I fantasmi di Ventimiglia e quelli di Kader Attia

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Da due giorni ho in mente questa foto scattata nel 2009 alla Saatchi Gallery di Londra. Era un’installazione dell’artista franco-algerino Kader Attia inserita all’interno dell’esposizione “Unveiled: New Art from the Middle East” allestita nella galleria nei pressi di Sloane Square, in uno dei miei angoli preferiti della città. L’opera si intitolava “Ghost” e rappresentava un gruppo di donne musulmane in preghiera, “gusci vuoti – riporta ancora il sito – cappe vuote prive di spirito e personalità, figure aliene e futuristiche che sintetizzano l’abietto e il divino”. Un lavoro che metteva in discussione ideologie e rituali “dalla religione al nazionalismo e al consumismo” in relazione “alle identità individuali e alla percezione sociale, la devozione e l’esclusione”. Figure di semplice carta stagnola accartocciata. Fragili, senza volto né identità. 

Una condizione che, in un contesto completamente diverso dall’altro lato della mia Liguria, in queste ore sembra corrispondere a quella delle decine di migranti abbandonati sugli scogli di Ventimiglia. Avvolti nelle termocoperte in attesa di conoscere il proprio futuro, di lasciare questo paese di passaggio dopo essersi lasciati alle spalle le proprie case per cercare una condizione di vita migliore altrove. Uomini, donne e bambini sospesi fra burocrazia, incapacità e odio. Come fantasmi in terra straniera, con le loro storie, le proprie speranze e il diritto di reclamare aiuto e dignità.

Migranti a Ventimiglia (foto Repubblica.it)

(foto da Repubblica.it, qui altre immagini)

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Lo “Specchio” dei Subsonica contro i disturbi alimentari

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“In Italia 3 milioni di persone soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Nel 90% dei casi si tratta di donne adulte, adolescenti e bambine. La maggior parte ha subito abusi e maltrattamenti”. Parte da qui il cortometraggio dei Subsonica realizzato da Luca Pastore (già autore di altri loro video) che da oggi accompagna il singolo “Specchio”, estratto dall’ultimo album ‘Una nave in una foresta’, che si apre proprio con la testimonianza di una ragazza che elenca gli effetti devastanti di problemi il più delle volte sottovalutati nella loro fase embrionale.

“Una storia di voci e di immagini – scrivono oggi Max e compagni – che parlano del rapporto con il cibo quando questo rapporto diventa malattia. Parlano del perché e anche del come sia troppo facile spalancare una porta che non si richiude mai con facilità. Il problema dell’anoressia e dei disturbi alimentari, oggi interessa troppe persone: ragazze, donne ma ormai anche bambine. E anche uomini. Noi non pretendiamo di risolvere un problema – aggiungono – nemmeno di intaccarlo. Però forse meglio di altri possiamo contribuire a spazzare via i tabù che ostacolano la circolazione di cose che si devono sapere. Noi abbiamo creduto molto e ci crediamo molto”. Un messaggio molto importante rivolto ad un pubblico ormai molto trasversale e abituato ad dialogo sempre costante ed aperto con il gruppo torinese, anche sulle tematiche più delicate che possono essere efficacemente affrontate anche con musica ed immagini come in questo caso.

Una bella iniziativa. Bravi.

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Buon viaggio Ramon

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“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché”, una sensazione più che un’idea sensata, che accomuna tutti coloro che negli ultimi quarant’anni si sono ritrovati almeno una volta a seguire lo Spezia in trasferta o al Picco, a soffrire, gioire o a rischiare qualcosa insieme ad altri ragazzi magari sconosciuti o lontanissimi per età, ideologie ed estrazione sociale ma legati indissolubilmente dalla stessa passione. È stato così anche per Ramon Bertucci, uno dei pochi veri leader riconosciuti, stimati e rispettati da tutti, anche dai nemici, che questa tifoseria abbia espresso nel corso della sua storia sempre caratterizzata dalla presenza di un gruppo solido più che da singoli condottieri.
Lui è stato uno di questi a partire dai primi anni Ottanta e per lungo tempo, guida carismatica della curva e interprete di quello spirito ruvido e orgoglioso che ha sempre caratterizzato gli Ultras Spezia, fino a questa mattina quando il suo cuore tormentato da anni di malattia si è fermato per sempre consegnando la sua esistenza all’epica viscerale e un po’ scorbutica di questa squadra e della sua gente che oggi lo ricorda con emozione, dai più giovani cresciuti con i racconti delle sue imprese, ai suoi coetanei. Un gruppo di giovanissimi, tutti classe 1967, che all’epoca vennero definiti “Gli Ultras di Ramon” proprio per la fedeltà a quella figura che incuteva timore negli altri e sicurezza agli amici, imponente, duro ma sempre impeccabile. Insolitamente elegante nel suo completo bianco o nell’impermeabile chiaro mentre bomber e giacconi sgargianti erano il simbolo di quegli anni in cui i propri colori, soprattutto i vessilli, andavano difesi nel vero senso della parola ogni domenica, soprattutto in trasferta dove il coraggio veniva prima delle parole e la reputazione si costruiva con i fatti. Con i suoi ragazzi aveva tenuto alto il nome degli Ultras Spezia da Carrara a Lucca, da Reggio Emilia a Trieste e in ogni luogo che aveva visto scendere in campo gli aquilotti in campionati raramente entusiasmanti. E proprio loro, i suoi fedelissimi, gli sono stati sempre vicini in questi ultimi anni segnati da una malattia che lo ha reso indifeso e vulnerabile ma senza mai sopirne l’ardore in quello sguardo che brillava in ogni occasione in cui una torcia illuminava sciarpe o striscioni oppure quando la curva si riuniva per occasioni particolari, nel quarantennale degli Ultras Spezia del novembre scorso quando gli venne dedicato un applauso emozionante o solo poche settimane fa per la festa di Ceparana.
In una vita caratterizzata dall’amore per la maglia bianca, ha sempre avuto al suo fianco la moglie Teresa angelo custode e madre di sua figlia Jennifer, che ne aveva assorbito la forza e il carisma nei momenti più duri dedicandogli ogni istante con amorevole cura, portandolo al Picco, a San Siro o a Chiavari come nell’ultima occasione, tenendolo sempre a stretto contatto con la sua passione che aveva espresso anche al termine del viaggio in moto a Capo Nord, esibendo l’immancabile sciarpa degli Ultras dei quali aveva scritto pagine indelebili, conquistandosi anche una solida fama anche al di fuori della città e delle categorie viste con lo Spezia. Aveva infatti frequentato spesso anche la Curva Nord dell’Inter e la Gradinata Sud della Sampdoria, mentre l’anno scorso, nel periodo della malattia, gli ultras della Roma gli avevano dedicato uno striscione molto affettuoso incoraggiandolo a non mollare. Pensieri e preghiere che gli amici di sempre e tutti coloro che negli ultimi trent’anni hanno condiviso la sua stessa passione, hanno portato avanti con ostinazione fino a ieri senza mai perdere la speranza e il coraggio come lui aveva insegnato loro, sempre fedele a se stesso e al suo modo di essere. Gli stessi che in queste ore si stringono attorno alla sua famiglia.

“Ti ci ritrovi dentro e non sai nemmeno perché – scrisse sul libro che racconta la storia del tifo spezzino – da lì passione, treni, a volte pullman e ancora treni, chilometri su chilometri in nome di quella maglia bianca che ti prendeva in maniera indescrivibile e riassumibile solo con: passione. Ed è così che la tua giovinezza cambia, tutto ti prende e modifica il tuo modo di essere, di vedere le cose e nel bene e nel male inizi a definirti ultras. Domenica dopo domenica – proseguì – anno dopo anno, le facce sempre quelle, pulite, sempre in simbiosi l’una con l’altra tanto da percepirne costantemente sensazioni e stati d’animo”. Una lunga riflessione sui valori del passato e quelli di un presente vissuto più in disparte nonostante una presenza mai banale sintetizzata nel finale: “In definitiva non so’ cosa mi abbia legato a tutto ciò, ma so’ quello che mi manca: “butta una biretta”, “ce l’hai un birillo?” e “A semo in pochi, andemo lo stesso”. Voci sempre presenti”.
Voci innamorate e sincere di un popolo che oggi piange un uomo leale e coraggioso.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 6 maggio 2015)

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La collina di Sant’Anna

Sant'Anna di Stazzema (@dettobene)

“Non sentiamoci in pensione, non dimentichiamo”. A poche ore dall’immane tragedia del Canale di Sicilia, Enrico Pieri saluta con queste parole la comitiva giunta appositamente dall’Emilia e salita fino a 660 metri dal litorale della Versilia per vedere con i propri occhi il paese che il 12 agosto 1944 fu investito dalla furia nazifascista. E’ l’amara domenica del dramma dei 700 migranti annegati nel Mediterraneo davanti alle nostre coste, un fatto al quale l’anziano Pieri dedica un pensiero prima di tornare al racconto di quel giorno di settant’anni fa quando – sottolinea – “gli italiani portarono qui i tedeschii”. Fra i pochi superstiti della strage di Sant’Anna di Stazzema – dove nel 2000 è stato istituito il parco della pace – lui aveva infatti 10 anni quando si consumò uno dei più atroci crimini commessi ai danni delle popolazioni civili.

Sant'Anna di Stazzema

“Quel mattino di agosto – si legge in uno dei pannelli che accolgono i visitatori all’inizio del paese – a Sant’Anna uccisero i nonni, le madri, uccisero i figli e i nipoti. Uccisero i paesani ed uccisero gli sfollati, i tanti saliti, quassù, in cerca di un rifugio dalla guerra. Uccisero Anna, l’ultima nata nel paese di appena 20 giorni, uccisero Evelina, che quel mattino aveva le doglie del parto, uccisero Genny, la giovane madre che, prima di morire, per difendere il suo piccolo Mario, scagliò il suo zoccolo in faccia al nazista che stava per spararle, uccisero il prete Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, uccisero gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. 560 ne uccisero, senza pietà in preda ad una cieca furia omicida. Indifesi, senza responsabilità, senza colpe. E poi il fuoco, a distruggere i corpi, le case, le stalle, gli animali, le masserizie. A Sant’Anna, quel giorno, uccisero l’umanità intera”.

Sant'Anna di Stazzema

Un massacrò che si consumò nella piazzetta dove Pieri lascia il gruppo mentre io raggiungo il vicino Museo della Resistenza dove sono custoditi ricordi, reperti e immagini della strage, compreso il pannello con le foto e i nomi delle vittime sotto i sedici anni sterminati dalle SS (qui alcune testimonianze e informazioni sul depistaggio e l’inchiesta). Volti innocenti di neonati, bimbi e ragazzi brutalmente trucidati con genitori, nonni e parenti.

Sant'Anna di Stazzema

I loro corpi vennero accatastati e bruciati davanti alla chiesa – al cui interno sono ancora visibili i segni delle granate – e sotterrati. Solo nel 1948 i resti vennero raccolti nell’ossario che si trova al Col di Cava situato sopra al paese. Ci si arriva tramite la Via Crucis, un ripido sentiero lastricato e costeggiato da “formelle di bronzo, realizzate da insigni artisti, che collegano il Calvario di Cristo all’eccidio e, simbolicamente, le 560 vittime del 12 agosto 1944 ad ogni altro martire, della guerra e della violenza, di ogni luogo e di ogni tempo”.

Sant'Anna di Stazzema

Con la sua imponenza che induce ad un rispettoso silenzio il monumento domina una vista che unisce miglia di mare ad un lungo tratto di quella Versilia che nelle sue passeggiate domenicali sembra ben più lontana dei pochi chilometri di ripidi tornanti.

Sant'Anna di Stazzema

In una cappella all’inizio del vialetto che porta all’ossario sono appese una bandiera della pace e un drappo di Antifaschistische Aktion mentre un logoro tricolore ricorda la presenza di uno Stato che qui torna ad ogni ricorrenza (mentre sabato 25 aprile Sant’Anna ospiterà una puntata speciale di “Che tempo che fa” di Fabio Fazio).

Sant'Anna di Stazzema

Poco distante si trova invece quel che resta della grande lapide con i nomi dei 560 morti di Sant’Anna, abbattuta dal vento nel marzo scorso e già al centro di una raccolta fondi per la sua ricostruzione. I pezzi di granito e le lettere di ottone sparpagliate nell’erba legano i destini dei morti per l’odio nazifascista. Vittime innocenti che dormono su una collina che racconta il peggio dell’essere umano e una storia che non deve essere dimenticata.

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“Everybody knows” il gran ritorno dei Bluebeaters

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Ci sono voluti sei anni ma ne è valsa davvero la pena. Lo confermano i primi ascolti di “Everybody Knows” nuovo disco dei Bluebeaters uscito oggi per Record Kicks in tutti i negozi e su tutte le piattaforme digitali. Anticipato dai singoli Toxic, Catch that teardrop e Roll with it l’album segna un deciso ritorno alle origini del progetto partito ormai ventuno anni fa e rivitalizzato da un rinnovamento che nei mesi scorsi ha riportato in studio Cato, Ferdi, Tbone, Parpaglione e Pat Cosmo, uomo in più di un collettivo che nella nuova casa discografica ha ritrovato quell’atmosfera roots che si era affievolita nel tempo.

Registrato nello studio Andromeda di Max Casacci nella Torino che li aveva visti nascere, “Everybody Knows” unisce i classici ritmi ska e rocksteady ad un suono fresco, attuale e perfettamente esportabile come dimostrano i numerosi passaggi radiofonici assicurati nei giorni scorsi su Bbc 1xtra da David Rodigan. Dal classicone “Somebody has stolen my girl” alla sorprendente “La mia geisha” di Tenco (fra le migliori) le quattordici tracce attingono ad un repertorio vastissimo che da Britney Spears arriva a Kraftwerk, Springsteen e Oasis esprimendo al meglio qualità e passione del gruppo completato da Pakko e Davide Cuccu. Non mancano le collaborazioni come quelle di Maya, Giorgio Silvestri e Peter Truffa anche se il featuring più significativo è sicuramente quello di Bunna che duetta con Pat Cosmo in una splendida versione di “Girlfriend in a coma” degli Smiths.

In un album nuovamente illuminato dall’entusiasmo degli esordi, perfetto nella sua resa dal vivo, brilla infine la versione di “Teenage kicks” degli Undertones che si chiude sulle note e le parole di “Revolution Rock” di quei Clash che restano un punto di riferimento nel background del gruppo.

Tell your ma, tell your pa: the Bluebeaters are back!

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Addio al produttore Carlo Ubaldo Rossi

Dischi Carlo U. Rossi

(@dettobene)

Oggi pomeriggio a Revigliasco nel torinese ha perso la vita in un incidente stradale Carlo Ubaldo Rossi – 57 anni -compositore, arrangiatore e produttore fra i più importanti e stimati del panorama musicale italiano. Ho saputo della sua morte da un post pubblicato da Meg, una delle tantissime persone passate dal suo studio a Torino. Carlo U. Rossi aveva iniziato la sua carriera a metà anni Ottanta con i primi gruppi New Wave nella città piemontese e poi a Firenze con i Litfiba (qui la sua biografia) e nel 1987 aveva dato vita al Transeuropa Recording Studio. Da lì sono passati tantissimi di artisti più o meno famosi ma dalla fine dei Novanta in poi da quello studio sono usciti praticamente tutti gli album che ho ascoltato negli ultimi vent’anni: dai Mau Mau ai Subsonica, dai Bluebeaters agli Africa Unite fino a 99 Posse, Alborosie e appunto Meg. Ha vinto dischi d’oro e di platino con Capossela, Baustelle, Caparezza, Ligabue, Arisa, Ligabue e 883, e prodotto un elenco sterminato di dischi  raccolti qui. Una grandissima figura, forse poco nota, della musica italiana. Una perdita immensa.

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“Roll whit it”, quattro chiacchiere su Bluebeaters e Record Kicks

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E’ uscito oggi il nuovo video dei Bluebeaters, anzi, il primo video del nuovo corso e del ritorno alle origini di cui avevo scritto anche quiRealizzato da quelli di John Snellinberg Film anticipa l’uscita del singolo “Roll with it” (si, Patcosmo è meglio di Gallagher) prevista per lunedì su Recordkicks. A questo proposito pubblico il pezzo fatto nei giorni scorsi con Nicolò Pozzoli, fondatore della casa discografica che farà uscire l’album dei BB. 

Uscirà il prossimo 13 aprile, dopo sei anni d’attesa, il nuovo album dei Bluebeaters dal titolo “Everybody Knows” che segnerà anche il ritorno ufficiale di una band che dopo aver raggiunto il traguardo del ventesimo anno di attività l’anno scorso si era esibita di nuovo dal vivo dopo la separazione da Giuliano Palma. Un ritorno al passato, sia nello stile che nello spirito ‘rocksteady e sudore’ che aveva subito riacceso la passione dei fan della prima ora e di tutti gli appassionati dei ritmi giamaicani degli esordi. Una seconda vita sancita ora dal lavoro in studio – anticipato dai singoli Toxic, Catch the teardroop e I saw mommy kissing Santa Claus con l’ottimo Pat Cosmo alla voce – che ha trovato come partner naturale la casa discografica “Recordkicks”. Un’etichetta indipendente con base a Milano che è ormai un punto di riferimento internazionale per le sonorità black, vintage funk, soul e afro beat, nata nel 2003 dalla passione dello spezzino Nicolò Pozzoli.

“Dopo aver fatto l’Università a Milano ho iniziato a lavorare con Vitaminic nel 1999 – racconta a Cds – occupandomi dei rapporti con le etichette discografiche e con quella interna che faceva soprattutto compilation. Poi dopo quattro anni ho deciso di andare via fondando Record Kicks (www.recordkicks.com), da subito indirizzata verso la black music non con l’obiettivo di ristampare vecchie cose su disco ma di andare alla scoperta di nuovi gruppi da lanciare. Oggi – sottolinea – ricevo decine di demo da tutto il Mondo ma dodici anni fa questo genere era meno in voga, poi il successo di cantanti come Amy Winehouse o Sharon Jones ha dato vita ad un filone che oggi vanta moltissimi nomi. Ci siamo focalizzati principalmente sul mercato estero con gruppi provenienti da Australia, Stati Uniti e Inghilterra e oggi – aggiunge – possiamo vantare più di 150 uscite con una sessantina di 45 giri, una pila di vinili alta come il Duomo. Per me è una grande soddisfazione – rivela – dato che negli anni ho avuto a che fare con la musica che mi piaceva di più e con personaggi che ho sempre seguito da appassionato collezionando dischi, come nel caso dei musicisti del “Trio Valore” o con dj come David Rodigan che passa molto spesso le nostre produzioni, cosa che avviene anche in altri programmi della Bbc, radio che ci ha sempre supportato. Questo è un grande motivo di orgoglio”.

Passione ed attitudine che hanno reso ancora più naturale l’incontro con i Bluebeaters, nato dall’esperienza del gruppo torinese “Soulful Orchestra” in cui militano alcuni membri storici come Cato e Parpaglione. “Dato che avevamo stampato i loro primi 45 giri abbiamo avuto l’idea di fare lo stesso con i Bluebeaters per farli girare un po’ all’estero. Corrispondevano esattamente al tipo di gruppo che volevo: italiano ma con un mood internazionale e il fatto che il primo singolo sia stato suonato moltissimo da radio francesi, americane e inglesi ha dimostrato che la cosa era fattibile, anche perché pochissimi altri in Europa suonano come loro. Insieme – spiega ancora Nicolò – abbiamo condiviso la decisione di tornare alle sonorità roots, una prosecuzione ideale del primo album del 1999 in linea con lo stile di Record Kicks. Una vera e propria ripartenza nata a Torino nello Studio Andromeda di Max Casacci, è stato un parto ma è venuto fuori un gran bel disco, con pezzi storici giamaicani, cover riarrangiate (perfetta la versione del brano di Britney Spears) e un solo brano italiano come bonus track finale. Vedremo come reagirà la gente anche perché ci sono grandi aspettative sui live dato che dai concerti dell’anno scorso era arrivata la prima risposta importante su questo auspicato ritorno alle origini.
Le prime date di marzo anticiperanno l’uscita di “Everybody Knows” e sono sicuro che il tour avrà un grandissimo successo, sono molto soddisfatto del risultato finale”.

Dall’incontro con Tommaso Colliva, altro spezzino che sta facendo cose egregie come fonico dei Muse, è nata invece la collaborazione con i Calibro 35 che ha permesso a Record Kicks di entrare anche nella classifica di vendite con l’ultimo disco della band “Traditori di tutti” pubblicato nel 2013. “Anche in questo caso – rivela Nicolò – l’intesa è venuta fuori in modo del tutto naturale dato che Tommaso ci seguiva già da tempo e il gruppo aveva un suono molto apprezzato anche all’estero e perfetto per noi. Sono musicisti bravissimi – basta pensare che David Byrne ha inserito due dei loro pezzi nella sua playlist di febbraio – ed hanno saputo creare un genere che sta influenzando molte altre band, hanno un grande seguito anche fuori dall’Italia e ad aprile partirà il quarto tour europeo dell’ultimo lavoro”.
Se all’album dei Bluebeaters mancano poche settimane per quello dei Calibro 35 bisognerà probabilmente attendere il prossimo anno ma l’attività dell’etichetta proseguirà come sempre. “Facciamo al massimo tre o quattro produzioni all’anno – conclude Nicolò – nei prossimi mesi saremo impegnati Marta Ren & The Groovelvets e Hannah Williams and the Tastemakers. Spezia? Torno raramente ma quando posso corro al Picco a vedere gli aquilotti”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 24/02/15)

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“LVL07” il debutto della nuova Manchester

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Fuori di testa, autoironici ma soprattutto bravi; parecchio. Sono i membri del collettivo Levelz: artisti, musicisti e creativi, tutti rigorosamente di Manchester, alcuni dei quali già molto noti nella scena bass music britannica. Partito un anno fa dalla serata drum and bass/dubstep ‘Hit and run’ il progetto è proseguito con tre video mixtape ed è arrivato fino allo straordinario video di “LVL07” pubblicato ieri e il cui singolo sarà in download dal 22 dicembre. Sulle immagini della città del Nord e dei suoi nuovi alfieri (a tratti esilaranti) ripresi da Thomas Doran si alternano le rime di T-Man, Sparkz, Skittles, Fox, Truthos Mufasa, Chimpo, Chunky, Black Josh mentre il beat, che s’inserisce nel sound indefinibile ma ben riconoscibile che i vari membri del gruppo hanno prodotto negli ultimi tre anni, è opera di Biome, con la partecipazione di Metrodome, Rich Reason e il monumento mancuniano Zed Bias. Non è solo l’accento a diversificarli dalla marea di produzioni londinesi talvolta ripetitive, ma anche un approccio molto eclettico e ricco di influenze che vanno dalla jungle al rap e alla dancehall, impreziosite da quella scintilla creativa e innovativa che caratterizza Manchester da sempre, anche nella musica elettronica. 

Qui il podcast del loro recente passaggio a Rinse FM

(foto Zeyd Ayoob)

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Talenti e leggende: tutti i premiati ai Drum and Bass Awards 2014

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Cerimonia dal forte accento mancuniano ieri sera all’Indigo di Londra dove sono stati consegnati gli awards 2014 di Drum and Bass Arena, portale e punto di riferimento per la scena che proprio in questi giorni festeggia i suoi 18 anni di attività con un triplo cd. L’iniziativa, giunta alla sua sesta edizione, ha riunito ancora una volta protagonisti affermatissimi e talenti emergenti di un genere che sta vivendo un ottimo periodo con nuove contaminazioni e numeri davvero importanti. Come detto si è ritagliata uno spazio importante anche la vivacissima realtà di Manchester con Dub Phizix & Strategy che a tre anni dal successone di ‘Marka’ si sono assicurati il premio come miglior video con l’ultimo “Buffalo Charge”.

Della stessa banda anche il talentuosissimo Liam ‘Skittles’ Kelly che ha ricevuto il riconoscimento come miglior Mc emergente. C’è un po’ di nord anche nel duo Sigma che con lo splendido singolo “Nobody to love” ha sbaragliato la concorrenza ottenendo il meritatissimo premio per la miglior canzone che l’anno scorso aveva visto trionfare un altro pezzone come “Afterglow” di Wilkinson. I vincitori di queste tre categorie avevano ricevuto le mie preferenze come per la miglior serata ed etichetta dove non ho potuto fare a meno di votare la Hospital Records. Scontati ma meritatissimi i premi per Dynamite Mc (miglior Mc) e Andy C (miglior dj), con quest’ultimo che sta portando a casa ogni riconoscimento possibile e del resto non potrebbe essere altrimenti. Il boss della Ram ha infatti ottenuto il più alto numero di voti per il sesto anno consecutivo, tanto che come ha scritto qualcuno presto la categoria potrebbe essere ribattezzata “Andy C award”. Strameritato anche il riconoscimento per Fabio, inserito di diritto nella hall of fame come uno dei pionieri di un genere che da vent’anni spinge con impareggiabile eleganza.

Questi gli altri premiati: Emperor (dj emergente), Maduk (produttore emergente), Let it roll (festival), Camo & Krooked (live), State of Mind “Eat the Rich” (Album), Riya (vocalist) e Noisia (produttore).

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Appunti su un viaggio a Terni

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@dettobene

il ‘socialismo reale’ di Ciccio; Ciccio che si allontana con un monopattino svanendo nel nulla come Kaiser Soze; la Multipla e il doppio cd dei Clash rimasto lì dall’ultima trasferta; i nuvoloni del perenne stato d’allerta; Luca, Pisa e il trekking alle Seychelles; le lasagne della mamma del Baldo; il Baldo cinico; i racconti di Cavallo; il giovane Diesel che dorme come me; il Diesel che ogni tanto scuote la testa; il telefono moribondo e il Panda insofferente; il Lappe a casa che tribola; la cioccolata alla nocciole; il budello verso lo stadio; ‘i just can’t get enough’ prima della partita; i tre gradini dove bisogna stare uno addosso all’altro; ilGianca&laSonia; Marco in forma e il fante in balaustra; 150 molesti; Ebagua Chichizola la traversa il gol annullato; un punto importante; ‘vi vogliamo così’; ‘tutto lo stadio: perugino pez…’ e tutto lo stadio dietro; tanta roba; saluti; ‘quelli sono spezzini’ ‘oh caselanteeee!!!’; panino metano pizza; Barberino; come Barberino?!!; nooooo; casello di Roncobilaccio; sgomento; il pareggio della Croazia; ‘piove, ormai ci siamo’; Santo Stefano; casa. Riavvolgi, riparti, avanti Aquilotti!.

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Buon viaggio Califfo

Funerale Califfo

(@dettobene)

Ci sarà tutta la Curva Ferrovia domattina alle 11 alla chiesa del Favaro per l’ultimo saluto a Marco Canalini, per tutti “Califfo” scomparso ieri sera all’età di 52 anni, la maggior parte dei quali trascorsi al seguito dello Spezia. “Cali'” solo poche settimane fa era tornato al Picco per l’ultima volta, per vivere ancora l’atmosfera di un luogo in cui nessuno ti chiede cosa fai e da dove vieni, un luogo in cui la passione comune diventa legame fraterno. Lui veniva dal Favaro, quartiere che ha dato tantissimo alla storia del tifo spezzino compreso il gruppo degli ‘Irriducibili’ la cui la chiave inglese al centro dello striscione identifica l’estrazione popolare e saldamente legata alle proprie origini. Con loro aveva girato l’Italia in auto o su pullman sgangherati e oggi proprio quei ‘fratelli’ acquisiti macinando chilometri o cantando al freddo sotto la pioggia in campi sperduti, lo piangono commossi ricordando la sua semplicità, quel fisico esile, la voce roca, il sorriso e la barba grigia sopra il volto scavato dalla vita. Ha visto crescere tutti gli ultras che negli ultimi trent’anni hanno alzato al cielo una sciarpa aquilotta e con poche parole e una presenza discreta ma costante gli ha insegnato ad amare la maglia più dei giocatori, dei risultati e delle mode. I più giovani lo chiamavano ‘nonno’ e lui non mancava di prenderli in giro con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto.
Fiero del suo quartiere e della sua tradizione di sinistra frequentava attivamente il Circolo Arci e la Skaletta ed era un membro aggiunto dei VisiBì che lo ospitavano spesso durante le loro esibizioni.
Da domani il suo nome andrà ad aggiungersi a quelli di Mirco, Ilaria, Mattia e tutti gli altri presenti nel murales all’ingresso della Curva Ferrovia, mentre il suo ricordo resterà nelle persone che lo hanno conosciuto sui gradoni del Picco o per le strade del Favaro. (08/10/14)

Se non ci fosse stato il carro funebre ad indicarne inequivocabilmente il motivo, il corteo di questa mattina al Favaro avrebbe potuto essere scambiato per uno dei tanti che in questi anni hanno accompagnato le partite più importanti o i momenti storici nella storia dello Spezia Calcio. La presenza del feretro di Marco Canalini detto ‘Califfo’ davanti a parenti, amici di una vita o semplici conoscenti ha invece riportato tutti all’atmosfera triste e disperata che accomuna questi momenti. Torce, sciarpe e bandiere hanno così accompagnato lo storico sostenitore aquilotto, scomparso lunedì pomeriggio, dal piazzale del circolo Arci fino alla vicina chiesa dove diverse generazioni di ultras della Curva Ferrovia si sono strette attorno ai suoi parenti per cercare di alleviare un dolore che ha però riguardato tutti, in particolare i compagni di tanti episodi vissuti in lungo e in largo per la Penisola al seguito della maglia bianca.Momenti spesso tragicomici, talvolta pericolosi, dei quali si ricordano anche i dettagli più insignificanti e che fanno parte di un bagaglio di esperienze personali condivisibili solo con chi ti sei ritrovato a fianco a San Siro come ad Acireale. Pezzi di vita nei quali il calcio assume un ruolo quasi marginale come alcuni dei suoi interpreti che in una mattinata come questa avrebbero potuto apprendere sfumature emozionali molto significative sul proprio mestiere, toccando con mano gli aspetti più genuini della passione e dell’amicizia. Valori che hanno accomunato i tantissimi presenti che hanno dedicato al loro “Cali” lacrime sincere, rompendo un silenzio rispettosissimo solo per scandire il suo nome che presto tornerà a girare l’Italia su un drappo con i colori di una vita. (09/10/14)

(pubblicati su Cittadellaspezia)

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La scoperta dell’Acquacotta

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(@dettobene)

L’acquacotta, detta anche ‘del buttero’, è un piatto della tradizione popolare maremmana ma l’ho scoperto in Lunigiana, più precisamente a Mulazzo. Ieri sera infatti ho fatto parte di una delle giurie del concorso “Menu transfrontalieri” inserito nel progetto comunitario “Terragir 2” finalizzato alla promozione del territorio per la competitività e l’innovazione nello spazio costiero compreso fra Sardegna, Corsica, Liguria e Toscana. Gli studenti di sette istituti alberghieri (Nuoro, Genova, La Spezia, Lucca, Pisa, Grosseto e Massa-Carrara) si sono sfidati portando in altrettanti locali del pontremolese, dove si è svolto il premio “Bancarella della cucina”, le tradizioni enogastronomiche dei rispettivi luoghi di provenienza. All’agriturismo “Ca’ di Rossi” in località Busatica dove ho avuto il piacere di cenare si sono dati da fare ai fornelli e in sala i ragazzi dell’ISIS “Leopoldo II di Lorena” di Grosseto i quali hanno presentato quattro piatti realizzati con materie prime e ricette della loro terra. Fra questi, come primo, ecco “L’acquacotta del buttero”, una sorta di zuppa con verdure, pane raffermo e uovo, con numerose varianti. Un piatto povero e nutriente, una cosa strepitosa.

Ecco come viene raccontato nella pubblicazione “La cucina Maremmana in Cattedra” dello stesso istituto:

Dell’acquacotta esistono diverse varianti a seconda della zona, ma identica è la presenza del pane, meglio se raffermo, messo abbrustolito sul fondo della scodella prima di versarvi la minestra. Quella autentica era preparata solo col pane, cipolla, forse pomodoro e soprattutto acqua. Ne discendono la panzanella e la zuppa di fosso con chiocciole, anguille e rane, il “pan lavato” con il cavolo. L’acquacotta è la zuppa più primitiva, la più povera, era il mangiare dei butteri, dei banditi, dei carbonai, dei pastori che con gli armenti transumavano dall’Aretino alla piana, dalla piana all’Amiata. … Nella Maremma prima e durante la bonifica, la popolazione provvisoria, non aveva grandi comodità e si arrangiava cucinando solo la sera e nemmeno tutte le sere, quindi bisognava inventare una minestra che avesse sapore e “durasse” per più sere. Le donne impararono dai propri mariti e ne provarono le molteplici varianti, aggiungendovi gli ingredienti che secondo la stagione offrivano gli orti. Era un piatto che aveva anche la funzione di far utilizzare tutto il pane che veniva fatto in casa una volta alla settimana”.

(una ricetta interessante si può trovare QUI, vale la pena provare o cercare un ristorante in zona che la prepari)

Terragir2

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Last train to Monterosso (e Vernazza)

Monterosso

Benedetto Marchese (@dettobene)

Non avendo avuto il tempo necessario per organizzare una vacanza vera, ho deciso di spendere questi pochi giorni in cui sono riuscito a spegnere il computer sfruttando una delle ultime occasioni per passare un po’ di tempo al mare, grazie al clima molto estivo di questi primi giorni di settembre. Qualche bagno, un po’ d’aria buona e nessuna fretta di leggere mail o approfondire notizie, viaggiando sui treni regionali per recuperare un po’ di serenità, o meglio, ricordi di periodi più tranquilli, trascorrendo qualche ora fra Vernazza e Monterosso, i miei luoghi del cuore.

Monterosso

Per una quindicina d’anni infatti il malandato Gigante che sovrasta gli scogli di Fegina, mi ha visto crescere estate dopo estate. Ore ed ore trascorse ogni mese di luglio sulla stessa spiaggia oppure in acqua con maschera e fiocina a caccia di polpi. Giornate che finivano dopo le 20.00 quando con gli ombrelloni ormai chiusi e le sdraio vuote scendeva in spiaggia Gianni Brera. Accompagnato e sorretto dai figli arrivava fino a pochi metri dalla riva, toglieva l’accappatoio e s’immergeva lentamente in acqua. Il più delle volte eravamo gli ultimi a fare il bagno e dopo aver gironzolato ancora un po’ tornavo a casa per la cena dicendo “c’era anche quel signore anziano, quello con l’accappatoio”.

Monterosso
Ad eccezione di qualche tedesco era soprattutto la Monterosso delle famiglie di Spezia, Genova, Parma o Milano – alcune incontrate nuovamente con enorme piacere anche in questi giorni – scarseggiava l’acqua e il fenomeno ‘Cinque Terre’ doveva ancora ancora diventare globale. Quella odierna è invece una località sempre unica nel suo fascino ma molto più curata, accogliente (nonostante il prezzo dei posti letto) e completamente votata ad un flusso di turisti in larga parte stranieri. Fa un certo effetto arrivare in treno con americani, australiani, giapponesi e russi, vedere il loro stupore quando la gallerie si aprono su scorci fra i più belli in assoluto, oppure sentirli dialogare con commercianti e bagnini dal buon inglese con accento marcatamente monterossino.

 Monterosso

Un incessante via vai su spiagge e strade che ha incrociato i miei ricordi sovrapposti nel tempo uno dopo l’altro. Il tratto di strada verso casa dopo aver superato la salita che porta al Semaforo sul Mesco; le barche dei pescatori che spesso giungevano a riva con pesci lama, verdesche e orate; il carretto con le acciughe e i totani o l’ex ristorante “Il Gigante” (dove ho imparato a mangiare il pesce) e Villa Montale. Poi, poco distante, il cinema all’aperto con le sue scomodissime poltroncine, “Il Fornaio” con le sue focacce e il chiosco dei gelati, tappa fissa delle passeggiate serali. Più avanti la stazione dove mio papà mi portava a vedere i treni e il lungomare che collega la parte ‘nuova’ cresciuta negli anni Cinquanta al paese vecchio. Un panorama unico, dilatato dalla Palmaria a Punta Mesco, con gli altri paesi da un lato e dall’altro le pareti scoscese che delimitano il confine delle Cinque Terre. Una vista ancora più speciale se apprezzata dalla statua di San Francesco, poco sotto il convento dei Cappuccini con la torre Aurora in primo piano.

Monterosso

Un punto d’osservazione che lascia senza fiato (come la scalinata per raggiungerlo) aprendo la vista sul centro storico, profondamente ferito dall’alluvione del 2011 ma restituito ancora più bello dopo la ricostruzione. Oltre il ponte della stazione, dove si faceva la festa delle acciughe, andavo la mattina con i nonni a caccia di giocattoli quando venivano a trovarci. Ora nelle stradine attorno alla chiesa di San Giovanni Battista domina un brusio che accomuna tutte le sfumature dell’inglese e perfino i gattoni che stazionano davanti ai ristoranti si mettono in posa per scatti che finiranno in ogni parte del mondo.

Monterosso

Per quanto i turisti in tenuta da trekking l’abbiano ormai inserito le Cinque Terre fra le mete imprescindibili dei tour in Italia, con Napoli, Roma e Firenze, Monterosso ha comunque conservato il suo fascino innato e l’atmosfera suggestiva di alcuni dei suoi luoghi speciali. Strade, salite o panorami scoperti di anno in anno e a cui sono molto legato. Ma in questi giorni finalmente estivi non potevo fare a meno di una tappa a Vernazza, altra perla delle Cinque Terre che mi ha visto sgambettare fin da quando ero un bimbetto col caschetto.

Vernazza

Qui non tornavo da diversi anni, da prima dell’alluvione che aveva distrutto senza pietà via Roma e Piazza Marconi, sommerse da fango e detriti ora ricostruite meravigliosamente. Tanto che per chi arriva da fuori l’unica testimonianza di quel tragico ottobre è un pannello fotografico sotto la stazione, il cui intero reportage realizzato da Andrea Barletta si può trovare qui. Ogni giorno, soprattutto in questo periodo, lo vedono le centinaia di persone che scendono dal marciapiede. Si fermano, lo osservano, commentano e poi s’incamminano lungo la discesa che porta nella piazzetta. E’ un flusso continuo, che crea ingorghi davanti a gelaterie e focaccerie disperdendosi solo a pochi metri dal mare, con la chiesa di Santa Margherita da una parte e la passerella verso gli imbarchi e la scogliera dall’altra, dando al contesto una particolare dimensione internazionale.

Vernazza

Lì sulla sinistra c’è ancora il ristorante “Il Gambero Rosso”. Un tempo, con la precedente gestione della famiglia di Agostino, offriva i migliori muscoli ripieni in circolazione, le trofie al pesto, il ‘Tian Vernazza’, lo strepitoso latte fritto e il ‘dolce Andrea’. Nel piatti sotto gli ombrelloni intravedo cose trascurabili tirando avanti di fretta verso gli ultimi metri del porticciolo per godermi Monterosso in lontananza e la torretta del Castello Doria che domina tutto il paese. Decido di non salire fino lassù per tenermi il ricordo dell’ultima visita, ma anche per recuperare il tempo per un bagno che forse qui non ho mai fatto.

foto (39)

Il luogo perfetto è la ‘Spiaggia della tagliata’, mai vista prima perché riscoperta proprio dopo i fatti dell’ottobre 2011. Ci si arriva passando sotto un costone di pietra, una sorta di grotta che porta dietro Vernazza dove si apre uno scenario davvero affascinante. Dal caos di turisti della via principale si passa ad una distesa di sabbia e sassi stranamente non affollata come ci si potrebbe aspettare e raccolta in un’insenatura protetta di roccia e agavi. Mentre il sole di settembre asciuga il sale sulla pelle mi guardo intorno anch’io come gli altri, assaporando la quiete quasi irreale che si respira appena varcato il tunnel sotto le case. Mi godo anche la piacevole novità in un posto di cui credevo di conoscere ogni angolo da una ventina d’anni.

.Vernazza

Ripenso con un po’ di nostalgia ad un giocattolo scovato dentro una barca rovesciata nella piazzetta, alla curiosità nell’osservare i pescatori che preparavano i palamiti e ai viaggi notturni sulla ‘Littorina’ verso Monterosso attesa aggrappato alle gambe dei miei su un binario ventosissimo. Affollato e austero, l’ultimo treno della notte che percorreva gli stessi binari in senso opposto al regionale che fermata dopo fermata torna verso Sarzana.

Vernazza

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Berengo Gardin, il mestiere del fotoreporter

Berengo Gardin

(dettobene)

Non mi interessa il lirismo né la poesia, a me interessa documentare le cose”. Intervenuto nel secondo giorno del Festival della Mente di Sarzana ieri Gianni Berengo Gardin ha sintetizzato così il suo approccio alla fotografia, che ha contribuito a renderlo uno fra i più importanti fotoreporter in Italia e all’estero. Classe 1930, nato a Santa Margherita ma cresciuto nella Roma occupata, ha iniziato a fotografare con la macchina della madre, prima di intraprendere la carriera vera e propria a Venezia. “Inizialmente avevo velleità artistiche, facevo foto ai tramonti in Laguna – ha detto di fronte alla platea del Canale Lunense – poi più tardi leggendo i libri che mio cugino di mandava dall’America ho capito che sarebbe diventato un lavoro vero”. Un’esperienza alimentata dalle influenze della letteratura di Faulkner, Hemingway e Steinbeck: “Quando mi sono recato per la prima volta nei luoghi da loro descritti mi sono reso conto di conoscerli alla perfezione”. 

Narrazione e fotografia sono sempre state una costante nella carriera di Berengo Gardin, come spiegato dall’editore di Contrasto Roberto Koch che ha dialogato con lui sul palco: “Nel suo caso – ha evidenziato – c’è sempre stato un impegno concreto nel narrare usando la macchina come una penna. Narrazioni diverse come architettura, inchiesta e denuncia sociale”.
Il primo successo editoriale è arrivato proprio con un libro su Venezia accompagnato dai testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani, poi “Morire di classe” con Carla Cerati, pubblicazione di denuncia sulla condizione dei manicomi italiani nel 1968. “Franco Basagalia – ha ripreso Berengo – si batteva per la chiusura dei manicomi e nessuno fino a quel momento aveva mai pubblicato immagini sulle case di cura. Abbiamo fatto vedere a tutta l’Italia come vivevano i pazienti, contribuendo all’approvazione della legge 180 in Parlamento. In sei mesi ci siamo recati in diversi manicomi, anche a Firenze che era considerato uno dei peggiori. I direttori non ci facevano entrare ed erano gli stessi malati ad aiutarci per farsi fotografare, facendoci passare come parenti. Capivano l’importanza di quegli scatti”.
In ambito sociale un altro importante lavoro di Gianni Berengo Gardin ha riguardato le comunità rom di Firenze, Padova ed altre città: “Si parla spesso di loro in termini negativi – ha sottolineato – ma conosciamo solo una minima parte, ho vissuto con loro ed è stata un’esperienza particolare, come la collaborazione con Renzo Piano per il quale fotografavo i cantieri ancora in corso dando un contributo indispensabile al suo lavoro”.
Con la sua macchina a pellicola prima a tracolla e poi appoggiata sulla scrivania del Festival, a margine del suo apprezzatissimo intervento si è sottoposto con grande disponibilità all’affetto delle tantissime persone che lo hanno avvicinato per un saluto e un autografo, ma anche per avere un parere sulla tesi. Il suo tono pacato e sereno è cambiato solo quando si è trovato a parlare del presente e del futuro della fotografia, influenzata dall’avvento del digitale e degli smartphone. “Il telefonino si usa per telefonare – ha puntualizzato – e non per scattare. Mi sembra che ormai siano tutti fotografi ma questo è un mestiere come tutti gli altri che necessita di esperienza e studio ed ha le sue regole ben precise. Evitate di immortalare cose inutili. Non ce l’ho con il digitale – ha precisato – ma con i programmi di fotoritocco, molti miei colleghi scattano a raffica tanto dopo possono aggiustare tutto, ma così si riempiono i giornali di immagini false. Credo che l’era dei fotografi sia finita, almeno in certi ambiti”. Una preziosa lezione sul mestiere del racconto per immagini fatta con la massima consapevolezza: “Se ho avuto un certo successo – ha concluso – è perché ho sempre conservato lo spirito del dilettante senza mai smettere di fotografare”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 31 agosto 2014)

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L’ultima corsa del partigiano Sgancia

Funerali di Sgancia

(@dettobene)

Poco più di due settimane fa intonando “Fischia il vento” al termine dei funerali di Vanda Bianchi, Giuseppe Cargioli aveva tirato fuori le ultime lacrime rimaste ai tantissimi accorsi a salutare la staffetta partigiana ‘Sonia’. Lunedì sera un destino poco paziente si è improvvisamente portato via anche lui, quello che per tutti era “Sgancia”, un pezzo importante della Resistenza spezzina che all’età di 86 anni aveva ancora l’entusiasmo e la brillantezza del 1944, quando scelse i sentieri dei monti combattendo con Giustizia e Libertà, Gordon Lett, il comandante Tullio e la Brigata Garibaldi “Ugo Muccini”. Si era guadagnato il nome di battaglia che portava con orgoglio perché essendo un gran camminatore conosceva alla perfezione ogni sentiero del nostro territorio, spostandosi rapidamente da un monte all’altro durante i rastrellamenti portava così gli ordini di sganciamento alle diverse brigate.
“In queste ore ho sentito il dolore vero delle persone che gli volevano bene – ha detto la figlia Mara, aprendo le esequie che si sono tenute al cimitero dei Boschetti – era una persona meravigliosa ma tante volte mi sono chiesta da dove venisse tutto questo amore nei confronti di mio padre, oggi ho avuto la risposta. Per lui la famiglia era sacra – ha aggiunto – e qui sul suo feretro c’è tutto il suo mondo: la bandiera dell’Anpi di Lerici ricamata dalla madre e tre rose. Una per la moglie Lina che dalle colline emiliane fino all’Australia è sempre stata con lui, l’altra per me, perché mi ha insegnato ad affrontare la vita sempre a testa alta, mentre la terza è per la sua adorata nipote Simona. Quando pensate a papà – ha concluso – fatelo con un sorriso perché lui voleva questo”.
Lo ha invece ricordato come un compagno di battaglia “leale e disponibile” il Comandate Fra’ Diavolo Luigi Fiori: “Lui c’era sempre, con grazia e con affetto – ha sottolineato – è stato partigiano fino alla fine della guerra, sempre convinto di essere dalla parte del giusto. Mi sento quasi in colpa per essere ancora qui oggi ma gli prometto che continuerò a difendere i valori di libertà, giustizia e uguaglianza che lo hanno sempre contraddistinto e per i quali abbiamo combattuto”.
Giuseppe Cargioli era nato a Fosdinovo e cresciuto a Lerici anche se come molti partigiani dopo la Liberazione era dovuto emigrare per trovare lavoro. Era andato in Australia – esperienza che ricordava sempre con grande piacere – per poi fare ritorno a casa dove partecipava attivamente alla vita politica e sociale della comunità, come ricordato dal sindaco Marco Caluri, vicino ai rappresentanti dei comuni della Spezia, Arcola e Castelnuovo e all’assessore regionale Vesco. “Ha sempre difeso i valori della libertà e della pace – ha spiegato Caluri – e gli sono grato per ogni parola di sostegno e amicizia che mi ha regalato. Il suo insegnamento è stato fondamentale per costruire un cammino fatto di valori importantissimi”.
Come Vanda Bianchi anche Sgancia aveva uno straordinario rapporto con i giovani ai quali come un nonno affettuoso raccontava aneddoti ed episodi di una vita avventurosa che lo aveva portato faccia a faccia con il nemico nazifascista, dall’altra parte mondo o davanti alla sua impareggiabile griglia per la carne. “Ci ha trasmesso grandi valori e sentimenti autentici come il suo sorriso – hanno detto Lombardi e Domenichini di Rifondazione – è stato un valoroso partigiano e un vero comunista”.
Particolarmente significativa anche la testimonianza di Alessio Giannanti di Archivi della Resistenza: “Dopo la morte di Vanda per noi questo è stato un altro colpo al cuore visto che nonostante l’età lo abbiamo sempre considerato una roccia. Sgancia è stato un esempio – ha concluso – e ci mancherà moltissimo, era un ‘navigatore della Resistenza’, non si era piegato nemmeno alle torture durante la detenzione dei fascisti e aveva ben chiaro il significato della solidarietà. Chiamava le cose con il proprio nome, è stato un uomo giusto che si è meritato il bene che si riserva alle persone speciali”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 20 Agosto 2014)

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“Niccioleta”, un eccidio raccontato da Ascanio Celestini

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(@dettobene)

“Per molti narratori raccontare una storia è come fare un regalo, dare un oggetto da scoprire piano piano, seguendo un percorso preciso”. Se il regalo proviene da Andrea Camilleri e il destinatario è Ascanio Celestini allora l’oggetto diventa ancora più prezioso e importante, per essere divulgato ha bisogno di un luogo adatto e di un pubblico numeroso e paziente. Uno scenario simile a quello che ha accompagnato l’attore e scrittore romano nel monologo “Niccioleta” alla decima edizione del festival della Resistenza “Fino al cuore della rivolta” alle Prade di Fosdinovo.
Uno spettacolo nato due anni fa, quando Camilleri lo invitò nella sua casa di Santa Fiora in Toscana per raccontargli la storia dei 77 minatori della frazione di Massa Marittima, uccisi dai nazifascisti nel giugno del 1944 (un po’ di storia QUI). Un eccidio fra i meno noti fra i molti che hanno caratterizzato la battaglia di Liberazione fra Liguria e Toscana, “una storia di guerra che in realtà non lo è” ha detto Celestini, spiegando come alla base della strage ci sia stata la ferma volontà dei minatori di difendere e presidiare il proprio posto di lavoro.
Una vicenda legata alla Resistenza ma basata sui diritti dei lavoratori, simile a quella che dieci anni dopo li accomunerà i 43 minatori del vicino paese di Ribolla morti in un’esplosione e ancora più tardi ai presidi contro la chiusura dell’Ilva di Taranto.
Vicende narrate da Celestini con il consueto stile ricco di particolari che hanno arricchito la storia mettendone in evidenza i protagonisti senza mai allontanare il pubblico dai fatti, e impreziosite in questo caso dalla voce dello stesso Camilleri. In particolare nei passaggi riguardanti i momenti successivi alla fucilazione e all’esplosione della miniera, con un processo che non portò a condanne e la rapida chiusura di quel luogo divenuto teatro di vita e di tragedia.
Minatori ‘morti di lavoro’ per un posto difeso strenuamente. Un luogo, la miniera, legato anche all’esistenza di Giorgio Mori, partigiano di Carrara salito sul palco del Festival prima di Celestini per raccontare la sua esperienza diretta. “Sono del 1923 – ha detto con voce ferma – sono nato senza libertà e ho vissuto l’adolescenza sotto il regime fascista. Ho fatto una scelta giusta andando a combattere con quelli che chiamavano “ribelli”. Poi – ha proseguito – dopo la Liberazione mi sono accorto che per noi non c’era lavoro e così ho scelto la via dell’esilio, lavorando 14 anni in miniera in Belgio. Stavamo sottoterra in condizioni impossibili, c’erano feriti ogni giorno e ricordo benissimo la tragedia di Marcinelle dove ci mandarono ad estrarre i corpi, fra cui quelli dei due minatori di Spezia e dei tre di Carrara. Dopo aver combattuto i nazifascisti – ha concluso – ho ripreso la lotta sindacale in Belgio dove ci sfruttavano”. Storie e tragedie del lavoro poco conosciute e narrate da un interprete mai banale.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 5 agosto 2014)

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Radici e bandiere, l’ultimo saluto a Vanda Bianchi

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(@dettobene)

C’erano tutte le persone che hanno fatto parte della sua vita al centro sociale di Castelnuovo per l’ultimo saluto a Vanda Bianchi, la staffetta partigiana “Sonia” ricordata dalla sua gente con una toccante cerimonia scandita da canti e ricordi, che ha ripercorso i tratti più importanti di una tenace esistenza dedicata alla difesa della giustizia e dei valori della Resistenza. C’erano la famiglia e i nipoti, i compagni della lotta di Liberazione, Adelmo Cervi, gli ex deportati, gli artisti e le generazioni di ragazzi accuditi con affetto a scuola e le sei bambine volute per l’ultimo picchetto d’onore attorno al feretro avvolto in un drappo della Brigata Muccini, in una sala troppo piccola per contenere la commozione di tutti coloro arrivati per dedicarle un pensiero e un saluto a pugno chiuso.
Presenti anche rappresentanti delle Istituzioni e amministratori – molti sindaci e gli assessori regionali della provincia – Fiasella, il senatore Caleo e il Ministro Andrea Orlando, rimasto al fianco della famiglia fino alla fine delle esequie. A loro Vanda non mancava mai di ricordare con fermezza l’importanza della Costituzione, mentre ai giovani trasmetteva l’energia e l’entusiasmo che le avevano permesso di superare un’infanzia di povertà e una giovinezza di guerra. Donna minuta ma tenace che ha lasciato una traccia importantissima nella comunità. “Il testimone della tua battaglia è affidato a tutti noi” ha sottolineato in apertura il primo cittadino castelnovese Daniele Montebello il quale l’ha ricordata “antifascita di nascita” come riportato nell’onorificenza attribuitagli anni fa dal Comune. A nome della famiglia è invece intervenuta la nipote Magherita Antonelli: “Ci raccontava della Seconda Guerra Mondiale con intelligenza e lungimiranza – ha ricordato con emozione – ci diceva sempre di non smettere mai di credere e di sperare, sono sicura che quanto ha fatto in questi anni non sarà mai dimenticato”. Come Vanda non dimenticava i caduti ai quali rendeva omaggio ogni anno nelle diverse ricorrenze con il percorso dei cippi dove saranno distribuiti i tanti fiori che hanno decorato la sala, tappezzata dai tricolori a lutto, dal rosso delle magliette e delle tante bandiere dell’Anpi, del Pci e di Che Guevara. Vessilli radicati nella storia di questo territorio e saldamente legati all’esistenza di Vanda, ricordata nella sua umanità da Luca Marchi per l’Anpi e da Elsa Barbero, moglie di Nanni, che ha evidenziato proprio lo sventolio fuori dagli schemi del fazzoletto al termine della sua apparizione alla trasmissione “Quello che non ho” quando tutta l’Italia conobbe al vicenda di “Sonia”, la figlia del sovversivo Sepioneto.
Con la voce rotta dall’emozione ha speso per lei parole molto significative l’ex sindaco Marzio Favini che non ha esitato a definirla “Una colonna, un punto di riferimento che ha contribuito alla costruzione della comunità. Donna straordinaria, amica e nonna di tanti ragazzi”. Fra i tanti anche quelli del ‘MaR’ di Fosdinovo e “Archivi della Resistenza” rappresentati da Simona Mussini, a loro aveva raccontato episodi ed aneddoti della Resistenza affinché potessero essere ricordati e divulgati a tutti. Testimoni di quei giorni di battaglie erano stati invece Luigi Fiori e Giuseppe Cargioli, partigiani che hanno ricordato Vanda come “una grande donna e una grande partigiana”. Grandezza divenuta memoria da raccontare come storia di questi luoghi, delle sue radici e delle sue bandiere.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 3 agosto 2014)

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Buon viaggio Partigiana Sonia

Vanda Bianchi

(@dettobene)

Due anni fa quando Fabio Fazio la invitò alla trasmissione “Quello che non ho” per raccontare la parola Resistenza, Vanda Bianchi disse “Chi lotta e chi continua a resistere non invecchia mai”. Uno spirito che ha accompagnato tutta la sua esistenza fino a ieri quando ad 88 anni si è arresa, forse per la prima volta nella sua vita, ad una malattia che se l’è portata via in pochi mesi. Figlia di Sepioneto, “sovversivo” perché mai allineato al fascismo durante la dittatura, Vanda era cresciuta a Castelnuovo Magra vivendo sulla propria pelle la miseria e l’emarginazione dovute alle condizioni del padre, maturando quei sentimenti di giustizia e libertà che con il nome di battaglia “Sonia” l’avrebbero portata ad essere staffetta partigiana durante la lotta di Liberazione. Come molte altre donne della Val Di Magra Vanda era stata il raccordo fondamentale fra i combattenti e i centri abitati, spostandosi a piedi fino a Sarzana o a Parma in bicicletta, attraversando i paesi portando viveri, armi e documenti, rischiando la vita ogni giorno.

Un’esperienza che ha segnato tutto il suo cammino, proseguito dopo la fine della guerra insegnando i valori della Resistenza a tutti gli studenti incontrati in trent’anni di attività come bidella o in ogni cerimonia, evento o manifestazione a cui ha preso parte. Il freddo vento castelnovese che accompagna ogni mattina del 29 novembre, non le ha mai impedito di essere presente in piazza Querciola per il tradizionale giro dei cippi per i caduti nell’anniversario del tremendo rastrellamento del 1944. “E’ importante esserci sempre” diceva avvolta nel fazzoletto rosso della ‘Brigata Garibaldina Muccini’ fieramente annodato al collo. Lo toglieva solo per mostrarti con orgoglio le firme dei generali dell’esercito americano che le avevano reso omaggio durante una commemorazione, prendendo spunto per un racconto o un aneddoto su quei giorni, chiedendo magari conferma all’amico Luigi Fiori ‘Fra Diavolo’ o a Giuseppe Cargioli detto ‘Sgancia’. Compagni di una lotta che metteva uno contro l’altro anche compaesani e vicini di casa. “In tempo di guerra – rivelava – riconoscevi gli amici dai nemici da come ti guardavano negli occhi” e il suo sguardo rispecchiava sempre l’entusiasmo e la voglia di fare di uno spirito forte e instancabile, lo stesso che ha sempre portato sul palco del Festival “Fino al cuore della Rivolta” al Museo di Fosdinovo o alla festa del 25 aprile con i ragazzi di “Archivi della Resistenza” che in questi anni hanno documentato la sua vicenda e quelle degli altri superstiti le cui gesta avevano ridato dignità a questo Paese.

Costretta a crescere in fretta per avere pane e libertà, Vanda aveva sempre avuto un rapporto speciale con i giovani perché in loro riponeva fiducia e speranza, li teneva vicino a sé, come una nonna o una persona di famiglia. “Non è vero che i giovani sono tutti da buttare – spiegò a Voci della Memoria – qualcuno è veramente in gamba, ha voglia di dire e di fare, di far conoscere e non far dimenticare. Non si può passar sopra a queste cose, vorrei trasmettere loro tutto quello che sento dentro – diceva – per me è come una fiamma che vorrei passasse ai giovani”. Fiamma che oggi brilla più che mai mentre sembra di vederla ancora mentre sventola il suo fazzoletto dicendo “Sono figlia di un sovversivo e vecchia staffetta partigiana”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 31/07/14)

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Rodigan, Fatboy Slim e i talent per dj

David Rodigan

(@dettobene)

“Fuck off! That’s a terrible idea”. Nei giorni scorsi Fatboy Slim ha risposto più o meno così a Simon Cowell, produttore televisivo che aveva chiesto a lui e ad altri protagonisti della scena dance britannica di partecipare alla realizzazione del talent show “Ultimate dj”. Una proposta rispedita al mittente senza troppi giri di parole dal maestro di Brighton che a margine del festival francese Electrobeach ha motivato la sua posizione con quelli di Digital Spy. “Il bello della dance music – ha detto – è che cresce organicamente attraverso persone ubriache alle quali vengono idee stupide a tarda notte. Non è qualcosa che può essere scritto in un copione e messo in uno studio televisivo. Mi hanno offerto un sacco di show in Tv – ha aggiunto l’ex Housemartins – cose del tipo “si può fare per cinque minuti?” ma il djing richiede almeno due ore e un pubblico, non è come andare là fuori e cantare la tua ultima canzone. Per questo motivo resterà sempre un po’ ai margini del mainstream. Alla fine si tratta di prendere un mucchio di persone fuori e farle andare ancora più fuori. Cosa che in tv non puoi fare”.
Purtroppo lo hanno fatto anche qui da noi con “Top Dj”, sponsorizzatissimo programma targato Endemol e YAM112003 andato in onda fino a pochi giorni fa su Sky Uno e passato ora su Radio Deejay. Un talent dall’impostazione ormai collaudata con sfide, esclusioni e lacrime, che ha avuto come giudici tre figure di primissimo piano come Albertino, Stefano Fontana e Lele Sacchi, proponendo aspiranti ‘top dj’ molto diversi fra loro, costretti ad adattarsi ai meccanismi di cui ha parlato Norman motivando il suo rifiuto a Cowell. Non solo, lo show ha avuto anche un seguito discografico con la compilation contenente gli inediti dei tre finalisti, fra questi ovviamente anche “David Rodigan” pezzo del vincitore Geo From Hell. Brano con un featuring di Entics che ripete allo sfinimento “accendino come David Rodigan” dopo un’altra serie di parole accostate banalmente e una base facilmente trascurabile. Un po’ poco francamente per celebrare il numero 1 dei dj reggae e un veterano del mestiere che proprio in questi giorni è su BBC Radio 2 con un nuovo programma. Forse il modo migliore per rendere omaggio alla sua storia e al suo carisma è spegnere la tv e ascoltare bene, oppure andando a vederlo dal vivo, stando davanti alla consolle.

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Via Mascardi, i Nirvana e il Partigiano “Joe il Rosso”

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Passeggiare in via Mascardi ha sempre il suo fascino. Ti capita di salutare i bottegai, gli amici che vendono ostriche e buon vino a ritmo di ska e rocksteady oppure puoi soffermarti nelle bancarelle dell’antiquariato durante ‘La Soffitta nella Strada’, ad agosto o durante il periodo pasquale come in questi giorni. In questa strada nel centro storico di Sarzana ormai una ventina d’anni fa c’era anche ‘D.O.C.” un meraviglioso negozio di libri, vinili e cd gestito da una tipa che all’epoca vendeva i dischi più interessanti di tutta Sarzana. Grazie a lei ho scoperto i Nirvana e i Temple of The Dog. Fra le tante cose avevo comprato anche un mini cd dei Beatles molto particolare, convinto che in futuro mi avrebbe fruttato parecchi soldi (in realtà dovrei ancora averlo da qualche parte).

Passo spesso da via Mascardi ma solo ieri, 21 aprile e giorno particolare per me per altri motivi, alzando la testa verso una facciata ho notato questa lapide dedicata a Gino Lombardi e Piero Consani, partigiani uccisi a pochi metri di distanza ma in giorni diversi. Esattamente 70 anni fa Lombardi, nato a Querceta di Seravezza nel 1920, aveva infatti perso la vita in un conflitto a fuoco con i fascisti all’interno di questo palazzo, mentre il suo grande amico Consani venne catturato, torturato e fucilato il 4 maggio, sempre del 1944, alla Cittadella.

Con il nome di battaglia “Joe il Rosso”, preso da un personaggio avventuroso di un film americano per via del colore acceso dei capelli, dopo l’armistizio Lombardi aveva dato vita alla prima formazione partigiana della Versilia con il nome di “Cacciatori delle Apuane”.

Il 17 aprile del 1944 – si legge sul sito dell’Anpi – i “Cacciatori” furono attaccati, sul Monte Gabberi, da centinaia di militi della Guardia nazionale repubblicana e della X-Mas. Nonostante fossero molto inferiori di numero e di armamento, i partigiani di “Joe il Rosso” riuscirono a sganciarsi infliggendo gravi perdite ai fascisti. Nei combattimenti cadde il suo aiutante, il partigiano sardo Luigi Mulargia (sul ferito i fascisti infierirono mozzandogli le orecchie e uccidendolo a calci). Dopo questo scontro, Lombardi pensò di spostare i suoi partigiani in posizione più favorevole nell’Alta Lunigiana e, con Piero Consoni e Ottorino Balestri, si diresse verso Equi Terme (Massa Carrara), per un sopralluogo. Fermati dai militi fascisti a Sarzana, i tre ingaggiarono combattimento, ma “Joe il Rosso”, dopo aver abbattuto due fascisti, cadde colpito a morte. Si salvò Balestri; Consoni, gravemente ferito, venne fucilato il 4 maggio. Le formazioni partigiane operanti sui monti della Versilia, si batterono, sino alla Liberazione, col nome di Brigata d’assalto “Gino Lombardi”. Una lapide lo ricorda oggi a Farnocchia di Stazzema (Luca), dove gli è stata intitolata una strada”. Solo nel 2005 invece Sarzana, in collaborazione con il Comune di Seravezza e l’Anpi hanno ricordato questo episodio, fra i tantissimi che hanno caratterizzato la storia del nostro territorio.

La sua storia e quella di Consani sono state ricostruite anche da Giovanni Cipollini e Pino Meneghini nel libro “Dalla Versilia a Sarzana” (qui il Pdf) che ripercorre la breve ma intensa esistenza. “Gino Lombardi – si legge nell’introduzione – è un personaggio di primissimo piano della Resistenza versiliese non solo per il ruolo svolto nella lotta partigiana ma anche per il valore simbolico assunto dopo la sua morte. Dopo aver dato un importante contributo alla creazione della rete organizzativa clandestina costituì la prima banda partigiana dimostrando di possedere doti innate di comandante: audacia e prudenza secondo le circostanze, carisma, intuito e decisione nelle scelte, anche quelle più difficili”. La narrazione parte dalle loro origini di antifascisti e arriva fino al 2005 e all’istituzione di questa lapide che ricorda a chiunque passi per via Mascardi il loro sacrificio e quello di tutti gli altri giovani della Val di Magra durante la Resistenza.

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Claudio Sinatti, cose difficili

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Nella notte fra sabato e domenica se n’è andato all’età di 42 anni Claudio Sinatti, creativo, videomaker e artista multimediale milanese. La sua attività è sempre stata molto legata alla musica, all’elettronica in particolare,  e un po’ della sua storia è stata raccontata  qui da Anna Maria Monteverdi e qui da Sergio Messina.

Per me è stato essenzialmente il regista di alcuni video dei Casino Royale dato che con loro aveva realizzato “Cose difficili Sxm”, il vhs “In trasmissione” e “Crx”. Brani ed immagini che fra il ’96 e il ’97 hanno contribuito in modo determinante alla mia formazione musicale, avvicinandomi ai Sangue Misto e tutto ciò che rappresentavano e facendomi conoscere ancora meglio le vicende di quei tizi che infornavano pesci, si muovevano nervosamente in ‘quelle stanze’ e si specchiavano negli spazi interiori e metropolitani dell’album più avanti di sempre. Iniziavano ad essere per me gli anni della drum and bass e di pezzi come “Simplmente Asì” di Painé. Anche quel video lo aveva girato Claudio Sinatti, l’ho scoperto stasera ma ne avrei fatto volentieri a meno.

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Il rito della Marocca

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Il primo taglio è quello dell’attesa finita, della fragranza e delle diverse tonalità di marrone. Il secondo è più delicato e preciso, sottile, accurato. La terza fetta invece è più consistente, è quella che accoglie una fetta di salume, una spalmata di gorgonzola oppure un cucchiaino di marmellata, possibilmente di arance. È l’inizio di un rituale goloso e quasi automatico, che va avanti fetta dopo fetta fino quando una notifica sul cellulare o una voce estranea interrompono il momento idilliaco. Mi è capitato anche due giorni fa: solo in cucina con la mia Marocca di Casola appena tolta dal sacchetto di carta, un coltello, salsiccia e prosciutto crudo; quando è squillato il telefono ero già quasi arrivato a metà. Un pranzo frugale ma dal tempo dilatato grazie a questo prodotto speciale che nel secondo dopoguerra, quando il grano scarseggiava, era diventato il maggior sostentamento per la gente della Lunigiana e del piccolo comune in provincia di Massa-Carrara, medaglia d’oro al merito civile durante la Resistenza.
Le inconfondibili pagnotte rotonde infatti sono fatte sostanzialmente con farina di castagne, una piccola quantità di farina di grano, patate, olio e lievito madre. Un pane da sempre legato alle tradizioni gastronomiche popolari per la grande diffusione sul territorio dei suoi ingredienti e per la possibilità di poterlo mangiare anche dopo molti giorni. Oggi, grazie all’intuizione e al lavoro di Fabio Bertolucci, la Marocca di Casola è un presidio Slow Food e un prodotto che si può trovare facilmente anche al di fuori della Lunigiana. Dopo aver rilevato un forno nella località di Canoàra Fabio (qui il suo blog) ha riadattato ai ritmi più attuali un mestiere antico che vive ogni giorno distribuendo personalmente le sue marocche in attesa di perfezionare una distribuzione capillare. Il sabato mattina è possibile trovarlo al ‘Mercato della Terra’ di Sarzana, dove incontra Davide, giovane ristoratore che usa lo speciale pane per alcune portate nel suo locale ‘I Maestri’. Non solo, è anche il mio pusher di pagnotte, che mi fa trovare  accuratamente incartate e al riparo da sguardi bramosi. Al resto penso io.

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Buon compleanno Blubeaters

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Oggi i Bluebeaters compiono vent’anni esatti di attività. Mi hanno accompagnato in tantissimi momenti e serate sudatissime. La prima al Maffia di Reggio forse nel ’97 con questa locandina come trofeo, l’ultima a Firenze solo poche settimane fa. In mezzo lo Ska Festival di Londra, la Flog sold out, il Dlf di Genova dalla porta di emergenza, incontri, risate e molestissimi “Buuunnnaaaa!” sotto al palco. Tanti viaggi e altrettante emozioni. Auguroni ragazzi!.

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Una domenica senza pallone

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Non mettevo piede a San Terenzo da parecchio tempo, forse dal memorabile dj set dei Sud Sound System in spiaggia. Ho controllato: era il 2008, che vergogna. Oggi invece ho rinunciato al calcio e alla serata a Marassi preferendo un’uscita in uno dei tanti luoghi meravigliosi di questa provincia. Ho scelto gli amici, il mare e un posto a ristorante per completare il tutto. “Stralunà” ha una bella sala interna e i tavoli sul lungomare, non è il miglior locale in circolazione in cui mangiare del pesce ma è comunque perfetto per un pranzo in relax e chiacchiere al sole. La cosa più difficile è arrivarci visto che se non hai un pass residenti San Terenzo e soprattutto Lerici diventano quasi inaccessibili. Merito/colpa della famigerata Ztl che in questi giorni fa discutere, e non poco, cittadini e amministrazione. Passati i ‘checkpoint’ però il tratto di costa delimitato dai due castelli resta uno dei più affascinanti della Liguria, anche in una giornata come questa con la foschia che nasconde Portovenere e la Palmaria. La lunga passeggiata è la stessa che da piccolo facevo proprio ogni domenica con la mia famiglia. Si arrivava in corriera dopo un viaggio infinito ma non si doveva fare i conti con sbarre e divieti. Un po’ come andare allo stadio e dover passare da un tornello per ammirare il mare.

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Nova: uno spazio aperto e mutante che guarda all’Europa

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Dalla sua nascita alla fine dell’Ottocento fino alla definitiva chiusura del 2006,la Ceramica Vaccari ha rappresentato un punto di riferimento per la produzione industriale della zona, espandendosi fino ad occupare una superficie di 180 mila metri quadrati, uno spazio immenso, molto più grande ad esempio di quello adibito all’Hangar Bicocca di Milano o all’Ogr di Torino. Oggi una parte consistente di quest’area, è stata acquisita dal Comune per la creazione di una biblioteca ad alta digitalizzazione, un urban center, l’archivio storico e uno spazio di supporto per attività residenziali di arte e cultura. Altri settemila metri quadrati saranno invece dati in comodato d’uso tramite un apposito bando che sarà disponibile nei prossimi giorni. Si tratta di sei spazi con metrature diversificate, più uno che resterà all’amministrazione per la creazione di una sorta di “agorà” destinata ad eventi ed incontri pubblici. Fortemente voluto dal Comune di Santo Stefano e dal sindaco Juri Mazzanti, il Progetto Nova (acronimo di Nuovo Opificio Vaccari per le arti) per la riqualificazione di una parte degli spazi dell’ex Ceramica Vaccari, è stato realizzato con la collaborazione, fra gli altri, dello Studio Archepta della Spezia e della Fondazione Fitzcarraldo che ha curato i due giorni del festival “Spazi mutanti, spazi mutati” che si è concluso ieri. “Queste due giornate – mi ha spiegato Giorgia Turchetto, collaboratrice della Fondazione torinese – sono servite per accendere un lume su questo luogo e sulle relazioni che possono nascere all’interno di processi produttivi che passano per creatività ed innovazione. L’evento è stato funzionale al progetto, ma ci ha anche permesso di fare quello che oggi, più di ogni strumento di comunicazione riesce a fare, ovvero creare una rete tra operatori che hanno bisogno di conoscere luoghi e coloro che lo hanno utilizzato come ‘evento nell’evento. L’obiettivo era comunicare questo posto e permettere ai presenti di trovare relazioni faccia a faccia per creare connessioni e progetti aggregatori”. 

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Da circa vent’anni la Fondazione Fitzcarraldo si occupa di gestione e management della cultura e dei beni culturali, sia sulla formazione e ricerca. “Il sindaco Juri Mazzanti ci ha coinvolti per il giusto mix di contenuti scientifici ed operativi. Quello della Vaccari è uno spazio che comprende molte cose insieme, con un progetto di riqualificazione urbana che ne cambia senso ed uso. Le potenzialità sono enormi – ha sottolineato Giorgia Turchetto, che è anche Coordinatrice Master in Digital Heritage all’Università La Sapienza di Roma – gli spazi si prestano per essere utilizzati in modo polifunzionale e multifunzionale, parliamo delle imprese creative più tipiche come le nuovi correnti del design e del Web design fino all’organizzazione di stampo culturale con laboratori dedicati al teatro o all’arte. Trovo molto bella l’idea del sindaco di dare un’occasione alle imprese per sviluppare il proprio business chiedendo in cambio un impegno sociale con la restituzione di parte del valore che produrranno in termini di cultura alla collettività. Inoltre lo spazio che sarà dedicato all’archivio rappresenterà la memoria storica del luogo ma anche un soggetto vivente perché oggi con le nuove tecnologie e la digitalizzazione si possono creare momenti di scambio, condivisione ma anche produzione di nuovi contenuti. Uno spazio che però manterrà la sua funzione solo rimanendo aperto e mutante. Credo – ha concluso – che possa diventare il filo conduttore che fino ad oggi è mancato per unire la ricchezza di beni del territorio, un luogo di aggregazione che trasmetta una visione europea della cultura e della creatività”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 15 marzo 2014)

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Un Chimico e il mare

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Nel caos della mia macchina occupano parecchio spazio anche tanti cd che in casa sarebbero solo soprammobili come gli altri visto che non ho più un lettore ad eccezione dell’autoradio. Fra quelli stipati nelle portiere in questi giorni sta girando parecchio “Non al denaro non all’amore né al cielo” di De André, uno dei miei preferiti di Faber nonostante la mia lacuna letteraria di “Spoon River” che dovrò colmare appena possibile. In quell’album ci sono alcuni brani straordinari come “Un ottico” oppure “Un giudice”, ma in questi giorni l’associazione più frequente è con il passaggio di “Un chimico” dove De Andrè canta “Primavera non bussa lei entra sicura, come il fumo lei penetra in ogni fessura, ha le labbra di carne, i capelli di grano, che paura, che voglia che ti prenda per mano. Che paura, che voglia che ti porti lontano”. Le vicende del farmacista Trainor di Edgar Lee Masters non hanno troppo a che vedere con la mia domenica anzi, non hanno proprio nulla, però oggi passeggiando sulla spiaggia di Marinella quel pezzo mi è tornato in mente più volte. Venti gradi e il cielo senza nemmeno una nuvola non sono cosa da poco, specie di marzo, e il mare d’inverno ha un fascino impareggiabile. Raccoglie tutto ciò che il Magra si porta dietro lungo il suo percorso lasciandolo poi sulla sabbia. Tronchi, legni, rifiuti e pezzi di vita. Con questi qualcuno ne ha fatto una zatterina abbandonata in riva in balia della marea.

 “Guardate l’idrogeno tacere nel mare, guardate l’ossigeno al suo fianco dormire: soltanto una legge che io riesco a capire ha potuto sposarli senza farli scoppiare. Soltanto la legge che io riesco a capire”.

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L’addio al vignaiolo intellettuale Nanni Barbero

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Si è spento all’ospedale di Copacabana in Brasile all’età di 74 anni Giovanni Barbero, conosciuto da tutti in Val di Magra come “Nanni”. Fra i primi produttori di Vermentino dei Colli di Luni nel 1985 aveva dato vita all’azienda Agricola “Fravizzola” sulle colline di Fosdinovo e alla fine degli anni Ottanta aveva fatto parte della giunta comunale di Castelnuovo Magra come assessore alla cultura e vicesindaco.
A metà gennaio Barbero aveva intrapreso un viaggio verso l’Uruguay con un caro amico e pochi giorni dopo si era trasferito a Rio de Janeiro per andare a trovare alcuni amici. Qui aveva contratto una grave broncopolmonite virale batterica che dopo una ventina di giorni di coma farmacologico ha reso vani tutti gli sforzi dei medici brasiliani. La notizia si era diffusa solo nei giorni scorsi e tutta la comunità castelnovese proprio nel weekend aveva accolto con speranza i piccoli ma significativi miglioramenti che erano stati comunicati dalla famiglia. A Rio infatti lo aveva raggiunto la moglie Elsa che nelle ultime due settimane aveva aggiornato gli amici più cari qui in Italia e che in queste ore, con l’aiuto del compagno di viaggio del marito sta cercando di risolvere tutte le pratiche necessarie al rimpatrio della salma che con tutta probabilità sarà cremata.
Nanni, vignaiolo intellettuale e comunista, era partito con l’intenzione vedere da vicino l’Uruguay del presidente “Pepe” Mujica che lo aveva stregato con la sua idea di sobrietà politica in antitesi all’austerità tanto in voga in Europa. Lasciata da qualche tempo l’azienda agricola a una delle due figlie, pensava infatti di trasferirsi in Sudamerica dove nei suoi primi giorni di permanenza era stato accolto benissimo. Un’idea affascinante dopo una vita trascorsa fra politica, letteratura e passione per la terra e le tradizioni popolari. Con un vinile sul giradischi e una bottiglia di vino sempre aperta accoglieva gli amici circondato da centinaia di libri: “Aveva una cultura immensa – raccontano quelli che con lui condividevano infinite chiacchierate davanti al camino – si poteva parlare di qualunque cosa ad eccezione del calcio. Conosceva tantissimi scrittori che spesso passavano a trovarlo e si fermavano da lui a mangiare”. Talvolta burbero ma sempre coerente amava il dialetto, i cori e i canti politici e popolari che sicuramente avrebbe insegnato anche dall’altra parte del mondo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 03/03/14)

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Grandi bellezze quotidiane

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Negli ultim tre giorni non si è parlato d’altro che di bellezza. Sorrentino ha preso l’Oscar, ha ringraziato ed è salito al volo sulla sua nuova 500, lasciando tutti a discutere davanti alla tv (che colpo Mediaset!) e sui social network dove si è creato un intasamento di hashtag e commenti pari solo a quelli che scatena Sanremo. Avendo visto il film qualche mese fa e per nulla intenzionato a bissare, ieri sera ho preferito una cena in un luogo che mi è molto caro. Un piccolo ristorante che pur essendo a qualche chilometro dal mare offre ottimo pesce e idee sempre interessanti. È ‘La Tana del Riccio’ di Santo Stefano Magra che stavolta ha ripagato la mia fiducia con rossetti, una spigola e altre chicche. Bellezza nel piatto e nel gusto, molto più vivace di quanto stava accadendo su Canale5.
Sensazioni che mi sono goduto anche due mattine fa a Bocca di Magra. Mi capita raramente di andarci in inverno, così dopo una conferenza stampa ho lasciato la macchina e ho fatto due passi lungo il fiume fino al porticciolo. Da un lato il locale di Ciccio con tutti i suoi pezzi di arte contemporanea, dall’altro la foce del fiume con il volo solitario di un gabbiano a pochi metri da me. Sullo sfondo le Apuane nascoste da qualche nuvolone, Fiumaretta e il litorale. Una quiete impossibile da trovare in altre stagioni, tanto piacevole da rendere innocuo anche il vento freddo di questi giorni. Lo stesso che oggi ha pulito il cielo nel momento del pomeriggio in cui sono uscito per fare qualche foto al castello davanti a casa, regalandomi questo spettacolo unico. Santo Stefano, Bocca di Magra e Castelnuovo, luoghi di grande bellezza quotidiana.

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Pesto e pesto

Pesto e pesto

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Vivere in Liguria non significa trovare sempre del buon pesto, anzi. Trattorie, ristoranti e osterie spesso usano prodotti industriali lontani dagli standard minimi di gusto e qualità ai quali siamo abituati.
Ieri ho mangiato fuori casa sia a pranzo che a cena – trattorie molto abbordabili – e in entrambi i casi mi sono capitati dei piatti conditi con pesto. A pranzo le trofie nella foto che non hanno tradito le aspettative. A cena dei panigazzi con del pesto pieno d’aglio, scurissimo e molto pesante che ha rovinato tutto il resto. Stamattina c’ho riflettuto: un pessimo pesto è peggio di un pessimo pasto.

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2 marzo 2014 · 22:21

Fabrizio De Andrè a Sarzana: il concerto, la piazza e i ricordi

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“Non sono capace di recitare, mi considero un suonatore di chitarra. Non credo di essere l’interprete ideale per le mie canzoni”. La voce fuori campo è inconfondibile, così come lo è la figura che passeggia alla Fortezza di Sarzanello o in via Mazzini. Camicia rossa, jeans e l’immancabile sigaretta in mano: Fabrizio De Andrè si racconta così ai microfoni della Rai il 29 agosto del 1981 a poche ore dal suo concerto a Sarzana.
Un documento che anche oggi, nel giorno della su nascita, testimonia un passaggio importante e l’inizio di una storia culminata il 24 ottobre del 2009 con l’intitolazione di una piazza al cantautore genovese che era molto legato a Sarzana e al nostro territorio. “La frequentava spesso per motivi personali, fermandosi sempre volentieri quando andava a Carrara – racconta Mimmo Iorio, memoria storica di tutto ciò che riguarda Faber in Val di Magra e non solo – in zona ci sono molte cose che riguardano Fabrizio e la sua vita”.
Ci sono innanzitutto le immagini che lo ritraggono mentre chiacchiera con i fan e guarda dall’alto una città in espansione. Sfondo per le riflessioni sulla sua voglia di emergere in una famiglia medio borghese e sui dubbi e le incertezze del suo essere artista: “Quando noto delle carenze nella capacità di sintesi -rivela De Andrè mentre scorrono le immagini delle prove- mi faccio aiutare da chi è più giovane come fece anche Dylan in ‘Desire’. Credo di essere sempre riuscito a fare meglio i testi delle musiche, questo è un grosso limite. L’unico che è riuscito a cucire le due cose è Lucio Dalla”.
Del suo passaggio a Sarzana restano ovviamente anche la musica e i testi del tour dell’album l’Indiano che avevano caratterizzato l’esibizione del Miro Luperi, dove lo avevano accompagnato fra gli altri il figlio Cristiano, Mauro Pagani, Pepi Morgia e Massimo Bubola nel duetto di “Una storia sbagliata”.
“Negli anni scorsi – prosegue nel racconto Mimmo – ho impiegato quasi due mesi per riuscire a risalire al nome di chi aveva portato De Andrè a Sarzana. Era stato Paolo Bedini che all’epoca aveva solo diciannove anni ma era riuscito a contattarlo curando ogni minimo dettaglio. Quando finalmente i due si incontrarono, trovandosi di fronte un ragazzo così giovane, Fabrizio gli disse sorridendo: “siamo tranquilli?”. Paolo, che in seguito avrebbe organizzato altri eventi molto importanti, era molto agguerrito, aveva contattato anche la Rai per le riprese di quello che fu il suo primo concerto ad essere registrato, seguito molto tempo dopo da quello del Brancaccio. De Andrè si fermò per alcuni giorni con Dori Ghezzi alloggiando alla Locanda dell’Angelo. Qui stava molto bene e ci passava spesso, qualche anno fa qualcuno lo notò fra il pubblico ad un concerto nell’area di Gerardo. Io andai a trovarlo anche in Sardegna mentre nel ’98 gli inviai una bottiglia di “Creuza de mà”, vino delle Cinque Terre che gli era stato dedicato”.
Pochi infatti possono vantare un numero di riconoscimenti simile a quello di Faber al quale sono state intitolate scuole, strade, teatri, parchi, targhe e premi. Anche molte piazze, una delle quali a Sarzana, proprio grazie all’impegno di Mimmo Iorio e di tutti coloro che nel 2009 hanno avviato le procedure necessarie. “Avevamo iniziato la raccolta firme per far parlare della cosa – spiega Mimmo – ma non ci saremmo mai aspettati di arrivare a 5500 adesioni. La gente arrivava all’Arci con i moduli pieni e ne chiedeva altri: da Paolino Ranieri a Don Gallo, da Fiorella Mannoia a Piero Pelù tutti hanno dato il loro contributo. Anche Fabio Fazio, il quale firmando disse: “E’ importante che ci sia una piazza con il suo nome perché un giorno un ragazzo leggendolo andrà a scoprire e ad ascoltare le sue canzoni”.
L’iniziativa aveva trovato subito l’adesione del Prefetto che aveva dato l’ok raccogliendo l’invito della Giunta Caleo, ed era diventata realtà con l’inaugurazione nella piazza di via Landinelli alla presenza di tutte le autorità e della moglie”.
Mimmo e De Andrè si erano conosciuti qualche anno prima prima, dopo la data all’Astra della Spezia, quando nel 1993 aveva girato l’Italia con un tour caratterizzato da brani dedicati alle donne. “In quell’occasione Dori cantava nel coro – ricorda – mentre con lui mi ero trovato casualmente dietro le quinte. Cosa capitata diverse volte, anche in occasione di uno dei suoi ultimi concerti, proprio al Picco”. Era il 7 agosto 1998 e chi c’era la ricorda ancora come un’esibizione intensa ed emozionante con Faber già malato che il giorno dopo ad Arenzano tenne il suo ultimo concerto in Liguria.
“C’era un clima malinconico, mi ricordo che nel pomeriggio stavo parlando con Mauro Pagani quando lui apparve sul palco, da solo con la sua sigaretta, sapevamo già tutti della sua malattia. Al Picco si era esibito due volte, ma da giovane aveva frequentato spesso piazza Brin. Arrivava da Genova con un amico e andava da Biso a portare i suoi dischi da vendere. Erano gli inizi della carriera, eppure vendeva già più di Battisti”.
Oggi Fabrizio De Andrè avrebbe 74 anni e se fosse ancora qui potrebbe capitare di incontrarlo a passeggio in via Mazzini come in quel pomeriggio del 1981 quando sottolineava: “Siamo quasi tutti artisti ma non abbiamo il tempo o l’opportunità di esserlo”. Può darsi, ma Faber era uno solo.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 18/02/14)

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