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In trasferta con Phil, aquilotto di Aldershot

Phil Franklin a Salerno (foto Benedetto Marchese)

(@dettobene)

Ai tornelli del Picco è ormai un volto noto ma in trasferta non passa certo inosservato agli occhi degli steward, non solo per la stazza imponente ma soprattutto per le generalità dei documenti che rivelano immediatamente l’insolita origine britannica di Mr. Philip Franklin, classe 1950 e per tutti Phil, ormai assiduo sostenitore degli aquilotti sia in casa che fuori. È accaduto anche ieri pomeriggio ai cancelli dell’Arechi di Salerno, dove i ragazzi che hanno controllato il suo biglietto non hanno perso occasione per chiedergli delle sue origini e della sua passione. “E’ colpa loro” ha replicato sorridendo ed indicando i compagni di viaggio con i quali ha intrapreso il viaggio di 1300 chilometri fra andata e ritorno. Seconda trasferta stagionale dopo quella di Bari all’esordio e le molte delle ultime quattro stagioni, fra le quali Latina, Pescara, Lanciano, Empoli e Cittadella, sul pullman con i ragazzi della Curva Ferrovia o in auto con gli amici.
Una storia la sua che si unisce alle tante nate nel tempo grazie allo Spezia (anche con altri tifosi inglesi come protagonisti) e sempre caratterizzate da una grande passione, per il calcio ma anche per tutte le sensazioni ed esperienze ben più importanti che riesce a sviluppare. “Sono venuto per la prima volta in Italia in viaggio di nozze – racconta a Cds – era il luglio del 1982, la vigilia della finale dei Mondiali e c’era un’atmosfera incredibile. Poi nove anni fa mia moglie mi ha detto “Voglio una casa in Italia, voglio abitare vicino a questo posto, mi piace il nome” ha indicato Fivizzano sulla mappa così siamo finiti poco distanti, vicino a Villafranca. Ha deciso tutto lei – aggiunge con ironia – ma alla fine c’ho guadagnato io visto che all’inizio potevamo venire solo per alcune settimane all’anno poi da quando sono andato in pensione da British Telecom ho potuto iniziare a trascorrere qui diversi mesi, mentre lei lavora in Inghilterra”.

Da Aldershot sua città natale dell’Hampshire fino alla Lunigiana e al Picco, sempre con il calcio come filo conduttore. “Per quarant’anni ho seguito la squadra locale che ora milita in Conference – racconta – poi quando mi sono trasferito al Nord sono stato abbonato per una decina di stagioni al Newcastle fino a che mi sono stufato perché l’atmosfera del calcio inglese era sempre più sterile, io quando guardo una partita allo stadio voglio stare in piedi e lì non è più possibile, solo a Leeds i tifosi continuano a farlo. Stando qui mi è tornata la voglia di andare allo stadio, conoscevo solo il Genoa poi ho scoperto dal giornale che c’era anche lo Spezia ma non sapendo come fare per i biglietti ho chiesto ad un anziano amico del Bar Nello di Vilallafranca che tifa il club. inizialmente non è riuscito ad aiutarmi poi il giorno dopo mi ha rassicurato: “c’è una persona che ti vuole parlare” ed è arrivato Vinci. Non lo conoscevo ma poco dopo ha detto “ok, tu puoi venire con noi” ed eccomi qui a Salerno – sottolinea ridendo – per colpa sua”.
Un paio di birre, qualche racconto con uno dei baluardi del tifo aquilotto in Lunigiana, ed ecco quattro stagioni di partite in viale Fieschi e in giro per l’Italia, di cui tre da abbonato, l’ultima delle quali iniziata da pochi giorni. “Ho visto la prima partita in Coppa Italia nell’agosto 2012, era Spezia-Sorrento (4-1 il finale). La prima cosa che ho pensato entrando in curva? Ho respirato la stessa atmosfera che c’era in Inghilterra trent’anni fa: qui è tutto completamente diverso, c’è un gran tifo e si può stare in piedi, un atteggiamento che mi piace, perfetto. La prima trasferta l’ho fatta a Castellamare di Stabia e poi tutte le altre. Devo dire grazie a Vincenzo – precisa – senza di lui non avrei mai visto lo Spezia e incontrato tanti nuovi amici che sono contentissimo di aver conosciuto, lui è molto generoso e come diciamo in Inghilterra “madder than a box of frogs”, più pazzo di una scatola di rane”. Il sorriso che segue è lo stesso che accompagna le ore spese al seguito dgli aquilotti, unito alla curiosità nel vedere luoghi e stadi sempre nuovi, con buona pace della moglie. “Ah lei è crazy più di me – sorride – un giorno è uscita per comprare un frigo ed è tornata con un’auto, per lei non c’è problema se vado in trasferta. A 65 anni cerco di vivere ogni giorno nel modo migliore – conclude – quando mi chiamano per una nuova avventura con lo Spezia rispondo sempre ‘si’, mi preparo e vado volentieri”. Livorno è dietro l’angolo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 20 settembre 2015)

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Buon viaggio Ramon

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(@dettobene)

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché”, una sensazione più che un’idea sensata, che accomuna tutti coloro che negli ultimi quarant’anni si sono ritrovati almeno una volta a seguire lo Spezia in trasferta o al Picco, a soffrire, gioire o a rischiare qualcosa insieme ad altri ragazzi magari sconosciuti o lontanissimi per età, ideologie ed estrazione sociale ma legati indissolubilmente dalla stessa passione. È stato così anche per Ramon Bertucci, uno dei pochi veri leader riconosciuti, stimati e rispettati da tutti, anche dai nemici, che questa tifoseria abbia espresso nel corso della sua storia sempre caratterizzata dalla presenza di un gruppo solido più che da singoli condottieri.
Lui è stato uno di questi a partire dai primi anni Ottanta e per lungo tempo, guida carismatica della curva e interprete di quello spirito ruvido e orgoglioso che ha sempre caratterizzato gli Ultras Spezia, fino a questa mattina quando il suo cuore tormentato da anni di malattia si è fermato per sempre consegnando la sua esistenza all’epica viscerale e un po’ scorbutica di questa squadra e della sua gente che oggi lo ricorda con emozione, dai più giovani cresciuti con i racconti delle sue imprese, ai suoi coetanei. Un gruppo di giovanissimi, tutti classe 1967, che all’epoca vennero definiti “Gli Ultras di Ramon” proprio per la fedeltà a quella figura che incuteva timore negli altri e sicurezza agli amici, imponente, duro ma sempre impeccabile. Insolitamente elegante nel suo completo bianco o nell’impermeabile chiaro mentre bomber e giacconi sgargianti erano il simbolo di quegli anni in cui i propri colori, soprattutto i vessilli, andavano difesi nel vero senso della parola ogni domenica, soprattutto in trasferta dove il coraggio veniva prima delle parole e la reputazione si costruiva con i fatti. Con i suoi ragazzi aveva tenuto alto il nome degli Ultras Spezia da Carrara a Lucca, da Reggio Emilia a Trieste e in ogni luogo che aveva visto scendere in campo gli aquilotti in campionati raramente entusiasmanti. E proprio loro, i suoi fedelissimi, gli sono stati sempre vicini in questi ultimi anni segnati da una malattia che lo ha reso indifeso e vulnerabile ma senza mai sopirne l’ardore in quello sguardo che brillava in ogni occasione in cui una torcia illuminava sciarpe o striscioni oppure quando la curva si riuniva per occasioni particolari, nel quarantennale degli Ultras Spezia del novembre scorso quando gli venne dedicato un applauso emozionante o solo poche settimane fa per la festa di Ceparana.
In una vita caratterizzata dall’amore per la maglia bianca, ha sempre avuto al suo fianco la moglie Teresa angelo custode e madre di sua figlia Jennifer, che ne aveva assorbito la forza e il carisma nei momenti più duri dedicandogli ogni istante con amorevole cura, portandolo al Picco, a San Siro o a Chiavari come nell’ultima occasione, tenendolo sempre a stretto contatto con la sua passione che aveva espresso anche al termine del viaggio in moto a Capo Nord, esibendo l’immancabile sciarpa degli Ultras dei quali aveva scritto pagine indelebili, conquistandosi anche una solida fama anche al di fuori della città e delle categorie viste con lo Spezia. Aveva infatti frequentato spesso anche la Curva Nord dell’Inter e la Gradinata Sud della Sampdoria, mentre l’anno scorso, nel periodo della malattia, gli ultras della Roma gli avevano dedicato uno striscione molto affettuoso incoraggiandolo a non mollare. Pensieri e preghiere che gli amici di sempre e tutti coloro che negli ultimi trent’anni hanno condiviso la sua stessa passione, hanno portato avanti con ostinazione fino a ieri senza mai perdere la speranza e il coraggio come lui aveva insegnato loro, sempre fedele a se stesso e al suo modo di essere. Gli stessi che in queste ore si stringono attorno alla sua famiglia.

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché – scrisse sul libro che racconta la storia del tifo spezzino – da lì passione, treni, a volte pullman e ancora treni, chilometri su chilometri in nome di quella maglia bianca che ti prendeva in maniera indescrivibile e riassumibile solo con: passione. Ed è così che la tua giovinezza cambia, tutto ti prende e modifica il tuo modo di essere, di vedere le cose e nel bene e nel male inizi a definirti ultras. Domenica dopo domenica – proseguì – anno dopo anno, le facce sempre quelle, pulite, sempre in simbiosi l’una con l’altra tanto da percepirne costantemente sensazioni e stati d’animo”. Una lunga riflessione sui valori del passato e quelli di un presente vissuto più in disparte nonostante una presenza mai banale sintetizzata nel finale: “In definitiva non so’ cosa mi abbia legato a tutto ciò, ma so’ quello che mi manca: “butta una biretta”, “ce l’hai un birillo?” e “A semo in pochi, andemo lo stesso”. Voci sempre presenti”.
Voci innamorate e sincere di un popolo che oggi piange un uomo leale e coraggioso.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 6 maggio 2015)

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Appunti su un viaggio a Terni

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@dettobene

il ‘socialismo reale’ di Ciccio; Ciccio che si allontana con un monopattino svanendo nel nulla come Kaiser Soze; la Multipla e il doppio cd dei Clash rimasto lì dall’ultima trasferta; i nuvoloni del perenne stato d’allerta; Luca, Pisa e il trekking alle Seychelles; le lasagne della mamma del Baldo; il Baldo cinico; i racconti di Cavallo; il giovane Diesel che dorme come me; il Diesel che ogni tanto scuote la testa; il telefono moribondo e il Panda insofferente; il Lappe a casa che tribola; la cioccolata alla nocciole; il budello verso lo stadio; ‘i just can’t get enough’ prima della partita; i tre gradini dove bisogna stare uno addosso all’altro; ilGianca&laSonia; Marco in forma e il fante in balaustra; 150 molesti; Ebagua Chichizola la traversa il gol annullato; un punto importante; ‘vi vogliamo così’; ‘tutto lo stadio: perugino pez…’ e tutto lo stadio dietro; tanta roba; saluti; ‘quelli sono spezzini’ ‘oh caselanteeee!!!’; panino metano pizza; Barberino; come Barberino?!!; nooooo; casello di Roncobilaccio; sgomento; il pareggio della Croazia; ‘piove, ormai ci siamo’; Santo Stefano; casa. Riavvolgi, riparti, avanti Aquilotti!.

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Andiamo a San Siro

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(@dettobene)

Prenota un pulmino, il 9 gennaio andiamo a San Siro!”. Mentre mi volto a guardare la signora che mi passa a fianco parlando al cellulare per pianificare la trasferta, incrocio un bimbo che chiede al padre: “Ma allora giochiamo contro il Milan?”. Cammino in via dei Pioppi in mezzo alla gente che esce dallo stadio, fra i bambini delle giovanili che superano i cancelli soddisfatti e disordinati e la gente che già s’interroga su numeri, biglietti e formazioni. Si, adremo a Milano – o meglio, per ora ci andrà lo Spezia perché senza tessera non so se riuscirò ad entrare – e andremo a giocarci un ottavo di Coppa Italia a casa Berlusconi, partita secca. Quattro anni fa eravamo a Vico Equense e a gennaio saremo al Meazza maleducati e orgogliosi come sempre. Un premio per 107 anni di storia sempre sofferti e sudati in ogni partita, o forse un imprevisto in quel percorso fatto di culo, sfighe e, coraggio che è il calcio. Si perché in altri periodi un’occasione come quella di oggi l’avremmo buttata via malamente, magari al novantesimo dopo una partita tutta all’attacco. Invece no, l’essere arrivato in ritardo come al solito, ma un minuto prima del momento cruciale di Spezia-Pescara, mi ha permesso di guardare in faccia Ebagua come tutta la Ferrovia; osservarlo mentre caricava il tiro e buttava dentro l’1-0. Se non fosse stato il pomeriggio giusto quel pallone sarebbe finito chissà dove. Invece fuori ci sono andati due dei loro nel giro di cinque minuti. Ok, sei in vantaggio e in undici contro nove però la devi chiudere perché non si sa mai. Basta aspettare un pochino poi Sansovini firma il 2-0. Ecco, visto il suo momento se segna così anche lui allora è quasi fatta. Anzi, lo è perché per tutto il secondo tempo si parla solo di pullman, di amici da avveritire, delle espressioni di Galliani, di Borghese con Balotelli e di Ebagua che più s’incazza e più segna. Quando Rivas infila il 3-0 siamo già tutti in viaggio per San Siro, incolonnati in tangenziale, emozionati e molesti. Ci siamo tutti, siamo una marea e facciamo ‘O bela speza’ con gli altri che ci stanno a guardare e quelli in balaustra che si dannano per farsi sentire. Dopo aver visto tutta l’Italia, anche nei posti più infimi, siamo a Milano, San Siro, in una notte di gennaio che racconteremo per settimane. Ci penso mentre faccio lo stesso tragitto di ogni partita per tornare alla macchina, fra palazzi, logoro cemento militare e il verde del Colombaio. Non ho fretta, mi godo il momento, la gioia e i sorrisi di chi s’infila in macchina o sfreccia in scooter suonando il clacson. I miei occhi lucidi invece li nascondo alzando il colletto del giaccone e abbassando un po’ di più il cappello, fa anche freddo ma oggi è solo un dettaglio.

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