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L’ultima partita a porte aperte

di Dettobene

L’atmosfera è strana, incerta e un po’ surreale. Probabilmente l’ultima partita a porte aperte del calcio italiano poteva capitare solo a noi che di situazioni balorde ne abbiamo vissute parecchie, tipo a Pescara costretti a star fuori perché non ci facevano i biglietti, o a Cesena la sera di Raciti.
In fondo non mi sorprenderei di arrivare sotto la Ferrovia e sentirmi dire “è cambiato tutto, non si può entrare”. Fortunatamente non è così anche se il clima è diverso e non c’è coda, alla fine sono le ultime quattro ore che si possono passare in mezzo a un po’ di gente.
A fianco a me al cancello un gruppo di ragazzi si sente dire dallo steward “non potete entrare, non avente quindici anni”, “perché? siamo sempre entrati” ribattono loro con documento e biglietto alla mano. Ma dai? Oltretutto stasera con sta situazione? Poi non sono mica dei bimbetti. Mentre loro si guardano indecisi se andarsene, mi vengono in mente i racconti degli amici che hanno vissuto il calcio senza tornelli e biglietti nominali – quello che io ho conosciuto al tramonto – quando i fanti entravano col primo signore che gli capitava a tiro. Allora prendo sotto braccio un ragazzo e dico allo steward “lui è mio figlio, entra con me”. La risposta è uno sguardo perplesso ma Davide mi viene dietro e ne prende un altro “lui è mio figlio, lo accompagno io” e così fa il tizio davanti che ha seguito la scena, altri due o tre nel frattempo si infilano mentre lo sguardo dello steward è rassegnato.
Tutti dentro, c’è da veder vincere gli aquilotti.

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La fiera del gol

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(@dettobene)

Questo settore ospiti sembra uno di quelli che vedi nelle foto degli stadi dell’Est. Ci sono le reti, il filo spinato e i seggiolini scoloriti. Sono pieni d’acqua che gocciola fin sotto nel tunnel pieno di scritte, dove cammini saltando le pozzanghere degli scarichi che escono dai cessi. Mancano solo gli orchi ultra tatuati e ultra nazionalisti e mancano anche le guardie con le mimetiche. Invece ci sono solo i ragazzini insieme ai genitori nella tribuna a fianco, ti mandano in culo mentre gli steward balcanici, massicci e di poche parole, se la ghignano sapendo che sarà un pomeriggio tranquillo.

La curva del Perugia si riempie subito prima del fischio d’inizio, noi invece siamo tutti qua e siamo questi, pochi. Non è un bel periodo, la trasferta è lontana e poi oggi c’è la fiera e da Spezia non esce nessuno. In questi miei quasi vent’anni è capitato altre volte di essere in trasferta nei giorni di San Giuseppe ed è sempre stata la stessa storia. Per me la fiera è un ricordo degli anni Ottanta: il viaggio interminabile in corriera con i miei nonni e col sorriso, le navi in arsenale e le bancarelle a caccia di giocattoli. Più tardi, quando è capitato, ha significato un settore ospiti con i soliti a fare il conto dei presenti, come a Lucca, quando abbiamo vinto grazie a quel pacco di Scoponi, oppure a Latina. Lo ricordo a Lore e al Gianca, gli dico “magari vinciamo anche oggi” anche se in trasferta non succede mai. Loro non mi danno nemmeno retta e fanno bene.

Lì davanti i ragazzi manco ci pensano. Cantano, tirano su le bandiere e mandano affanculo i perugini. Orgoglio che oggi vale anche più del solito e lo sanno, anche perché in campo va come sempre. Cerri oltre a essere grande e grosso ha anche del culo, segna e almeno non ci fa i versi come Ardemagni l’unica volta che sono stato qui prima di questa. Due a zero e non serve nemmeno cercare di vedere qualcosa, incrociando le maglie delle reti di metallo. All’intervallo siamo già finiti. I quattro passi a vuoto verso il bar, che è in realtà un bibitaro vecchio stile, servono solo per rivedere la scritta a bomboletta “Ma che siete venuti a fa?”. Ce l’hai sulla testa appena rientri sui gradoni e non puoi fare a meno di leggerla. Almeno chi non è venuto si è risparmiato anche questa, così come l’inutile secondo tempo di una partita che per noi è già finita. Segna anche Bianco che qualche anno fa a Bari mi aveva dato la maglia, la prima presa e subito regalata al piccolo Jimmy. Era quasi ferragosto ed eravamo in pochi. Avevamo perso.

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Romanticismo sottozero

28336609_10215720381542545_4483659579293783009_o(@dettobene)

Il San Nicola mi fa sempre l’effetto di un’astronave fuori produzione, circondata da grovigli di tangenziali con il profilo di una città brulicante e ospitale sullo sfondo. Il cielo terso e il sole ne illuminano il cemento e i cancelli, mettendo in evidenza tutti i suoi ventott’anni, mentre l’aria fredda si abbatte sulle nostre facce stanche e incazzate. La terza volta qui è quella della beffa, di una partita che non si gioca per neve, anche se la neve è ormai sparita del tutto e al kick-off mancano più di quattro ore. Più ci guardiamo intorno e meno riusciamo a credere alla più grande presa per il culo da quando abbiamo sta passione malsana.

Decisamente peggio di Pescara, dove non ci fecero i biglietti nonostante lo stadio semi deserto, o di quella volta a Bolzano, quando ci toccò vederla dal terrazzino di una palestra perché non avevamo la tessera. Oggi due ore di neve sono bastate al Prefetto per togliersi il pensiero e rinviare tutto. Poco importa se lo slogan della Lega di B è “Il campionato degli italiani” e quell’hashtag #rispetto lo piazzano su ogni cartellone. Ferie, soldi, ottocento chilometri in macchina, pullman o furgone non meritano rispetto?. No, e non è una novità, altrimenti fra poche ore saremmo di nuovo qua in sto parcheggio ricongiunti a tutti gli altri e pronti sgolarci dentro quell’astronave troppo grande per questo campionato. Invece non arriverà nessun altro e fra un po’ ce ne andremo anche noi, per finire in città una giornata amara e surreale in questo gelo soleggiato.

Mentre faccio due passi per dar tregua alla schiena, fra una telefonata e una tremila notifiche di oggi, mi viene in mente Ale che qualche giorno fa m’ha detto “siete dei romantici”. Gli raccontavo che stavo guidando verso il Picco, che sarei arrivato più o meno all’intervallo ma che sarei andato comunque. Gli ho risposto “può darsi ma siamo anche un po’ coglioni, è così e non possiamo farci niente”. Se mi richiamasse adesso gli ridirei la stessa cosa con la stessa convinzione, per il freddo, le ore di viaggio e tutto il resto. Probabilmente gli ripeterei le stesse parole perché alla fine qua ci siamo arrivati anche oggi, nonostante tutto.

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Un tè buttato via

carp

(@dettobene)

Almeno oggi non fa freddo. Vabbè, ho le mani gelate e le scaldo con un bicchiere di tè chimico che fa schifo, ma per fortuna non si gela come l’altra volta quando c’era la neve ovunque. Eravamo stranamente in balaustra, non riuscivamo nemmeno a muoverci se non per prenderli per il culo dopo che Lotito aveva detto che erano troppo pochi per andare in A. Che poi alla fine ci sono andati davvero, mica come noi che siamo ancora qui a esaurirci con i playoff, gli esodi, i sogni, le lacrime e le trasferte impossibili.

Quattro gatti erano e quattro gatti sono, però la soddisfazione se la sono tolta. Dal nulla a girare ovunque, una stagione intera che noi ci metteremmo la firma anche solo a fare un girone d’andata sopra sta categoria. Tipo Mora, che qualcosa si è goduto anche se ha giocato poco. A vederlo con barba e capelli lunghi in mezzo a questi tutti uguali gli mancano solo l’accento incomprensibile da inglese del nord e la maglia di lana pesante. Chissà se ha letto la scritta di Ponzo prima di infilarsi la nostra.

Grande Paolino, oggi c’avrebbe fatto comodo per mettere un po’ di cuore lì in mezzo e far muovere tutti. Gli bastava vedere pallone e avversari e li rincorreva fino alla fine. Un po’ come noi che se ce ne fosse bisogno andremmo anche a sfidare qualche stadio di orchi in Russia, solo per attaccare pezze e sventolare bandiere.

“Non me ne frega un cazzo se Mora è forte e fa dei gol, basta che esca sudato”. David la fa facile, catapultato in trasferta sette anni dopo aver tribolato di notte, attaccato al computer con la telecronaca in chissà che cazzo di lingua pur di vedere lo Spezia a Cittadella o in casa col Trapani. Ha pianto di gioia o bestemmiato insieme a noi, solo che stava dall’altra parte del mondo. “Frè ti va bene che qua non ci sei mai stato, io sto posto lo odio”.

Il tè fa veramente schifo ma tutto sommato mi è andata meglio degli altri. Li ho lasciati alle prese con birra analcolica e un bombardino che riesce a bere solo Riccio. E’ ancora tiepido ma ci mette un secondo a volare oltre la ringhiera e finire sul cemento in discesa di sto finto velodromo. Mentre cade laggiù davanti esultano tutti, lo speaker dice cose senza senso e Mbakogu ci ricorda che qua non si passa, che i nomi e i soldi ce li possiamo anche tenere. Jerry Mbakogu, potrebbe stare in un video grime girato a Newham con la tuta dell’Adidas e le rime incazzate, e invece è qua che non lo tiene nessuno e se ne frega dei buu di qualche fesso.

Qui non c’è storia, finirebbero a prenderci per il culo anche se ci presentassimo con Ibrahimovic là davanti. Si perché Terzi la butta dentro solo per illuderci che stavolta possa andare diversamente, o magari solo per far scriccare quella torcia che alla fine la sua figura la fa sempre.

Esulti, ci credi, gli fai il verso della sega ma i vecchi in gradinata sono belli tranquilli, lo sanno che noi qua siam venuti solo per pagare il biglietto e far l’incasso al bar. Lo sa anche Melchiorri che non segna da un anno e ci guarda tutti uno per uno mentre la butta dentro. Mi dice “eccolo il tuo compleanno” e non ho manco un altro tè da buttar via.

Mentre ci cantano “non vincete mai” siamo già in via Marx. Di nuovo su questo vialone, in mezzo a tutti ste monotone palazzine anni Sessanta, impregnate di nebbia e indifferenza per noi che ce ne andiamo incazzati. Ancora una volta.

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Appunti su un viaggio a Terni

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@dettobene

il ‘socialismo reale’ di Ciccio; Ciccio che si allontana con un monopattino svanendo nel nulla come Kaiser Soze; la Multipla e il doppio cd dei Clash rimasto lì dall’ultima trasferta; i nuvoloni del perenne stato d’allerta; Luca, Pisa e il trekking alle Seychelles; le lasagne della mamma del Baldo; il Baldo cinico; i racconti di Cavallo; il giovane Diesel che dorme come me; il Diesel che ogni tanto scuote la testa; il telefono moribondo e il Panda insofferente; il Lappe a casa che tribola; la cioccolata alla nocciole; il budello verso lo stadio; ‘i just can’t get enough’ prima della partita; i tre gradini dove bisogna stare uno addosso all’altro; ilGianca&laSonia; Marco in forma e il fante in balaustra; 150 molesti; Ebagua Chichizola la traversa il gol annullato; un punto importante; ‘vi vogliamo così’; ‘tutto lo stadio: perugino pez…’ e tutto lo stadio dietro; tanta roba; saluti; ‘quelli sono spezzini’ ‘oh caselanteeee!!!’; panino metano pizza; Barberino; come Barberino?!!; nooooo; casello di Roncobilaccio; sgomento; il pareggio della Croazia; ‘piove, ormai ci siamo’; Santo Stefano; casa. Riavvolgi, riparti, avanti Aquilotti!.

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Aquilotti alla Scala

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di Benedetto Marchese (@dettobene)

Poco distante da un Meazza deserto e delineato ormai solo dalle luci soffuse immerse nella nebbia, fra le maglie di Honda e Kakà di una bancarella spiccano colori inconfondibili e la scritta “Spezia Campione” con il tricolore dei Pompieri e l’aquilotto, incrocio speciale per due club con vite e fortune molto diverse. In un’atmosfera fredda e ovattata infatti uno dei tanti ambulanti ripiega con cura il materiale invenduto, comprese le classiche sciarpe celebrative rossobianconere e quelle dedicate esclusivamente agli aquilotti con tanto di logo riprodotto perfettamente. Queste ultime in futuro potranno tornare utili se lo Spezia tornerà ad affacciarsi “alla Scala del calcio” che per una sera lo ha visto protagonista. Un bianco che non passa inosservato, fra il materiale in vendita come sugli spalti di San Siro dove sei o settemila tifosi hanno appena scritto una delle pagine più belle della loro storia.
Appuntamento irrinunciabile capitato in un mercoledì di gennaio a un orario che ha costretto mezza città ad annullare impegni, abbassare le saracinesche dei negozi e saltare un giorno di scuola. “La pizzeria? Oggi ho chiuso, magari apro quando torniamo se c’è da festeggiare” confessa uno dei tanti supporters in un autogrill di Fidenza dove si parla solo spezzino. I pullman che arrivano e ripartono a ritmo continuo fanno tutti rotta su Milano su un’autostrada interamente colorata dai vessilli bianchi. Una striscia infinita di corriere, macchine e pulmini, nei quali si parla solo di quello che sta per accadere, si ripercorrono i viaggi di una vita al seguito di questo o quello Spezia, si rincorrono aneddoti e racconti come da tradizione.
Il primo applauso della lunghissima giornata scatta poco prima della barriera di Melegnano, quando con lo sguardo s’incrocia lo striscione appeso ad uno dei tanti cantieri a bordo strada. La scritta “Avanti aquile” trasmette il senso di un qualcosa di unico ed irripetibile, atteso da troppo tempo. Ansia che cresce scorgendo lo stadio fra i cantieri dell’Expo 2015 e avvicinandosi a quei cancelli che in questi anni hanno accolto tutte le tifoserie più importanti d’Europa.

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Da Luni a Riomaggiore c’è una provincia che si raduna sotto le iconiche torri a spirale e davanti ai tornelli che si aprono senza l’obbligo di esibire tessere o documenti. Smartphone, sorrisi e passi frenetici accompagnano verso quegli spalti sognati tante volte, prima di quell’ultimo gradino e l’attimo che toglie il fiato. Primo anello verde con vista su un passato fatto di Vico Equense e Sestri Levante, Pizzighettone e Vittoria ed un presente che si chiama Milan, Coppa Italia, partita vera. Fratelli di fede, famiglie, parenti acquisiti campionato dopo campionato, tutti presenti fianco a fianco con un pensiero per chi non c’è più o non può esserci. Nell’unico settore affollato di una cattedrale maestosa c’è una città intera con la sua indole e il suo passato portati con orgoglio in ogni stadio d’Italia. Esperienza tradotta in cori per trascinare all’impresa impossibile una squadra che cambiando volto ogni sei mesi non può avere lo spirito della sua gente e che di fronte ai vari Montolivo e Pazzini si presenta senza il suo bomber e priva di un capitano al quale sarebbe stato giusto concedere quest’ultima passerella.
Chi sta in campo prova comunque a battersi inseguendo il pallone che viaggia veloce e preciso, infilandosi una, due, tre volte alle spalle di Leali. Mentre dall’altra parte del mondo mezzo Giappone esulta per il gol di Honda, a Milano un popolo che non si è mai arreso si emoziona intonando “o bela speza”, rivivendo batoste e trionfi e godendosi ogni istante di una notte da ricordare per sempre.
Dagli eroi dell’Arena a quelli di una sconfitta indolore che diventa dolcissima quando Ferrari segna il gol del 3-1 a tempo scaduto. Alle spalle di Abbiati un blocco unico di corpi e volti si disunisce disordinatamente liberando un boato che ha un senso profondo e commovente solo in un perimetro geografico ben circoscritto e solo per quei settemila che piangono e si abbracciano, perché per quei tre minuti che restano hanno vinto la speciale partita e onorato il loro appuntamento con la storia. Una vicenda di calcio e passione che non sarà mai una “bella favola” ma resterà sempre un avvincente racconto di mare, fra burrasche ed approdi fantastici.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 16/01/14)

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Andiamo a San Siro

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(@dettobene)

Prenota un pulmino, il 9 gennaio andiamo a San Siro!”. Mentre mi volto a guardare la signora che mi passa a fianco parlando al cellulare per pianificare la trasferta, incrocio un bimbo che chiede al padre: “Ma allora giochiamo contro il Milan?”. Cammino in via dei Pioppi in mezzo alla gente che esce dallo stadio, fra i bambini delle giovanili che superano i cancelli soddisfatti e disordinati e la gente che già s’interroga su numeri, biglietti e formazioni. Si, adremo a Milano – o meglio, per ora ci andrà lo Spezia perché senza tessera non so se riuscirò ad entrare – e andremo a giocarci un ottavo di Coppa Italia a casa Berlusconi, partita secca. Quattro anni fa eravamo a Vico Equense e a gennaio saremo al Meazza maleducati e orgogliosi come sempre. Un premio per 107 anni di storia sempre sofferti e sudati in ogni partita, o forse un imprevisto in quel percorso fatto di culo, sfighe e, coraggio che è il calcio. Si perché in altri periodi un’occasione come quella di oggi l’avremmo buttata via malamente, magari al novantesimo dopo una partita tutta all’attacco. Invece no, l’essere arrivato in ritardo come al solito, ma un minuto prima del momento cruciale di Spezia-Pescara, mi ha permesso di guardare in faccia Ebagua come tutta la Ferrovia; osservarlo mentre caricava il tiro e buttava dentro l’1-0. Se non fosse stato il pomeriggio giusto quel pallone sarebbe finito chissà dove. Invece fuori ci sono andati due dei loro nel giro di cinque minuti. Ok, sei in vantaggio e in undici contro nove però la devi chiudere perché non si sa mai. Basta aspettare un pochino poi Sansovini firma il 2-0. Ecco, visto il suo momento se segna così anche lui allora è quasi fatta. Anzi, lo è perché per tutto il secondo tempo si parla solo di pullman, di amici da avveritire, delle espressioni di Galliani, di Borghese con Balotelli e di Ebagua che più s’incazza e più segna. Quando Rivas infila il 3-0 siamo già tutti in viaggio per San Siro, incolonnati in tangenziale, emozionati e molesti. Ci siamo tutti, siamo una marea e facciamo ‘O bela speza’ con gli altri che ci stanno a guardare e quelli in balaustra che si dannano per farsi sentire. Dopo aver visto tutta l’Italia, anche nei posti più infimi, siamo a Milano, San Siro, in una notte di gennaio che racconteremo per settimane. Ci penso mentre faccio lo stesso tragitto di ogni partita per tornare alla macchina, fra palazzi, logoro cemento militare e il verde del Colombaio. Non ho fretta, mi godo il momento, la gioia e i sorrisi di chi s’infila in macchina o sfreccia in scooter suonando il clacson. I miei occhi lucidi invece li nascondo alzando il colletto del giaccone e abbassando un po’ di più il cappello, fa anche freddo ma oggi è solo un dettaglio.

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Il sogno di un popolo e il ragazzo che lo ha realizzato

di Benedetto Marchese

(pubblicato su Cittadellaspezia il 15/06/2010)

Chiunque abbia perso almeno una volta la voce per sostenere lo Spezia dalla Curva Ferrovia ha sognato in chissà quante occasioni di correre fino a pochi centimetri dalla balaustra ed esultare per un gol. Guardare negli occhi i compagni di tante giornate passate a soffrire per la maglia bianca, di trasferte interminabili in giro per l’Italia; gli amici dei quali negli anni hai imparato a capire tensione, preoccupazione oppure entusiasmo attraverso uno sguardo o una parola. Corsa per un gol contro un’avversaria particolare o in una partita decisiva, prodezza da condividere con chi hai visto piangere per la delusione e gioire come nessun altro, chi ti ha regalato abbracci e momenti resi unici da un legame che va oltre la passione calcistica. Quel sogno, diventato quasi ossessione nella lunghissima vigilia iniziata dopo Legnano-Spezia, lo ha realizzato Alessandro Cesarini passato dai gradoni della curva all’erba del Picco senza perdere l’orgoglio ed il coraggio di chi a quella maglia ha dato e darà sempre tutto. La sua corsa da una parte all’altra del campo è stata quella di ognuno dei suoi tifosi, quelli che ha visto scaraventarsi dall’altro verso il basso man mano che si avvicinava al cuore del popolo spezzino. Ha urlato con loro, ha liberato la gioia per una doppietta impossibile da dimenticare per bellezza ed importanza; con due giocate da campione ha frantumato l’incubo dei play-off riscrivendo la propria storia e quella di una squadra che in due anni ha scalato le pareti dell’Inferno per tornare dove le compete. Tutto in dieci minuti, quando il tenace Legnano stava iniziando ad accarezzare il sogno dell’impresa e lo Spezia non riusciva a trovare la via del gol che avrebbe riacceso lo stadio. Fino al ventiquattresimo della ripresa infatti il Picco aveva vissuto la partita nella morsa della tensione, senza riuscire a fornire il proprio insostituibile contributo, fino a quando il ragazzo con la numero nove ha disegnato la palombella al centro dell’area dove Herzan ha trovato il fallo da rigore. Con l’incoscienza dell’età e la voglia di mettere il proprio nome su una giornata storica Alessandro Cesarini si è preso un pallone abbandonato da tutti e lo ha calciato, dopo una lunghissima attesa e con un po’ di fortuna, alle spalle di Furlan prima di lanciarsi nella prima folle corsa verso i propri tifosi, con il sottofondo di un urlo liberatorio che ha abbondantemente superato i confini del vecchio stadio. Eccolo lì il sogno che diventa realtà mentre l’eroe dei play-off si gode la sua prodezza e tu cerchi di conservare equilibrio e salute in una curva che sbanda di gioia. Anche gli ospiti capiscono che non è tempo per beffe ed amare sorprese, Legnano non sarà mai come Trieste, Como o Vico Equense, questo Spezia ha troppi conti in sospeso per cedere sul più bello. Questa gente deve dimenticare un fallimento, le trasferte improbabili della serie D e le difficoltà della Prima Divisione; questa gente ha una squadra ed un ragazzo che giocano con il cuore e merita tutto quello che novanta minuti, e non di più, possono regalare. Una perla ad esempio, come quella che s’inventa solo dieci minuti dopo ancora lui, ancora Alessandro Cesarini: esterno destro di prima intenzione, palla sul palo e poi in rete, come all’andata con Furlan spettatore immobile. La corsa questa volta è sfrenata, incontenibile come la gioia che in pochi secondi ti fa sentire finalmente lontano da tutto quello che hai vissuto fino a poche settimane fa, dilata le emozioni ed i minuti che non passano mai anche se la fine dell’incubo è ormai vicinissima. La vedi lasciandoti alle spalle Giaveno, Noceto e Ciriè, le amichevoli al Tanca e a Pietrasanta i “campi sportivi” e l’indifferenza della gente. Alla fine dell’incubo c’è la gente che in queste due stagioni è sempre rimasta al proprio posto sotto il sole o la pioggia, è lì e finalmente festeggia con gli eroi di questo Spezia: Lazzaro, Enow e tutti gli altri, compreso il ragazzo che continuerà a correre ancora a lungo sotto la sua Ferrovia.

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