del gruppo che ha fronteggiato la Polizia c’erano tantissimi bambini o ragazzi sotto i 15 anni. Giovanissimi delle ‘generazione JD’ con trainers e tuta d’ordinanza, cresciuti noiosamente fra smartphone e tv in una città che trent’anni fa aveva visto partire molti dei suoi figli in cerca di lavoro a Londra o nella vicina Edimburgo ed ora è nuovamente alle prese con problemi occupazionali. Ragazzini attirati più dalla voglia di farsi qualche risata e un po’ di casino che non dal desiderio di difendere i propri colori come facevano i loro padri. Vicino a loro casuals malinconicamente vestiti tutti allo stesso modo e con il medesimo taglio di capelli. Decine di replicanti di uno stile diventato moda collettiva con ampio sfoggio di marchi come Adidas, Stone Island, Fred Perry o North Face. Tutti mescolati a curiosi e tifosi con le magliette di Ben Arfa e compagni, pronti a correre da una parte all’altra della città per insultare i rivali e la Polizia.  

Prime cariche dei cavalli

Newcastle-Sunderland, polizia a cavallo

Cavalli circondati dalla folla

Newcastle-Sunderland

Alle spalle del gruppo

Una massa variegata e disordinata, senza leader, molto diversa da quella che ci si potrebbe aspettare in Italia in una situazione analoga. Campione di una società che soffre gli effetti della crisi e di una sottile repressione quotidiana che inizia a creare disagio. Un’inquietudine che la Polizia sembra voler studiare proprio confrontandosi direttamente in occasioni come quella di domenica, con i tifosi lasciati fin troppo liberi di muoversi e controbattere, contenuti senza troppa fatica e mai entrati in contatto con gli ospiti. Un modo di agire completamente diverso da quello a cui siamo abituati, molto più permissivo nelle azioni -non ho visto una manganellata in tutto il pomeriggio- ma allo stesso tempo rigidissimo nelle reazioni come hanno dimostrato i 27 arresti, un numero visto raramente da noi in una sola giornata per simili fatti di piazza. 

Tifosi del Newcastle

Tutti si spostano per seguire il percorso degli ospiti nella strada parallela

 

I bambini seguono il gruppo

I bambini seguono il gruppo

Carica della polizia
Altra carica della Polizia

Una gestione dell’ordine pubblico da studiare e perfezionare nel calcio per poi essere applicata nelle strade che due anni fa furono teatro dei riots partiti dal Nord di Londra. Protagonisti gli stessi giovani dal futuro incerto, privi dell’adrenalina e degli stimoli che all’epoca della Thatcher contribuirono a creare una movimento molto influente in grado di dare vita ad una vera e propria sottocultura. Un’eredità sbiadita da una repressione che ha spremuto emotivamente ed economicamente i tifosi, spegnendo la passione lasciando solo noia e rabbia.

 

Newcastle-Sunderland

Altri lanci di bottiglie e sassi, incendiato un cassonetto

Newcastle-Sunderland

Un bambino osserva i tafferugli, ai suoi piedi un sasso lanciato poco prima

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Quartograd: un altro calcio è possibile

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Scudetto claret & blue, martelli incrociati e un pallone di cuoio. No, questo non è il West Ham e Londra è lontanissima ma a Quarto, sobborgo flegreo a nord-ovest di Napoli, il club della working class per antonomasia ha ispirato un gruppo di ragazzi che con pochi mezzi e tanta passione ha dato vita al progetto “Quartograd”. Una squadra dilettantistica iscritta al campionato di Terza Categoria, fondata su valori come l’aggregazione sociale e l’antirazzismo; un progetto in antitesi al ‘calcio moderno’ e ai suoi meccanismi legati al business e alla vittoria ad ogni costo. Bandiere No Tav, striscioni su Cucchi, Aldrovandi e Paolo Scaroni, o di sostegno alla Palestina, accompagnano ogni settimana i giocatori del Quartograd che domenica a Marano saranno attesi da un scontro al vertice contro la squadra locale.

Dopo aver scoperto questa bella realtà grazie al grandissimo lavoro dei ragazzi di Sportpeople, ho chiesto al presidente dell’associazione Giorgio Rollin di raccontare la storia di questo club che si batte per i veri ideali del calcio.

Nel desolante panorama italiano il ritorno ad un ‘calcio popolare’ rappresenta qualcosa di significativo, come nasce Quartograd e qual è l’origine del nome?

L’A.S.D. Quartograd, nasce ufficialmente il 26 di Giugno del 2012, ma le sue radici gettano le basi molto lontano. Era Gennaio del 2010 quando un gruppo di compagni appartenenti alla Sezione di Quarto (Na) del Partito dei C.A.R.C. acronimo di Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo, dava vita alla “I Edizione del Torneo Antifascista e Antirazzista di calcio a 8”. Doveva essere un gioco e un modo per racimolare un po’ di soldi per i compagni imputati in vari processi (Lotta al Fascismo, per aver partecipato alle lotte ambientaliste antidiscarica ecc). L’Antifascismo e l’antirazzismo era ed è ancora la discriminante fondamentale per prendere parte al Torneo, insieme al desiderio e alla voglia di allontanarsi da un calcio che oramai è sempre più marcio e lontano dalla gente comune, quella che la mattina si alza e va a lavorare e senza lavorare non può stare. In un Paese che va a rotoli è inconcepibile che quattro privilegiati prendano milioni di euro per correre e divertirsi dando calci ad un pallone, insomma oramai il tanto odiato calcio moderno non è nient’altro che un’industria di soldi, in cui si specula sulla popolarità di quello che è secondo noi uno degli sport più belli al mondo e sulla passione di centinaia di migliaia di persone.  Convinti che questo, come tutti gli sport di squadra, abbia un ruolo sociale e pedagogico fondamentale, nell’educazione di ogni individuo decidemmo di imbatterci in questa impresa. Alla I Edizione del Torneo parteciparono 8 squadre, per un totale di 150 ragazzi, che si fronteggiarono sui campi di via Learco Guerra (dove svolgiamo tutt’ora il Torneo), da quell’esperienza l’idea di riproporlo nel periodo estivo di quell’anno (iniziare a Maggio e finire ai primi di Agosto).

La II Edizione fu un vero e proprio successo, il numero di partecipanti raddoppiò mentre la partecipazione al Torneo divenne sempre più popolare variopinta e massiccia: la nostra cittadina incominciò a dividersi in fazioni che tifavano per una piuttosto che per l’altra squadra, una serie di giornali locali si interessarono al fenomeno facendoci un po’ di pubblicità. Nella III Edizione il Torneo Antifascista di Quarto diventava un vero e proprio campionato parallelo a quello della Serie A (iniziò a Gennaio e finì ad Agosto) 20 squadre tutti contro tutti in un unico Girone all’Italiana, 400 gli iscritti, centinaia i Tifosi; un programma settimanale, autoprodotto che intervistava i protagonisti della settimana e faceva vedere la sintesi delle partite, 50° Minuto, in ricordo del “nostalgico” 90°Minuto (perché a calciotto i tempi sono due da 25’Minuto); un collettivo di gestione diviso in diverse commissioni.

Un Account FB e un canale Youtube, pubblicizzavano la cosa sulla rete, avevamo raggiunto il nostro salto di qualità definitivo, da cosa ristretta ad un gruppo di compagni e amici, stavamo arrivando praticamente a tutto il territorio Flegreo, non vi erano più solo squadre di Quarto, ma praticamente da tutta la provincia di Napoli.

Da Quest’esperienza ci venne in mente di fondare una vera e propria squadra da iscrivere in un Campionato Ufficiale (FIGC III Categoria di Napoli), per iniziare a portare la nostra esperienza a contatto con altre realtà, in modo tale da poter “infettare” con il nostro progetto, quante più persone e contesti nuovi possibili.

Così, partendo dai giocatori che partecipavano al Torneo, organizzammo uno stage per selezionare la rosa della squadra; in 80 si sono presentanti allo stage e la scelta (presa da una commissione tecnica) è stata davvero difficile. A quel punto dovevamo solo scegliere il nome della nascente Associazione Sportiva Dilettantistica, altra scelta molto ardua e difficile, scegliemmo dopo diverse discussioni e anche qualche litigata il nome di Quartograd. Il riferimento è a ovviamente a Stalingrad, in quanto eravamo tutti d’accordo che “come a Stalingrado non passarono i Nazisti, sui campi in cui gioca il Quartograd non passeranno il Fascismo, il Razzismo e l’odio verso il diverso”, fu questa considerazione a mettere tutti d’accordo.

Il discorso può essere esteso alle gradinate: nelle categorie superiori tessere e divieti hanno contribuito a spegnere la passione dei tifosi, voi invece riuscite a portare gente allo stadio, soprattutto in trasferta e ad utilizzare gli striscioni come efficace mezzo di comunicazione. Quanto è importante all’interno del progetto il sostegno dei tifosi che vi seguono? 

Il Collettivo di Tifosi che segue il nostro progetto è importante quanto la squadra e il collettivo dirigenziale. Da subito abbiamo deciso d’impostare l’asd in modo tale che alle riunioni in cui decidiamo le linee di sviluppo del progetto, oltre ai compagni che partecipano al collettivo dirigenziale, prendono parte anche due componenti della squadra e un rappresentante della tifoseria; ciò va praticamente controtendenza rispetto a quanto siamo abituati a vedere oggi nelle altre società. Qui tutti sono fondamentali e possono dire la loro; squadra, tifosi e dirigenza sono tre collettivi che mensilmente si confrontano e dibattono su problematiche e difficoltà affrontate durante la settimana.

Il Quartograd è riuscito a coinvolgere in questo modo una cittadina intera; siamo in III Categoria e quindi rappresentiamo gli ultimi degli ultimi del calcio dilettantistico ma ogni domenica sui gradoni degli stadi in cui giochiamo (quando ci sono) vi sono almeno cento persone che assistono alle nostre partite: giovani, pensionati, disoccupati, casalinghe, mogli dei calciatori, madri, figli, tutti insieme a supportare con la loro presenza un progetto che sentono proprio.

Per anni il calcio è stato utilizzato da chi di dovere per mettere masse contro masse, per alimentare una guerra tra poveri; noi invece dimostriamo che è possibile rigettare al mittente ogni tentativo di dividerci e utilizzare anche il tifo in modo diverso. Lanciando appelli, sostenendo campagne (come quella per i numeri identificativi sulle fdo) o denunciando abusi (Caso Cucchi) oppure prendendo posizioni (Corteo Contro la Repressione di Teramo). I nostri nemici non sono certo i ragazzi che incontriamo sui campi in cui andiamo a giocare, loro al massimo sono delle vittime delle stesse contraddizioni che ogni giorno viviamo noi in questa società; i nostri nemici dichiarati sono piuttosto coloro che ci costringono ogni giorno a vivere in territori sempre più devastati da politiche antipopolari di devastazione e saccheggio, di abbrutimento morale, sociale ed economico, in cui regnano disoccupazione, mancanza di servizi e di diritti fondamentali (istruzione, sanità, mobilità, casa ecc). Il Quartograd ha dato un esempio concreto da questo punto di vista: le masse popolari autorganizzate possono tutto, anche senza proprietari, presidenti e padroni che le comandano. Dobbiamo essere un esempio per quanti oggi giorno non ne possono più, di pagare sulla propria pelle il prezzo di politiche scellerate di macelleria sociale attuate dai vari Governi, solo uniti, collettivizzando anche i problemi possiamo distruggere il nostro nemico. Hai bisogno di una casa? Organizzati in un comitato e occupala. Hai bisogno di un lavoro? Organizzati in liste dei disoccupati con altri e lotta per ottenerlo. Hai bisogno di spazi di aggregazione? Organizzati con altri giovani e occupa.

Quartograd rappresenta forse anche a livello europeo uno degli esempi più efficaci di contrasto al ‘calcio moderno’, tema molto attuale soprattutto in Inghilterra dove il processo di cambiamento del football è iniziato con largo anticipo. Secondo te cosa possono fare i tifosi per invertire questa tendenza per rimettere in primo piano gli aspetti più affascinanti di questo sport?

Penso ad una campagna reale, che potrebbe e dovrebbe partire a livello nazionale tra quanti realmente non ne possono più e vorrebbero ripartire da quelli che sono le radici di questo bellissimo sport, iniziando dai tifosi e dagli appassionati che in questi anni sono stati umiliati dagli scandali e dalla repressione.  Potrebbero ragionare su un vero e proprio boicottaggio del cosiddetto calcio che conta, quello in cui girano i soldi, bloccare l’economica mettendo un vero e proprio freno a tutto. Mi spiego meglio: Aumentano i biglietti e le norme di restrizione per l’acquisto ? Non andare piu’ allo stadio. La Pay Tv ? Boicottala, oppure invece di fare 50 abbonamenti, ne facciamo uno e guardiamo tutti la partita insieme. Se ami questo sport, non scommetterci su, ogni euro dato allo SNAI è una coltellata al pallone di cuoio. Hanno capito che sulla passione dei tifosi si può lucrare, e per tale motivo stanno cercando di spolparci fino in fondo. Cosa farebbero se improvvisamente si svuotassero gli stadi e si riducessero del 50% scommesse e abbonamenti alla PAY- TV?. Agli appassionati veri, dico: ricominciate dalle origini, dai campi di periferia, quelli di terra battuta, in cui fango e sudore si mischiano in uno strano tanfo e dove non esiste alcuna gloria se non quella di urlare goal.

Al di là dell’aspetto strettamente calcistico cosa chiedete a giocatori e staff tecnico e come finanziate il progetto?

Ai nostri ragazzi, chiediamo di tradurre in campo, i valori e gli ideali che ogni giorno noi portiamo nelle strade, nelle piazze e negli stadi. A loro infondo è affidato il compito più arduo e difficile, quello di competere, agonisticamente e dimostrare che “Un Altro Calcio è Possibile”. Il progetto si autofinanzia tramite, cene, feste e attraverso donazioni di singoli, piuttosto che attraverso una quota mensile di 20€ che versano i calciatori. Abbiamo fatto delle Tessere di Sostegno Economico al progetto, una sorta di abbonamento che però non serve ad accedere allo Stadio (l’ingresso è gratuito e aperto a tutti), ma finanziano il Quartograd.

Quartograd non è solo calcio ma anche impegno sociale e aggregazione. Un punto di riferimento per i giovani in un territorio in cui insidie e problemi non mancano. Quali sono state in questo senso le difficoltà incontrate fino ad ora?

Le difficoltà sono tante, da trovare strutture che ci ospitano senza speculare sul nostro modo “diverso” di fare sport, fino al far capire a tutti di dover contare solo ed esclusivamente sulle proprie forze per andare avanti. Intorno a noi ci c’è chi lavora e chi studia anche se molti purtroppo sono disoccupati. In questo contesto le contraddizioni sono molteplici, noi cerchiamo di trattarle con un unico spirito, cerchiamo di essere inclusivi anche facendo le scelte più difficili, condividendo le decisioni e cercando di stimolare sempre il dibattito e il confronto tra le parti. Le nostre vittorie sono l’aver creato il confronto fra ragazzi che prima di questo momento mai si sarebbero sognati di partecipare ad un’assemblea di autogestione, piuttosto che coinvolgere e stringere legami con altre realtà, una su tutti i ragazzi di Frattaminore che dopo aver giocato contro di noi e aver conosciuto la nostra esperienza, hanno deciso di portare avanti una mobilitazione popolare sul proprio territorio per farsi affidare il campo comunale. Lo spirito di gruppo è un’altra vittoria fondamentale, come l’aver portato in III Categoria ragazzi che si sono completamente allontanati dal mondo del calcio perché nauseati dal marcio che ci gira intorno o che al contrario hanno giocato in Campionati di Eccellenza, Promozione, Serie D o ancora nelle giovanili di squadre professionistiche.

Dopo pochi mesi di attività il campionato sta andando alla grande e il progetto funziona, quali sono i prossimi obiettivi e dove vogliono arrivare Quartograd e la sua gente?

Vogliamo crescere e iniziare a muoverci sulle nostre gambe. Vorremo iniziare a lavorare con i bambini, spiegare a loro quello che noi abbiamo imparato durante il nostro percorso di vita: m’immagino una Scuola Calcio Popolare, in cui a secondo della propria condizione sociale le famiglie pagano una retta d’iscrizione per sostenere il progetto. Allargarci anche ad altre discipline, iniziare a sviluppare un principio ad ampio raggio di Sport Popolare, e per Tutti, magari creare una Polisportiva, curare il corpo insomma ossia curare il proprio equilibrio psico-fisico. Avanti Quartograd!

Torneo antirazzista

Tifosi Quartograd

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Il primo gol di Tony Hibbert. We riot

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Dopo più di 300 partite con la maglia dell’Everton senza averla mai buttata dentro, Tony Hibbert ha scelto la giornata più importante, durante il ‘testimonial’ a lui dedicato, per segnare il suo primo gol con i Toffes. Nella sponda meno vincente del Merseyside infatti Hibbert è un pezzo di storia, nato ad Huyton nei sobborghi di Liverpool, ha sempre vestito la maglia blu, dalle giovanili fino alla prima squadra di cui fa parte dal 2001. Un’intera carriera dedicata all’Everton di cui il terzino è diventato una vera e propria bandiera nonostante le poche soddisfazioni sportive per un club che ha dovuto spesso assistere ai festeggiamenti degli odiati Reds. Giocatore generoso ed affidabile che in tutti questi anni non aveva mai provato la gioia di segnare un gol da festeggiare con i suoi tifosi. Un’astinenza diventata record nel 2009 quando era rimasto l’unico giocatore di Premier con il più alto numero di partite senza reti e sintetizzata dai tifosi nello striscione “If Hibbert Scores, We Riot” esposto in una gara di FA Cup. Tifosi che sono stati di parola nei giorni scorsi, durante la partita contro l’Aek Atene in cui sono stati celebrati i dieci anni di militanza di Hibbo nell’Everton. Sul 3-0 per i padroni di casa dopo la tripletta di Naismith, il tecnico Moyes ha fatto battere una punizione dai venticinque metri al suo numero 2, invocato da tutto il leggendario Goodison Park. Destro rasoterra a fil di palo e palla in rete con la complicità del portiere. 309 partite e primo gol di Tony Hibbert, nella sua partita, nella sua notte di gloria. “Una favola” come lui stesso l’ha definita, dopo l’abbraccio dei compagni e quello di decine di tifosi che hanno lasciato il proprio posto in gradinata e si sono riversati in campo per andare ad abbracciare il proprio idolo. Un’invasione pacifica, emozionante, attesa per più di dieci anni per ringraziare l’uomo che ha scelto di legare la sua carriera ad una sola squadra, ai suoi colori e alla sua gente.

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We are the Geordies. Il derby Newcastle-Sunderland

di Benedetto Marchese (@dettobene)

Dopo alcuni precedenti nella capitale la prima esperienza con il calcio inglese lontano da Londra è a Newcastle per il derby locale con il Sunderland che due volte l’anno esalta l’eterna rivalità fra le due città. L’occasione è il primo weekend di marzo, con la complicità di un Geordie adottato dalla Curva Ferrovia ed alcuni compagni di tante trasferte su e giù per l’Italia al seguito degli aquilotti. L’arrivo è proprio nella City, prima del trasferimento in treno più su a nord, dopo aver attraversato campagne, colline e città dall’atmosfera molto più raccolta rispetto a quella appena lasciata alle spalle. Ad accogliere vecchi e nuovi visitatori nel Tyneside è “L’angelo del Nord” una gigantesca scultura in ferro dell’artista Antony Gormley situata alle porte di Newcastle, ultimo grosso centro urbano prima del confine con la Scozia.

Il primo impatto con la città è ottimo: ben curata, viva e raccolta in un centro nel quale sono ancora riconoscibili i segni della presenza dei Romani che la fondarono e le diedero il nome attuale. Ma a richiamare l’attenzione è soprattutto l’attesa febbrile per quella che di fatto è la partita più importante dell’anno per l’unica squadra cittadina seguita con grande attaccamento. Una vigilia vissuta in un sabato sera dal tasso alcolico altissimo, che finisce per riprendere allo stesso modo il giorno del match. Per motivi di sicurezza infatti il kick-off è fissato alle 12.00 quindi già alle 9 i pub sono imballati di tifosi che tra una birra e l’altra provano a domare la tensione. In stazione arrivano anche gli odiati rivali del Sunderland, duemilasettecento, i quali scortati da un imponente servizio d’ordine arrivano a piedi fino allo stadio in coincidenza con il grosso dei supporters bianconeri. In Gallowgate Road i due gruppi camminano a pochi metri di distanza, divisi solo dalla Polizia e lo scambio di insulti, cori e sfottò è inevitabile, qualcuno prova anche rompere i cordoni ma viene respinto dai cavalli. Le divise fluorescenti degli agenti spiccano fra l’abbigliamento impeccabile dei lads di ambo le parti con immancabili trainers Adidas, giacconi Stone Island e Barbour, anche se molti, nonostante il freddo si limitano ad indossare camicie e maglioni. Sguardi di sfida ed adrenalina a mille per circa cento metri, prima che Mackems e padroni di casa raggiungano i propri settori. Rispetto a quando accade a Londra spicca l’assenza di italiani ad eccezione dei ragazzi del club Newcastle di Bergamo arrivati appositamente per la partita.

Al fischio d’inizio mancano pochissimi minuti ma le procedure d’ingresso sono come sempre brevi ed essenziali: nessuno ti chiede documenti o tessere né ti perquisisce; agli steward non interessa il nome riportato sul biglietto, ma solo che il codice a barre venga letto regolarmente dallo strettissimo tornello. Una volta all’interno ci vogliono pochi secondi per trovare il proprio posto nel Sir John Hall Stand, nella parte più nuova di uno degli impianti più antichi di tutta l’Inghilterra con i suoi 52mila posti a sedere e perfettamente inserito nel cuore della città. Nella struttura di vetro ed alluminio rimbombano i cori che accolgono in campo le due squadre e si fanno sentire anche gli ospiti i quali non mancano di sottolineare con ironia la svolta “commerciale” del presidente del Newcastle che recentemente ha cambiato il nome allo stadio sostituendolo con quello della catena Sport Direct di sua proprietà, raccogliendo il comprensibile sdegno dei tifosi del club. Agli sfottò dei rivali i Magpies rispondono mostrando la mano ben aperta a simboleggiare i cinque gol inflitti nel memorabile derby dell’ottobre 2010 e sventolando decine di mazzi di chiavi il cui suono ricorda l’accento degli avversari. Battaglia verbale sugli spalti e calci veri in campo dove Cattermole viene ammonito dopo un solo minuto. Entrate dure favorite anche dalla pioggia battente e molta tensione, con gli ospiti che partono meglio e al ventiquattresimo sbloccano la partita. Williamson atterra Turner in area e l’arbitro Dean fischia il calcio di rigore che Bendtner trasforma nonostante il tuffo dell’ottimo Krul. Il Newcastle prova subito a reagire ma Demba Ba non è Shearer e su azione d’angolo colpisce la traversa di testa mentre poco dopo i padroni di casa reclamano anche un rigore. Nell’intervallo Pardew scuote i suoi togliendo anche lo spento Santon, tornato su ottimi livelli in Premier League, ed affidandosi al talentuoso Ben Arfa per cercare di rimettere in piedi l’incontro. Il francese prende per mano i suoi che riescono a schiacciare nella propria metà campo i ragazzi di O’Neill, rimasti anche in dieci dopo l’espulsione di Sessegnon.

La rincorsa del Newcastle viene finalmente premiata quando la bandiera del club Shola Ameobi, entrato da poco, cerca ed ottiene un calcio di rigore. Ad otto minuti dalla fine St.James trattiene il fiato ma Ba sciupa tutto facendo fare bella figura a Mignolet che si distende e para. Il boato degli ospiti equivale ad un gol e sembra spegnere l’entusiasmo del resto dello stadio. Una delusione che si trasforma però in bolgia quando al secondo dei cinque minuti di recupero proprio Ameobi anticipa tutti e segna il suo settimo gol in carriera ai “Black cats” che vedono così svanire il sogno di una vittoria esterna nel derby. Il Newcastle prova addirittura ad inseguire l’incredibile raddoppio trascinato anche dalla sua gente ma l’1-1 finale vale quanto una vittoria sia per i giocatori che per i supporters che fra solidi abbracci e pugni chiusi al cielo si rivolgono ai rivali ammutoliti con tutto il repertorio d’insulti del caso.

Il deflusso dall’affascinante impianto è rapido e festoso mentre i Sunderland escono solo dopo circa mezz’ora, scortati dalla Polizia che in alcuni momenti fatica ad evitare contatti pericolosi. Così mentre gli ospiti fanno ritorno in stazione il centro di Newcastle si ripopola nuovamente dell’entusiasmo e dell’inesauribile sete dei suoi tifosi, fra sorrisi e cori che esaltano l’orgoglio Geordie e la passione per i propri colori.

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Il romanzo di Bearzot e un calcio che non c’è più

 

di Benedetto Marchese

“Con grande affetto,la bella storia di un galantuomo”. La firma sotto la dedica è quella di Gigi Garanzini, mentre il libro è “Il romanzo del Vecio. Enzo Bearzot, una vita in contropiede” scritto qualche anno fa dal giornalista biellese, estimatore ma soprattutto grande amico del ct campione del Mondo che se n’è andato oggi all’età di 83 anni. Stamani appena letta la notizia mi è subito venuto in mente quel libro, ricevuto dallo stesso Garanzini conosciuto in occasione di una presentazione due anni fa. Non avendo vissuto quel periodo, avevo un anno e mezzo quando Bearzot alzava la Coppa del Mondo nelle notte di Madrid e Martellini entrava nella storia del giornalismo televisivo, ho sempre ritenuto a torto quel periodo troppo lontano dal mio percorso calcistico, lasciando di conseguenza il libro per lungo tempo abbandonato in una delle ricchissime librerie di famiglia, prima di recuperarlo oggi per un viaggio in treno. Certo, i racconti di mio padre e mio fratello, o gli aneddoti svelati in cene indimenticabili con Gianni Mura, Rivera, Sconcerti o lo stesso Garanzini, hanno sempre tenuto vivo l’interesse e il fascino di quel calcio troppo lento e lontano per uno delle mia generazione cresciuto in un pallone tutto tattica e muscoli. Non abbastanza però da spingermi ad approfondire la storia di un personaggio che ha scritto una pagina di storia che va al di là del semplice aspetto sportivo, perché nata in un’epoca nella quale rapporti umani e passione venivano molto prima degli aspetti economici e d’immagine. Forse è per questo motivo che in tutti questi anni, nonostante l’invadenza mediatica del pallone sono praticamente spariti gli spazi dedicati a personaggi come Bearzot. Ricordo alcune puntate del Processo del Lunedì proprio di Garanzini, appuntamento fisso ad orari improbabili ma con ospiti eccezionali, e pochissime altre occasioni nelle quali moviola, panchine traballanti o fantasiosi colpi di mercato, hanno lasciato spazio a protagonisti di quel calcio fatto di ali dal dribbling infallibile, ruvidi ma invalicabili stopper o bomber leggeri come piume. “Un bell’esmplare davvero, il vecchio Bearzot, di razza purissima -scrive nell’introduzione Indro Montanelli- non mi stupisce affatto che oggi il mondo del calcio lo abbia accantonato, non solo perché anche in quel campo parlar chiaro e rifuggire dai compromessi non aiuta a far carriera: ma soprattutto perché il pallone dei giorni nostri ha preso strade molto diverse dalla sua”. Strade che lasciano poco spazio ai sentimenti, ad eccezione di quelle che portano ai ricordi di chi ti sta vicino o di chi hai la fortuna d’incontrare sulla tua di strada, quella che insegue un pallone e si ferma a guardare con curiosità e passione tutto ciò che gli gira intorno.

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Dieci anni per capire e conoscere un’emozione

di Benedetto Marchese

Una partita di Seconda Divisione, sei minuti di Nazionale e ancora Serie A e Premier League, tutto nel giro di pochi giorni. Diversi scenari ma stessa passione da assecondare, nata quasi per caso poco più di dieci anni fa in una Curva Ferrovia insolitamente colorata di azzurro nel play off contro il Rimini. Primi intensi contatti con quello che negli anni successivi sarebbe diventato il collante per innumerevoli esperienze di vita, amicizie, lavoro e la consapevolezza di guardare quel pallone, calciato da campioni milionari o brocchi squattrinati, sempre con occhio affascinato e rapito da tutto quello che sta intorno al rettangolo verde. Interesse nato in famiglia, con gli amici in piazza sognando di fare gol come questo o quel campione dalla maglia a strisce che nel corso degli anni si sono allargate, fino rimanere di un bianco denso di emozioni e significati. Curiosità cresciuta con i racconti di un fratello tifoso e le prime domeniche al Picco, sporadiche inizialmente e via via sempre più regolari, fino a diventare passione vera, in certi casi “malattia”, pensiero fisso con il quale far convivere tutti gli altri, più o meno importanti ma sempre dettati dall’incombenza della partita, la domenica o durante la settimana, notturna o pomeridiana che fosse. Dieci anni di vita spesso condizionati da orari ed umori, vittorie e sconfitte, comprensione di chi ha imparato a sopportare inspiegabile euforia o inconsolabile tristezza; ma anche complicità da parte delle tante persone incontrate sulla stessa strada, nello stesso girone dei dannati del calcio. Vicini di gradone, di pullman o di treno, perfetti sconosciuti divenuti amici speciali col passare del tempo, compagni di viaggi impossibili ed episodi irripetibili; sotto il sole di Crotone o la neve di Pizzighettone, nel diluvio di Bologna o nel caldo di Napoli, nel vento di Marassi o nel pomeriggio perfetto di un primo maggio a Padova. Gente con la quale hai pianto senza vergogna, trovando sempre un abbraccio più significativo di ogni parola, o con cui hai condiviso gioie e momenti di felicità che nient’altro potrà mai darti. Ognuno con il proprio personalissimo modo di vivere la tensione della partita o le fatiche di un viaggio, ma tutti con la stessa fede scritta sul cuore spesso messo a dura prova da una squadra sempre in bilico fra disfatte ed imprese. Impiegati e studenti, disoccupati e negozianti, operai, businessman, tutti uguali con una sciarpa al collo ed un filo di voce, in mezzo ai lacrimogeni come nel fumo e nelle luci di una coreografia; nella notte di Cesena, in Sala Dante con la mano al portafoglio, a Vico Equense, nel corteo per la promozione in serie B o sui binari ferroviari prima di Spezia-Genoa. Persone alle quali devi tantissimo, per tutto quello che hanno saputo darti e per la semplicità con la quale ti hanno ceduto un posto in macchina o un panino, facendo il possibile per rimediarti un biglietto o, molto più semplicemente, per averti insegnato a guardare il calcio dall’angolazione meno comoda ma più reale e viva. Quella disordinata e non omologabile, appresa senza tessere e televisioni ma trasmessa con gli sguardi, le espressioni e le emozioni, con la giocata in secondo piano e l’attenzione rivolta a quello che c’è fuori dal campo, all’esterno dello stadio; le strade, i palazzi e le persone delle altre città. Un modo di vivere e pensare il calcio che non cambia con il passare del tempo o le diverse abitudini ed esperienze personali, facendoti vivere la quotidianità con maggior sicurezza e serenità.
Una passione raccontata anche qui, con lo stesso spirito, da dieci anni a questa parte.

(Pubblicatosu www.cittadellaspezia.com il 18/11/2010)

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Ivan, la Tessera e le colpe di chi non vuole responsabilità

di Benedetto Marchese (pubblicato su Cittadigenova.com il 14/10/2010)

Maroni contro Vincenzi, Abete contro Blatter, Governo italiano contro quello serbo. A due giorni dai fatti di Marassi il confronto dialettico sembra non avere fine, fra reciproche accuse di “scarsa comunicazione” e “leggerezza” nella gestione del caso. Niente di nuovo in casi come questi, nei quali molti hanno responsabilità ma nessuno sembra in grado di prendersi colpe per quanto accaduto. Il tutto di fronte ad una città che ancora una volta ha vissuto sulla propria pelle ore di tensione e violenza, ed è nuovamente costretta a fare i conti con danni economici inattesi. Al bilancio dei danneggiamenti, dei feriti e degli arrestati, alla frettolosa corsa a rilasciare dichiarazioni di sdegno e condanna, o più semplicemente al rimbalzo di responsabilità da una parte all’altra, va inoltre aggiunto anche il comprensibilissimo disappunto di chi è arrivato da ogni parte d’Italia per assistere a sei minuti di calcio e due ore di surreale immobilismo organizzativo mentre i bengala volavano sul prato del Ferraris e delegati Uefa e Figc s’interrogavano sul da farsi.
Le assurde immagini del “terribile” Ivan e della sua milizia ultranazionalista hanno fatto il giro del Mondo, suscitando imbarazzo, sorpresa ma anche molte perplessità sulla gestione di una giornata che ha visto gli hooligans serbi agire indisturbati ma “controllati a vista” per le strade di Genova, prima che la situazione degenerasse nel piazzale di Marassi a notte fonda. In molti, frequentatori più o meno assidui di stadi e curve, si sono chiesti come abbiano fatto i teppisti ad entrare all’interno del Ferraris con un numero spropositato di bengala e fumogeni comprati anche in città; ad attraversare tutto il Nord Italia da un capo all’altro viaggiando con pullman carichi di bombe carta e torce sequestrate solo quando il peggio era ormai stato compiuto. Interrogativi più che leciti per chi da qualche anno a questa parte è costretto a fare i conti con trasferte contrassegnate da perquisizioni accuratissime in caselli e parcheggi periferici; a metter in preventivo di dover lasciare nello scatolone di turno accendini, portachiavi o tappini di plastica perché “atti ad offendere”; ultras o semplicemente tifosi abituati a fare i conti con biglietti nominali, movimenti limitatissimi e scorte severe ogni volta che si recano in una città che non è la loro. Abitudini che martedì sono incredibilmente venute meno per una delle frange più violente ed estreme del calcio internazionale.
Sia nel dopo partita che nelle dichiarazioni di questi giorni ha fatto un certo effetto sentir parlare di “violenza inaudita e inattesa” o “mancata intelligence” con la Polizia serba in merito all’arrivo di 3-400 personaggi abituati a ben altre efferatezze rispetto a quelle di due giorni fa. Era sufficiente vedere quanto accaduto nei giorni scorsi per le strade di Belgrado durante il Gay Pride, o ancora più semplicemente dedicare pochi minuti alla visione di video di Stella e Partizan su Youtube, per capire che i palestratissimi e tatuati serbi in tuta e scarpe da ginnastica non sarebbero arrivati a Genova per godersi l’insolito tepore di ottobre attorno alla fontana di De Ferrari. Lì, hanno invece potuto muoversi liberamente fra bottiglie di birra e scritte farneticanti, improvvisando il corteo che li ha portati fino allo stadio fra intemperanze e molta, troppa agilità di movimento. Quando poco dopo le 19.00 un gruppo è passato da Brignole, in molti avevano tubi di ferro e spranghe, bottiglie e torce da lanciare verso i passanti con un esiguo contingente di forze dell’ordine al seguito. Mentre al loro arrivo allo stadio hanno potuto confondersi liberamente in mezzo al pubblico di casa. Per parecchi minuti bar e biglietterie si sono riempite di serbi, molti dei quali nell’inadeguatezza delle indicazioni a loro destinate, si sono ritrovati ai tornelli della Sud, con tutto il tempo di nascondere nelle scarpe o nei pantaloni oggetti di ogni tipo prima di dirigersi verso il proprio settore.
Parlare di “stupore” o “sorpresa” per l’arrivo in città di un gruppo di persone già segnalate in una black list, in viaggio dal giorno prima e soprattutto in larga parte già in possesso, si presume, di un biglietto nominale, sembra quantomeno sorprendente per un Ministero che sta facendo della lotta alla violenza negli stadi uno dei suoi cavalli di battaglia, con decreti e provvedimenti restrittivi sia in termini di prevenzione che di gestione che prima, durante e dopo Italia-Serbia sono sembrati inefficaci. Come ampiamente prevedibile, è stata sottolineata l’importanza della tessera del tifoso che “avrebbe impedito” allo scatenato, e ora apparentemente pentito Bogdanov e alla sua banda, di conquistarsi così facilmente l’ambita vetrina internazionale per lanciare il proprio messaggio politico e propagandistico.
Al di là delle frasi di circostanza però resta indubbio che solo il divieto di assistere alla partita al gruppo in questione avrebbe evitato certi comportamenti che gli hooligans serbi avrebbero comunque compiuto anche se in possesso della famigerata tessera dato che si trovavano tutti contenuti nel settore ospiti, dotati di biglietto nominale regolarmente acquistato e sicuramente già schedati nel loro paese.
L’unica certezza alla luce di quanto accaduto, è stata l’iniziale sottovalutazione di un problema che poteva e doveva essere risolto ben prima della sospensione della partita o della guerriglia urbana nella notte di Marassi con la Polizia costretta al corpo a corpo con gli inesauribili energumeni serbi. Con un po’ più di attenzione da parte di chi mette in campo zelo ed intransigenza solo a fatto avvenuto, forse Genova avrebbe potuto godere di una meritatissima serata di calcio senza diventare involontaria protagonista dei giochi di potere e politica di chi a Belgrado non ne vuole sapere di entrare nell’Unione Europea.

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Il sogno di un popolo e il ragazzo che lo ha realizzato

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia il 15/06/2010)

Chiunque abbia perso almeno una volta la voce per sostenere lo Spezia dalla Curva Ferrovia ha sognato in chissà quante occasioni di correre fino a pochi centimetri dalla balaustra ed esultare per un gol. Guardare negli occhi i compagni di tante giornate passate a soffrire per la maglia bianca, di trasferte interminabili in giro per l’Italia; gli amici dei quali negli anni hai imparato a capire tensione, preoccupazione oppure entusiasmo attraverso uno sguardo o una parola. Corsa per un gol contro un’avversaria particolare o in una partita decisiva, prodezza da condividere con chi hai visto piangere per la delusione e gioire come nessun altro, chi ti ha regalato abbracci e momenti resi unici da un legame che va oltre la passione calcistica. Quel sogno, diventato quasi ossessione nella lunghissima vigilia iniziata dopo Legnano-Spezia, lo ha realizzato Alessandro Cesarini passato dai gradoni della curva all’erba del Picco senza perdere l’orgoglio ed il coraggio di chi a quella maglia ha dato e darà sempre tutto. La sua corsa da una parte all’altra del campo è stata quella di ognuno dei suoi tifosi, quelli che ha visto scaraventarsi dall’altro verso il basso man mano che si avvicinava al cuore del popolo spezzino. Ha urlato con loro, ha liberato la gioia per una doppietta impossibile da dimenticare per bellezza ed importanza; con due giocate da campione ha frantumato l’incubo dei play-off riscrivendo la propria storia e quella di una squadra che in due anni ha scalato le pareti dell’Inferno per tornare dove le compete. Tutto in dieci minuti, quando il tenace Legnano stava iniziando ad accarezzare il sogno dell’impresa e lo Spezia non riusciva a trovare la via del gol che avrebbe riacceso lo stadio. Fino al ventiquattresimo della ripresa infatti il Picco aveva vissuto la partita nella morsa della tensione, senza riuscire a fornire il proprio insostituibile contributo, fino a quando il ragazzo con la numero nove ha disegnato la palombella al centro dell’area dove Herzan ha trovato il fallo da rigore. Con l’incoscienza dell’età e la voglia di mettere il proprio nome su una giornata storica Alessandro Cesarini si è preso un pallone abbandonato da tutti e lo ha calciato, dopo una lunghissima attesa e con un po’ di fortuna, alle spalle di Furlan prima di lanciarsi nella prima folle corsa verso i propri tifosi, con il sottofondo di un urlo liberatorio che ha abbondantemente superato i confini del vecchio stadio. Eccolo lì il sogno che diventa realtà mentre l’eroe dei play-off si gode la sua prodezza e tu cerchi di conservare equilibrio e salute in una curva che sbanda di gioia. Anche gli ospiti capiscono che non è tempo per beffe ed amare sorprese, Legnano non sarà mai come Trieste, Como o Vico Equense, questo Spezia ha troppi conti in sospeso per cedere sul più bello. Questa gente deve dimenticare un fallimento, le trasferte improbabili della serie D e le difficoltà della Prima Divisione; questa gente ha una squadra ed un ragazzo che giocano con il cuore e merita tutto quello che novanta minuti, e non di più, possono regalare. Una perla ad esempio, come quella che s’inventa solo dieci minuti dopo ancora lui, ancora Alessandro Cesarini: esterno destro di prima intenzione, palla sul palo e poi in rete, come all’andata con Furlan spettatore immobile. La corsa questa volta è sfrenata, incontenibile come la gioia che in pochi secondi ti fa sentire finalmente lontano da tutto quello che hai vissuto fino a poche settimane fa, dilata le emozioni ed i minuti che non passano mai anche se la fine dell’incubo è ormai vicinissima. La vedi lasciandoti alle spalle Giaveno, Noceto e Ciriè, le amichevoli al Tanca e a Pietrasanta i “campi sportivi” e l’indifferenza della gente. Alla fine dell’incubo c’è la gente che in queste due stagioni è sempre rimasta al proprio posto sotto il sole o la pioggia, è lì e finalmente festeggia con gli eroi di questo Spezia: Lazzaro, Enow e tutti gli altri, compreso il ragazzo che continuerà a correre ancora a lungo sotto la sua Ferrovia.

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Niente tessera sono inglesi, un pomeriggio da tifoso in Premier League

Foto B.M.

Foto B.M.

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su cittadigenova.com e cittadellaspezia.com l’11/10/2009)

Biglietto rigorosamente nominale in una mano, carta d’identità nell’altra e perquisizione post tornello. Procedura ormai ordinaria per tutti i tifosi italiani che assiduamente seguono la propria squadra del cuore e che da gennaio si troveranno ad aver a che fare anche con la famigerata e tutt’altro che attesa tessera del tifoso. Non proprio l’approccio ideale per quello che dovrebbe essere esclusivamente un appuntamento di passione magari impreziosito da una vittoria o da una bella partita; una sensazione ancora più frustrante qualora capiti di ritrovarsi Oltremanica per una qualsiasi partita di Premier League. Uno degli innumerevoli derby di Londra ad esempio, quello fra il West Ham di Gianfranco Zola ed il Fulham di Roy Hodgson nel quartiere popolare di Newham nell’est metropolitano. Nel viaggio dal centro cittadino verso Upton Park, i vagoni della metro, col susseguirsi delle fermate si riempiono dei colori Claret & Blue dei tifosi che una volta a destinazione si riversano nella lunga Green Street che porta allo stadio e alla statua che celebra Bobby Moore e gli eroi del Mondiale del ’66. Niente a che vedere con le recenti immagini degli scontri con i rivali di sempre del Millwall o le imprese dell’aspirante hooligan Frodo-Elijah Wood; la strada è invasa dei supporters di casa il cui religioso percorso verso il Boleyn Ground casa del West Ham, è contraddistinto dalle tradizionali consuetudini: l’acquisto del match programme, la birra e l’hamburger con gli amici e la tappa obbligata fra bancarelle e negozio del club per gli ultimi arrivi del merchandising. Non manca quello griffato “Inter City Firm”, il materiale della gang che negli anni Ottanta portava scompiglio negli stadi di Sua Maestà ed ora è acquistabile proprio di fronte all’ingresso principale. Il rispetto della coda, sia essa per un panino o per una maglietta è essenziale, ma quella che porta ai botteghini colpisce per rapidità di scorrimento ed il motivo è spiegato appena arriva il proprio turno. I biglietti preventivamente acquistati sul sito ufficiale del club, tre con un solo nominativo uguale per tutti, e pagati comodamente con carta di credito, vengono stampati e consegnati in brevissimo tempo e soprattutto senza l’esibizione di alcun documento; tutto viene affidato al codice numerico che si riceve via mail. La procedura, di per se sorprendete rispetto ai nostri standard, risulta ancora più semplice e snella al momento dell’ingresso. Mostrando solo il biglietto allo steward in pochi secondi si passa dal tornello al cuore dell’impianto. Niente carta d’identità, nessuna perquisizione ne tantomeno alcuna tessera da esibire; solo molta cordialità e la sensazione di apprestarsi davvero a vivere una partita di calcio. La conferma arriva una volta preso posto sugli spalti che in pochi minuti si colorano dei colori di casa e dei simboli che ne hanno fatto la storia, i martelli incrociati ed il numero 6 del capitano campione del Mondo. Quando tutti sono già sistemati nel proprio seggiolino, lo stesso di stagione in stagione, come testimoniano i saluti con i vicini di gioie e dolori, ecco l’inno “I’m forever blowing bubbles”. Tutti in piedi per seguire gli altoparlanti che dopo una strofa lasciano spazio solo al coro dei tifosi e al loro orgoglio. L’atmosfera testimonia perfettamente il senso di appartenenza del popolo degli Hammers alla propria squadra nonostante da anni sia lontana dai vertici della sempre più esterofila Premier, con i suoi dieci presidenti stranieri, padroni di casa compresi. Sul perfetto terreno di gioco però lo spettacolo non è dei più entusiasmanti nonostante il vantaggio dei locali dopo pochi minuti con Cole. Il gioco delle due squadre fa sicuramente rimpiangere il nostro campionato, ma ai tifosi bastano un tackle efficace o un tiro da venti metri per alimentare il proprio entusiasmo mentre il solo Diamanti sembra essere capace di fare la differenza fra i ventidue. Gli ospiti decidono di non stare a guardare il talento italiano e sospinti anche dal sorprendente calore dei propri sostenitori ribaltano il risultato nella ripresa nonostante l’uomo in meno. In quello che è anche un derby fra quartieri diversi per status sociale, la working class da una parte e quella più agiata dall’altra, l’esperienza di Hodgson sembra avere la meglio sull’abilità tattica di Zola, fino al novantesimo quando Stanislas appena entrato pesca il tiro fortunoso che regala il tanto sofferto pareggio al West Ham. L’applauso finale, sentito e convinto, sembra non risentire della classifica non proprio esaltante, e poco dopo i supporters delle due squadre si ritrovano nuovamente sulla strada verso la stazione, fianco a fianco in coda in attesa del treno, ognuno con i propri i colori e le prorprie sensazioni dopo un intenso pomeriggio come tanti dedicati al football. Perché il tifoso lo fanno il calcio e la passione, non una tessera.

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Dal Picco al The Den

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su Cittadellaspezia il 18/10/2008)

Londra, metropoli multietnica da otto milioni di abitanti e dagli innumerevoli spunti culturali e sociali, ma anche patria di un calcio che per molti versi racchiude ancora intatti molti dei suoi valori più sani. Luogo ideale per lasciarsi alle spalle le recentissime delusioni: Sarzana, il Lottogiaveno e le successive contestazioni; trascorrendo qualche giorno con amici accomunati dallo stesso amore per le aquile seppur molto lontani da casa. Soffrono per le sorti della squadra incollati alla Rete a caccia di notizie, chiedono e s’informano, non avendo ancora vissuto dal vivo la nuova categoria, cercano risposte ai perché di una situazione apparsa inizialmente più rassicurante; bramando quanto prima il ritorno al Picco. Le ragioni però non possono che essere sommarie, poco esaustive perché per certi versi inspiegabili dopo risultati poco confortanti. Allora la presenza in città di squadre e stadi dal fascino indiscusso, diventa una buona scusa per mettere da parte l’argomento e addentrarsi in una realtà piuttosto distante da quella vissuta in prima persona. Certo, sperare di assistere ad un match dal vivo nella settimana santificata alla nazionale dei tre leoni di Fabio Capello, è un po’ come trovarsi nel Paese dei Balocchi il giorno di chiusura; ma un breve tour in tre zone e altrettanti stadi della capitale, riesce comunque ad appagare la voglia di quel calcio sempre visto in tv o letto sui libri. Stamford Bridge per iniziare, casa del Chelsea di Roman Abramovich, che sorge nel benestante e curatissimo quartiere di Fulham, a ovest della città. L’inizio con una delle squadre fra le più forti e ricche del panorama europeo è casuale, ma si rivela utile per un confronto con quelle successive, meno votate al business ad ogni costo. Se non fosse per le gigantografie della squadra o di alcune vecchie glorie quali Peter Osgood, si potrebbe infatti pensare di essere capitati in un moderno centro commerciale con annessi alberghi a lato degli ingressi dei vari settori. La visita all’interno è ovviamente a pagamento, mentre l’entrata nel negozio ufficiale è un po’ forzata ma comunque libera. Dalle magliette al modellino dello stadio, fino al cellulare, si può acquistare qualsiasi oggetto griffato con il leone blu rampante. Espressione massima della commercializzazione della passione e dei propri colori, resa ancora più netta dalla struttura dell’impianto e dal contesto del quartiere; con l’unico richiamo al passato dato da una targa, appesa ad un muro, che lo ricorda come luogo fisico della vecchia “Shed”, la gradinata simbolo dei Blues.
Tutto funzionale, sontuoso e moderno, ma troppo freddo, poco appassionante; troppo distante dai canoni abituali per essere apprezzato. Per trovare qualcosa di più autentico ed emozionante, è necessario spostarsi allora dall’altro lato della città, dall’agiato ovest di Londra al più popolare quartiere di Newham, a due passi dall’East end, un tempo approdo di immigrati ed ora protagonista di una vera e propria rinascita architettonica e culturale. La fermata di Upton Park porta ad un contesto molto diverso da quello precedente, e la famosa Green Street che conduce allo stadio del West Ham, rispecchia pienamente le origini di un quartiere nel quale da decenni gruppi etnici fra i più disparati convivono in simbiosi l’uno con l’altro. Da un lato della strada lunghe file di case popolari, dall’altro il maestoso impianto, con la caratteristica cancellata che apre la visuale sulle due torri, nelle quali spiccano i martelli incrociati sul caratteristico sfondo “Claret & blue”. Il bordò e il celeste che rifiniscono ogni dettaglio del Boleyn Ground, stadio che da qualche mese ospita mister Gianfranco Zola. Qui, dove una delle gradinate è dedicata alla leggenda Bobby Moore, si respira un clima diverso; certo vi si trovano l’hotel, il museo, l’immancabile negozio e la visita guidata in cambio di un po’ di sterline; però si ha veramente la sensazione di essere in uno dei luoghi di culto del calcio britannico, nonostante l’inevitabile impronta commerciale. Un impressione confermata dalla statua che domina l’incrocio a pochi passi dall’impianto e dal Boleyn, il pub di riferimento dei tifosi degli “Irons”. Il monumento è quello dedicato agli eroi del Mondiale del ’66: Geoff Hurst, Martin Peters and Ray Wilson che sorreggono il capitano Moore con la coppa Rimet; quattro campioni del Mondo con la maglia del West Ham, un pezzo di storia che da solo vale la visita.
Ritrovarsi in luoghi come questi, reduci dal Miro Luperi, mette a disagio fa sentire un po’ fuori luogo, a distanze impossibili dalla realtà attuale, parlando comunque di club che frequentano stabilmente lo sfarzoso e spettacolare teatro della Premier League. Il desiderio di scendere più in profondità è forte e la soluzione è vicina, appena sotto il Tamigi, a Bermondsey; sud-est della City poco distante dal London Bridge ma fuori da ogni rotta turistica; casa o meglio “tana” del Millwall parafrasando il nome del suo stadio il “The Den” appunto. Autofficine, depositi e caseggiati popolari sono il perimetro poco ospitale dello stadio di recente costruzione, distante solo pochi isolati da luogo in cui sorgeva il vecchio impianto, che come quello attuale non ha mai vissuto momenti di gloria paragonabili a quelli degli altri team londinesi. La squadra infatti, fondata da operai portuali scozzesi e attualmente in terza divisione; nella sua storia ultracentenaria non ha mai vinto scudetti ne F.a. Cup (persa in finale nel 2005 con il Manchester) concedendo ben poche soddisfazioni ai suoi affezionati tifosi. La storia del club e il clima particolarmente “provinciale” suonano molto più familiari rispetto ai due precedenti, e la cordialità delle persone, prossime alla fine del turno di lavoro all’interno dello stadio, creano un’atmosfera molto vicina a quella voluta. Dalla segretaria, che apre senza problemi le porte degli spogliatoi e del campo da gioco, fino all’addetto alla vendita dei biglietti. Racconta di un club che solitamente arriva a otto-novemila spettatori e registra il tutto esaurito per incontri sentiti come quello di ieri con il Leeds (vinto 3-1), e soprattutto chiede e s’informa sulla provenienza dei suoi interlocutori stranieri. “Spezia” è la più ovvia delle risposte e di lì a poco ci si ritrova su un bus in piena Londra, a raccontare, non senza orgoglio, della serie B, della Juve, di una vittoria impossibile ad un secondo dalla fine; ma anche di retrocessione, fallimento, di una categoria troppo brutta per essere vera. L’espressione è quella di chi riesce a capire perfettamente la situazione e lo stato d’animo, e prima di sparire nella metro, dopo i sorrisi e i saluti, l’uomo si congeda con una frase che sa di benedizione calcistica: ‘God bless your team’. Un arrivederci che vale quanto una vittoria esterna, che a centinaia di chilometri da casa riesce a farti sentire ancora più fiero della tua squadra, della sua storia e della sua dimensione.

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Ultima fermata Vico Equense

Foto archivio CDS

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia.com il 15/06/09)

A distanza di un anno i testimoni di un fallimento, in questo caso sportivo ma non meno doloroso, sono sempre gli stessi; presenti all’ultimo appello, pronti a riempire pullman e auto per raggiungere Vico Equense. Circa centocinquanta, radunati all’alba di una domenica mattina ancora una volta dedicata agli aquilotti e a traguardi sempre impossibili da raggiungere; passeggeri di mezzi troppo scomodi per affrontare un viaggio lunghissimo. I volti, i protagonisti, sono sempre gli stessi, quelli di Messina dodici mesi fa o dei campetti di periferia visti nel corso di questa disgraziata stagione nei dilettanti, gli stessi che se se fosse necessario raggiungerebbero anche la Luna per trascinare lo Spezia via da questo scempio. Incastrati nei seggiolini di autobus disastrati, come nel traffico di una classica domenica balneare nella meravigliosa costiera Sorrentina, lasciati alle spalle Napoli, il Vesuvio e Castellamare ecco Vico Equense che precede Sorrento. Le carovane di turisti virano verso il refrigerio del mare e le spiagge affollate, gli aquilotti salgono verso il Monte Faito, scalano letteralmente strade strettissime, sfiorano muretti, schivano scooter e moto che s’intrufolano ovunque, fino a raggiungere Massaquano. La piccola frazione di Vico regala scorci da cinema Neorealista, in cui i visitatori calcistici richiamano l’attenzione di tutta la comunità. Questa non è la Gomorra di Roberto Saviano ma un piccolo borgo che vive il sogno di un gruppo passato dall’Eccellenza ad un tutto per tutto contro una squadra che riuscì ad alzare una coppa al San Paolo. Chiuso come un fortino all’interno del caseggiato, il piccolo stadio dei locali è pavesato a festa con striscioni che incoraggiano i propri beniamini e salutano la nobile decaduta. La tribuna è gremita, il settore ospiti contiene a fatica gli aquilotti, mentre per i più indolenti balconi finestre o direttamente i tetti delle case, diventano tribune vip nelle quali ospitare parenti ed amici. Niente clima da Sudamerica, nessun ambiente ostile, solo una grande voglia di vivere l’evento fino all’ultimo minuto, lasciando ai perplessi tifosi in bianco il compito di sostenere ed incitare la propria squadra. Si perché mentre i centocinquanta si sgolano per difendere due risultati favorevoli su tre, il Vico Equense attacca; carica verso la porta di Fornari, domina fino all’assurdo fallo di Frateschi che lascia lo Spezia in dieci. Nell’intervallo il caldo e la tensione fanno la fortuna dei venditori di bibite e granite che regalano qualche secondo di sollievo a chi si trova a settecento chilometri da casa. Pochi attimi, perché al ritorno delle squadre in campo lo Spezia crolla sotto i colpi di Trapani. L’attaccante di casa ci mette trenta secondi per portare in vantaggio i suoi, materializzando a poco a poco negli occhi dei presenti errori e contraddizioni di una stagione da dimenticare. Aggrappati alla rete di metallo, sudati e stremati più di qualche giocatore, i tifosi si aspetterebbero la reazione della squadra, distante solo un gol dalla semifinale. Ma i padroni di casa non lasciano spazio, volano sul sintetico sfiorando il raddoppio più volte, fino alla punizione del solito Trapani che chiude il discorso. Da un lato esplodono fuochi d’artificio e la gioia di paese, dall’altro si abbassano gli sguardi per coprire lacrime e incredulità, si cercano colpevoli e responsabili, si trascorrono gli ultimi venti minuti in attesa di un miracolo che non può avvenire, non questa volta, non qui. La rincorsa verso un altro calcio finisce in un luogo che è invece la massima espressione della categoria; lo Spezia della solidità economica e dell’improvvisazione gestionale si ferma al Massaquano, pochi lustrini e molta concretezza. L’ultima fermata di quest’annata delirante ha sullo sfondo la bellezza della costiera e la semplicità del suo entroterra, fin troppo accogliente ma pronto a ricordati che alla fine va avanti chi ci mette qualcosa di più. Ha il volto dei bambini che in fila assistono alla triste sfilata dei torpedoni, i primi sorridono, salutano; l’ultimo si lascia scappare una risata e con le mani disegna un due ed uno zero. Tutti a casa per favore.

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Lazzaro e i Fedeli alla tribù

Foto courtesy@Stefano Stradini

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia.it l’8/06/2009)

Qualche anno fa nel suo capolavoro “Fedeli alla Tribù”, John King scrisse che senza la passione il football sarebbe morto; senza i tifosi il gioco del calcio sarebbe ridotto a ventidue persone che corrono dietro ad un pallone. Secondo lo scrittore inglese e supporters del Chelsea, è invece la gente a farlo diventare una cosa importante, ad aggiungere il valore emozionale che gli permette di catalizzare l’interesse di milioni di persone. Per riconoscersi nel pensiero di King è sufficiente immaginarsi la partita di ieri in un’altra città: qualche decina di spettatori distratti, spalti semideserti e un gruppetto di irriducibili in un angolo a sostenere i propri colori. Nella disgrazia di questa categoria possiamo invece consolarci ripensando al pomeriggio vissuto e ai suoi tremila spettatori, al bianco della Curva Ferrovia e ad una gradinata che non si vedeva così da parecchi mesi. Clima da spettacolo vero, con una buona rappresentanza marchigiana e soprattutto la voglia del Picco di regalarsi qualche emozione in una stagione tanto lunga quanto avara di momenti esaltanti. Così nel teatro perfetto per una partita di calcio, anche chi è sceso in campo non ha voluto essere da meno, fornendo una prestazione molto convincete, determinata e si, a tratti spettacolare. Davanti al suo pubblico e ad un suo ex pupillo come Corrado Colombo, lo Spezia ha espresso finalmente quella superiorità che nei mesi passati era rimasta troppe volte nelle parole e nei giudizi dei tecnici avversari nel dopo gara. Ieri gli aquilotti hanno giocato da grande squadra, dimostrando di poter lottare per il traguardo finale potendo contare sull’apporto di tutto il gruppo. Contro il Fano i segnali più importanti sono arrivati dai più giovani come Triglia e Frateschi, ma anche dai più esperti e dotati tecnicamente come Masi, Capuano, autore di un tiro meraviglioso, e il solito Lazzaro con la sua doppietta. Gli autori dei gol hanno regalato giocate così belle da sembrare quasi stonate in questa categoria, hanno incantato la gente in bianco ed hanno ricevuto applausi convinti come non se ne sentivano da tempo. Per il bomber Lazzaro è arrivato anche un coro dal cuore del Picco che negli ultimi anni aveva dispensato i suoi battiti per un altro giocatore capace d’infiammarlo con le sue marcature. I paragoni non servono, ma l’andamento dell’attaccante di Susa e la dimostrazione d’affetto del pubblico devono al più presto essere tradotti in un nuovo e solido contratto in vista della prossima stagione. Le sue reti hanno contribuito a ridare nuovo entusiasmo ad una piazza che sembrava annichilita dal fallimento, spenta in quella che negli anni è stata la sua peculiarità più grande indipendentemente dalla categoria. I gol riaccendono la passione e la passione rende unico questo sport, perchè a Spezia come a Londra, in Premier come in serie D, è sempre una questione di fede.

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La signora Ojo e una serata con Cristiano Ronaldo

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su Cittadigenova il 10/05/09)

La precisazione è doverosa quanto scontata: in queste righe non si parla di gossip, ne dell’ennesima avventura sentimentale del fuoriclasse portoghese. La passione e i sentimenti in questione riguardano il calcio, più nel dettaglio la semifinale di Champions League giocata martedì fra Arsenal e Manchester United. Fascinoso appuntamento vissuto in diretta grazie all’interesse di un amico londinese e all’abbonamento della gentile signora Ojo, complice una semplice telefonata e l’invito ad assistere alla partita che ha deciso la prima finalista di Coppa dei Campioni. Certo, il cuore batte forte per un’altra squadra, ma come rinunciare ad un’occasione del genere? Grande posta in palio, molti campioni da vedere dal vivo e primo attesissimo contatto con l’intrigante realtà calcistica inglese; impossibile resistere. Arrivo a Londra, saluti con l’amico che condivide la stessa passione per il football e via nella metro destinazione Arsenal. Tre ore prima del fischio d’inizio i vagoni della Piccadilly Line che viaggiano verso nord sono già stipati dei tifosi diretti all’Emirates Stadium; le sciarpe e le magliette biancorosse spiccano vistosamente fra i turisti e i businessman in giacca e cravatta. Padri e figli, stessi colori, medesimi silenzi pieni d’ansia e aspettative con il gol di O’Shea dell’andata da ribaltare. Finalmente le porte si aprono e la piccola folla riemerge in superficie composta, sparpagliandosi nella già viva Gillespie Road nel cuore di Holloway, muovendosi nella stretta strada costeggiata da due file di case. Alcune di queste ospitano i punti di ritrovo dei tifosi, distribuendo birre e cuocendo hamburgers in quantità tali da diffonderne il profumo in tutta l’area circostante; quella che ha fatto da sfondo al celebre “Febbre a 90°”, a pochi metri dal leggendario Highbury. I locali chiacchierano, salutano, trascorrono impazienti il tempo che manca; mentre gli altri, i più curiosi osservano gesti e rituali, cercando di cogliere abitudini e stati d’animo. Il paragone con le nostre consuetudini è inevitabile; colpiscono la tranquillità almeno apparente, la presenza delle molte bancarelle nelle quali spiccano i colori sociali dei Gunners e gli immancabili macht programmes, vera e propria istituzione da queste parti. La Metro nel frattempo continua a liberare supporters in tenuta d’ordinanza, e anche in questo caso non passa inosservata la presenza di maglie ufficiali, quasi obbligatorie come il prezioso tagliando, che in molti chiedono nel flusso di persone che si dirige verso lo stadio su Drayton Park. Da un lato una modesta fila di case allineate, dall’altro il maestoso ingresso del nuovissimo impianto che conduce all’interno della cittadella dove sorge l’Emirates. Curiosità ed emozione si mescolano inevitabilmente, ma nell’avvicinarsi all’entrata sorge un po’ d’inquietudine data dalle imposizioni del nostro calcio: biglietto nominale, incedibilità dello stesso e documento da esibire. La carta d’identità è già pronta, ma la tessera stagionale è a nome della signora Ojo. Che fare? Nulla. Mentalmente si costruisce la frase da dire allo steward al tornello, ma questo sorride ed invita da inserire il codice a barre nel lettore. Pochi secondi e si è finalmente all’interno. Nessun problema, niente perquisizione e molta cordialità; il modello inglese non sembra poi così male. Sessantamila persone stanno espletando la stessa procedura, ma tutto viene fatto nella tranquillità più assoluta, i corridoi sono liberi e gli accessi ai vari settori ben segnalati. Le uniche code si registrano presso le “Sauce stations”, angoli predisposti alla distribuzione di ketchup e salse varie per arricchire gli immancabili panini. Anche questo è business, come la bottiglietta d’acqua griffata Arsenal o i contenitori con l’effige del cannone Reale, o ancora la bandierina ordinatamente poggiata su ognuno dei seggiolini. Le stesse che di li a poco sventolano all’unisono all’ingresso in campo delle due squadre, mentre fra un inno e l’altro risuona il tema della Champions League, colonna sonora ad effetto a pochi secondi dal fischio d’inizio. Il colpo d’occhio è eccezionale, reso ancora più significativo dalla presenza di differenti etnie unite dalla stessa passione. La normalità in una città multietnica come Londra, pura utopia se rapportata alla nostra realtà. I colori non sono i propri così come la storia del club, ma il coinvolgimento è inevitabile; tornano alla mente il libro di Nick Hornby e il gol di Micheal Thomas nella vittoria del 1989, in una serata in cui gli uomini di Wenger devono vincere a tutti i costi contro i Red Devils di Cristiano Ronaldo. Appena il tempo di riportare l’attenzione al campo e alla partita che il portoghese entra in area, mette al centro trovando la sciagurata caduta del giovane Gibbs e il destro di Park che porta in vantaggio lo United chiudendo il discorso qualificazione. Ammutoliti i Gunners, esplodono i Mancuniani, mentre Cristiano Ronaldo mette la firma sul trionfo con la punizione calciata da trenta metri. Due a zero e accademia, con i giovani padroni di casa smarriti e lo squadrone perfetto di Ferguson che gioca a memoria, con Rooney a fare quasi tutto (compreso il terzino) e il fenomeno portoghese pronto ad aprire e chiudere il contropiede del 3-0 prima dell’unitile rigore di Van Persie. Lo spettacolo atteso e cercato passa per le giocate di questi fuoriclasse che spezzano il sogno dell’Emirates e le speranze del suo pubblico, che alla fine applaude comunque prima di rimettersi pazientemente in coda in attesa del prossimo treno, che purtroppo non porta a Roma. Chissà, forse ha fatto bene chi ha deciso di saltare l’appuntamento con Cristiano Ronaldo. Grazie di cuore signora Ojo.


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