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Mentina e ParallelaMente: c’è vita oltre il Festival

Festival della Mente 2015

(@dettobene)

“Il Festival della Mente? Bello ma una volta finito non resta nulla”. Di anno in anno questa considerazione si è sempre affermata come una delle più gettonate e realistiche sulla manifestazione che si è chiusa ieri a Sarzana dopo un’altra edizione baciata dalla presenza di migliaia di persone ma anche dal sole, visto che alla vigilia le previsioni meteo avevano costretto gli organizzatori ad allestire un efficiente piano b in caso di pioggia. I tre giorni della cultura sono invece filati via senza intoppi macroscopici accontentando tutti: dal Comune alla Fondazione Carispezia, fino a commercianti, pubblico e relatori – questi ultimi sempre piacevolmente sorpresi dall’attenzione che viene rivolta loro – ma registrando anche la crescita dei due eventi collaterali.
Da venerdì pomeriggio a ieri sera le strade cittadine hanno vissuto tutte le situazioni più tipiche: corse e code davanti alle location degli eventi, caccia compulsiva ai biglietti e ai posti (con momenti surreali come quello di sabato al Moderno dove l’ospite Adolfo Cerretti ha dovuto sedare un diverbio per una poltroncina) passando per l’affettuoso assedio al termine di ogni incontro per autografi e complimenti, con Massimo Recalcati costretto al bis e agli straordinari. Scene entrate ormai di diritto nel sommario di un festival che tradizionalmente pone con merito per tre giorni Sarzana al centro dell’agenda culturale italiana.
Ma la grande affluenza ha premiato anche la scelta dei due direttori Pietropolli Charmet e Benedetta Marietti di alzare ulteriormente l’asticella dei contenuti, concedendo le ormai ambite poltroncine del palco anche a volti meno noti al grande pubblico ma molto conosciuti nei rispettivi ambiti, segno tangibile dell’autorevolezza raggiunta dal Festival che, giunto al dodicesimo capitolo, procede in maniera autonoma avendo ormai tracciato un solco seguito da molti nel panorama delle manifestazioni nazionali.
Nell’edizione andata in archivio con 45mila presenze e nella quale si è però sentita la mancanza di luoghi come il chiostro di San Francesco e il Teatro Impavidi, il cui fascino resta insostituibile come evidenziato anche da Matteo Melley, l’aspetto più rilevante è emerso proprio in relazione alla considerazione iniziale: terminata la kermesse sul territorio resta qualcosa su cui lavorare. Lo ha confermato ad esempio la seconda edizione di ParallelaMente, programma collaterale fortemente voluto dall’assessore Accorsi e dal sindaco Cavarra per valorizzare artisti ed associazioni culturali del territorio sfruttando l’impareggiabile vetrina data dal festival maggiore. Ventuno appuntamenti con altrettante realtà che promuovono le arti tutto l’anno, coordinate nell’occasione dal lavoro di Massimo Biava ed Alessandro Picci. Due che hanno avuto l’ulteriore merito di averli perfettamente contestualizzati nel centro storico in piazzette, dimore storiche e spazi inaspettati, capaci di sorprendere gli stessi sarzanesi come i tanti visitatori abituati ad assistere a certe performance artistiche in ambiti prettamente urbani e con atmosfere molto differenti. Installazioni, teatro, danza, poesia e sfumature musicali diversissime fra loro hanno fatto emergere in modo ancora più netto rispetto all’anno scorso talento e vitalità di una scena culturale sulla quale Comune e Fondazione credono in modo lodevole visto che ParallelaMente avrà un’appendice autonoma il 28 e 29 novembre prossimi.

Diversa origine ma stesso risultato anche per il Festival della Mentina giunto alla sua terza edizione ed uscito con successo dal Lavoratorio Artistico di via dei Giardini fino a piazza De Andrè. In questo caso il merito è tutto dell’associazione Raso Terra e del collettivo guidato da Simone Ricciardi ma anche dell’assessorato alla cultura che ha dato da subito il proprio sostegno ad un’iniziativa quasi interamente autofinanziata e in grado di allestire un programma molto ricco. Dalla satira sfrenata dell’Espo riduttivo passando per il momento di riflessione sulla strage ferroviaria di Viareggio, la sorprendente esibizione dei Mechanics for Dreamers e il teatro di Astori e Tintinelli la ‘Mentina’ ha confermato il fermento creativo e culturale di una realtà che opera tutto l’anno in città e in provincia, con entusiasmo e passione tangibili nella festa conclusiva di ieri sera, e che come ParallelaMente ha anche il pregio di dialogare meglio con un pubblico più giovane.
A differenza di quello che accadeva fino a due-tre anni fa dunque la fine del Festival della Mente non coincide più con la brusca interruzione di una vita culturale che, al netto delle tante difficoltà, riesce ad avere un seguito grazie all’impulso dell’evento ma soprattutto all’energia e all’impegno di chi vive e lavora sul territorio ogni giorno. Qualcosa resta e non è poco.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 7 settembre 2015)

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Berengo Gardin, il mestiere del fotoreporter

Berengo Gardin

(dettobene)

Non mi interessa il lirismo né la poesia, a me interessa documentare le cose”. Intervenuto nel secondo giorno del Festival della Mente di Sarzana ieri Gianni Berengo Gardin ha sintetizzato così il suo approccio alla fotografia, che ha contribuito a renderlo uno fra i più importanti fotoreporter in Italia e all’estero. Classe 1930, nato a Santa Margherita ma cresciuto nella Roma occupata, ha iniziato a fotografare con la macchina della madre, prima di intraprendere la carriera vera e propria a Venezia. “Inizialmente avevo velleità artistiche, facevo foto ai tramonti in Laguna – ha detto di fronte alla platea del Canale Lunense – poi più tardi leggendo i libri che mio cugino di mandava dall’America ho capito che sarebbe diventato un lavoro vero”. Un’esperienza alimentata dalle influenze della letteratura di Faulkner, Hemingway e Steinbeck: “Quando mi sono recato per la prima volta nei luoghi da loro descritti mi sono reso conto di conoscerli alla perfezione”. 

Narrazione e fotografia sono sempre state una costante nella carriera di Berengo Gardin, come spiegato dall’editore di Contrasto Roberto Koch che ha dialogato con lui sul palco: “Nel suo caso – ha evidenziato – c’è sempre stato un impegno concreto nel narrare usando la macchina come una penna. Narrazioni diverse come architettura, inchiesta e denuncia sociale”.
Il primo successo editoriale è arrivato proprio con un libro su Venezia accompagnato dai testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani, poi “Morire di classe” con Carla Cerati, pubblicazione di denuncia sulla condizione dei manicomi italiani nel 1968. “Franco Basagalia – ha ripreso Berengo – si batteva per la chiusura dei manicomi e nessuno fino a quel momento aveva mai pubblicato immagini sulle case di cura. Abbiamo fatto vedere a tutta l’Italia come vivevano i pazienti, contribuendo all’approvazione della legge 180 in Parlamento. In sei mesi ci siamo recati in diversi manicomi, anche a Firenze che era considerato uno dei peggiori. I direttori non ci facevano entrare ed erano gli stessi malati ad aiutarci per farsi fotografare, facendoci passare come parenti. Capivano l’importanza di quegli scatti”.
In ambito sociale un altro importante lavoro di Gianni Berengo Gardin ha riguardato le comunità rom di Firenze, Padova ed altre città: “Si parla spesso di loro in termini negativi – ha sottolineato – ma conosciamo solo una minima parte, ho vissuto con loro ed è stata un’esperienza particolare, come la collaborazione con Renzo Piano per il quale fotografavo i cantieri ancora in corso dando un contributo indispensabile al suo lavoro”.
Con la sua macchina a pellicola prima a tracolla e poi appoggiata sulla scrivania del Festival, a margine del suo apprezzatissimo intervento si è sottoposto con grande disponibilità all’affetto delle tantissime persone che lo hanno avvicinato per un saluto e un autografo, ma anche per avere un parere sulla tesi. Il suo tono pacato e sereno è cambiato solo quando si è trovato a parlare del presente e del futuro della fotografia, influenzata dall’avvento del digitale e degli smartphone. “Il telefonino si usa per telefonare – ha puntualizzato – e non per scattare. Mi sembra che ormai siano tutti fotografi ma questo è un mestiere come tutti gli altri che necessita di esperienza e studio ed ha le sue regole ben precise. Evitate di immortalare cose inutili. Non ce l’ho con il digitale – ha precisato – ma con i programmi di fotoritocco, molti miei colleghi scattano a raffica tanto dopo possono aggiustare tutto, ma così si riempiono i giornali di immagini false. Credo che l’era dei fotografi sia finita, almeno in certi ambiti”. Una preziosa lezione sul mestiere del racconto per immagini fatta con la massima consapevolezza: “Se ho avuto un certo successo – ha concluso – è perché ho sempre conservato lo spirito del dilettante senza mai smettere di fotografare”.

(pubblicato su Cittadellaspezia il 31 agosto 2014)

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Calligrafia e creatività, Luca Barcellona al Festival della Mente

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(@dettobene)

“La difficoltà più grande? Spiegare il mestiere che faccio”. Luca Barcellona ci è riuscito perfettamente la settimana scorsa nel suo intervento alla decima edizione del Festival della Mente di Sarzana, dove il calligrafo milanese ha raccontato la sua attività in quella che ha definito una “disciplina di artigianato che sconfina nell’arte”.
Scrittura elegante e regolare che pur avendo una grandissima tradizione in Italia viene difficilmente inquadrata come un mestiere vero e proprio ed è tenuta viva dal lavoro e dalla passione di veri e propri artigiani moderni come Barcellona – insegnante all’Associazione Italiana di Calligrafia-, che all’attento pubblico della manifestazione ha spiegato influenze, origini ed applicazioni della sua passione.
“Ognuno di noi ha avuto un modello di scrittura ma la generazione precedente alla mia a scuola studiava la calligrafia, mentre quando ho iniziato a frequentare grafica negli anni Novanta, iniziavano ad imperversare i pc. “Il futuro è digitale” si diceva, oggi siamo abituati a schiacciare un tasto da cui escono lettere tutte uguali ma allo stesso tempo si assiste ad un lento ma graduale ritorno all’interesse per il manuale.
La calligrafia non è nulla di vecchio  e nostalgico – ha raccontato – ma qualcosa che ci circonda. In ogni città ci sono insegne che rappresentano incredibili fonti di ispirazione, anche se i Beni Culturali non si preoccupano di conservarle e raccoglierle in un museo. Il vero problema è che i bottegai stanno sparendo e queste vengono sostituite da caratteri tipografici sempre simili, c’è omologazione della comunicazione visiva”.
Una formazione quella di Luca Barcellona che viene proprio dalla quotidianità urbana, espressa in passato con il rap – con lo pseudonimo di Lord Bean – e soprattutto con il writing, disciplina che ha caratterizzato tutto il suo lavoro: “L’esperienza dei graffiti – ha detto – mi è servita molto perché era un’attività diretta, che non si poteva studiare. Era la realizzazione di un progetto su una superficie enorme partendo da una piccola bozza. All’estero c’è il mito della calligrafia italiana ma noi abbiamo un po’ trascurato questo tipo di cultura”.

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I suoi tratti calligrafici (raccolti nel libro Take Your pleasure seriously) sono stati utilizzati per la realizzazione di logotipi ed artwork per marchi come Dolce & Gabbana, Carhartt e Nike, oltre che da artisti come Nina Zilli e Casino Royale mentre il regista Luca Guadagnino ha voluto le sue grafiche per il film “Io sono l’amore”. “Devo dire – ha rivelato – che andare al cinema e vedere i miei titoli sullo schermo è stato davvero emozionante. Il lavoro che mi ha maggiormente segnato ha riguardato invece la riproduzione di un mappamondo del Cinquecento per il museo nazionale di Zurigo. Un’opera realizzata interamente a mano, riprodotta fedelmente con i tempi e gli errori degli artigiani dell’epoca”.
Nell’era del digitale in cui anche a scuola si usa sempre meno la penna a favore di mouse, tablet e tastiere, il lettering conserva comunque la sua natura di arte che deve tenere conto dello spazio e del tempo: “59 minuti di pensiero per un minuto di azione” ha detto citando un detto giapponese. Impulso che dalla mente arriva alla mano senza filtri o ritocchi. “Ieri durante il suo intervento qui al Festival – ha ricordato Luca Barcellona – Freccero ha definito la creatività come rottura di regole o codici, io penso che però questi debbano essere conosciuti”. Estetica dunque ma anche contenuto, artistico o commerciale, da veicolare attraverso il tratto di un carattere che comunica storie ed emozioni.

(pubblicato su Cittadigenova l’1/9/13)

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Memoria e social network al Festival della Mente con Bauman, Testa e Battiston

di Benedetto Marchese

Quando sul finire del loro splendido ‘Italy’ Gianmaria Testa e Giuseppe Battiston intonano ‘Miniera’, nel cielo di Sarzana si scatena il più classico degli acquazzoni estivi, che in un primo momento fa scattare i duemila spettatori della Fortezza Firmafede dalle proprie sedie in cerca di riparo, ma che a poco a poco li riporta al proprio posto, non appena il cantautore e l’attore tornano sul palco per concludere lo spettacolo con la gente zuppa ed assiepata sotto al palco.
È accaduto ieri sera in occasione della prima giornata di eventi del Festival della Mente che per la sua ottava edizione ha fatto registrare il sold out per conferenze ed incontri, confermandosi come la rassegna più attesa e seguita nell’ormai affollatissimo panorama nazionale. Oltre ad un programma di altissimo livello con ospiti d’eccezione, la kermesse ideata da Giulia Cogoli può infatti contare su un’organizzazione capillare che grazie anche al lavoro dei tantissimi volontari permette alla città di sostenere la pacifica e curiosa invasione di migliaia di persone che ogni anno arrivano da tutta Italia per i primi giorni di settembre dedicati alla creatività ed alla cultura.
Un pubblico fedele che a tarda sera riempie lo spazio di Piazza Matteotti per ascoltare la prima delle tre lezioni di Alessandro Barbero dedicata all’uomo nel Medioevo, lì dove poco prima in centinaia si sono assiepati per ascoltare Zygmunt Bauman nel suo intervento sul ‘concetto di comunità e rete, sui social network e Facebook’.
Una lezione attesissima quella del sociologo e pensatore polacco che ha spiegato il rapporto fra informazione e società, analizzando le differenze fra Rete e comunità nell’era dei social network. Un punto di vista indubbiamente autorevole al quale è forse mancato un passaggio veramente convincente sul reale impatto dei social media nella nostra società.
Dai concetti di libertà e comunità del presente a quelli del passato raccontati in musica e parole dal duo Testa-Battiston nello spettacolo presentato in anteprima proprio al Festival di Sarzana per raccontare l’Italia di ieri e le nostre migrazioni attraverso le poesie di Giovanni Pascoli ed un processo mentale imprescindibile come la memoria.

(Pubblicato su www.cittadigenova.com il 3/9/11)

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Festival della Mente/ Da Gutenberg a Google con Enrique Vila-Matas

di Benedetto Marchese

Il libro e l’editoria tradizionale hanno i giorni contati di fronte alla voracità dell’era digitale? No, stando almeno ad Enrique Vila-Matas, intervenuto al Festival della Mente in corso a Sarzana nel dibattito dal titolo “Da Gutenberg a Google”. L’acclamatissimo scrittore spagnolo, “il più grande in Europa” come lo ha definito nell’ottima introduzione il giornalista Andrea Bajani, ha risposto al quesito culturale allacciandosi al tema centrale del suo ultimo libro “Dublinesque” che racconta in modo ironico il tema della scomparsa degli scrittori e quindi dei libri. Una fine che viene celebrata in un vero e proprio funerale celebrato a Dublino nel Bloomsday dedicato a Joyce e che ha per protagonista un editore ed un manipolo di “Cavalieri dell’ordine di Finnegan’s”. “Tutto questo libro è una parodia della fine del mondo –ha spiegato l’autore- un tema che ci ha sempre accompagnati e che corrisponde ad un senso di angoscia esistenziale che ci portiamo dietro. Siamo tutti sull’orlo della fine del Mondo, però nel contempo penso che questo argomento si possa analizzare nel suo lato comico ed ironico. Un’opera nata sotto il segno di Joyce per cercare lo spirito dell’Ulisse e trasformare il grigiore di un personaggio elevandolo a forma d’arte. Lui e Beckett sono gli esempi massimi delle avanguardie del secolo scorso, io ho cercato di segnare i passaggi dall’uno all’altro”. Google contro l’Ulisse, anche se il Finnegan’s che dà il nome all’ordine dei cavalieri non è legato a Joyce ma viene dal nome di un pub, c’è ottimismo, ricerca della verità attraverso la costruzione di una domanda che presuppone ottimismo.
“Scrivo per un tentativo personale di non ingannare me stesso –ha rivelato Vila Matas- cerco di indagare sulla verità della fine del mio mondo e della mia esistenza; bisogna scrivere con uno scopo per arrivare a qualcosa, questo è un fatto fondamentale, ho sempre girato intorno al tema del “no”. M’interessa indagare, mi dà entusiasmo, l’indagine è uno dei motori della mia scrittura”.
Un’ipotetica apocalisse quella di “Dublinesque” raccontata in una forma di scrittura che per Bajani è “in continua evoluzione, un unico grande libro che abbraccia l’intera opera dell’autore” e coinvolge lettori attivi, che la influenzano arricchendola. “Il lettore attivo non è una mia invenzione –ha sottolineato lo scrittore- ma è sempre esistito anche se forse rappresenta una minoranza. I lettori attivi accettano con entusiasmo quello che l’autore offre loro e partecipano alla produzione dell’opera, ciò permette di condividere il proprio entusiasmo. La scomparsa per me è una costante, ma sono convinto che esista una tecnica per scomparire che porti a tornare con forza maggiore”.
Un lettore quello attivo, degnamente rappresentato nel gremito Chiostro di San Francesco, che deve fare i conti anche con la differenza fra realtà e verità. “C’è grande confusione a proposito –spiega l’ospite iberico- Kafka si avvicinava molto di più alla realtà di quanto potesse sembrare. Alla verità si può arrivare più velocemente attraverso la finzione che non con la documentazione dei fatti, è mutevole e costantemente ci sfugge, il realtà la domanda che ricorre sempre quando si parla delle mie opere è la differenza fra realtà e finzione. Io credo siano un’unica cosa, se scrivo di me stesso per forza di cose devo fingere, non posso raccontare tutto; se scrivo di un principe azzurro allo stesso modo posso parlare di me stesso. Sono due aspetti che si mescolano. Se guardiamo un politico che parla in televisione, questo è reale –aggiunge ironicamente- ma racconta finzione, la mia diventa un’interpretazione di quello che mi viene detto. Tempo fa dopo aver lavorato intensamente ad un progetto sono uscito di casa ed al semaforo uno sconosciuto mi ha chiesto se ero in grado di capire la filosofia, immediatamente ho pensato alla finzione, ad un mio personaggio entrato nella realtà. Non escludo che questo episodio possa essere inserito in una delle mie storie in futuro”. La vivacità dello scrittore e la curiosità dei suoi lettori escludono cupi scenari sul futuro dell’editoria così come la conosciamo, e lo stesso Vila-Matas conclude: “Gli editori sono importanti ma anche i critici hanno un ruolo centrale, ciò che conta non è il contenitore ma il contenuto, il problema non è Internet ma quello che ci mettiamo dentro. Se il libro sparirà fisicamente dalla faccia della Terra, ci sarà qualcuno che prima o poi lo inventerà di nuovo, presentandolo al Mondo come una grande ed entusiasmante novità”.

(pubblicato su www.cittadigenova.com il 5 settembre 2010)

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Festival della Mente/ Franck Maubert e il genio di Francis Bacon

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su cittadigenova.com e cittadellaspezia.com il 6/9/09)

Il nichilismo, la poetica, le influenze e il caos artistico dello storico studio londinese di South Kensington. Ci sono tutti i tratti essenziali della vita e dell’opera di Francis Bacon nel libro di Frack Maubert presentato al Festival della Mente di Sarzana. “Conversazione con Francis Bacon”, rientra infatti nella collana edita da Laterza e legata alla manifestazione che esalta la creatività in tutte le sue forme. Scelta perfetta quella del pittore inglese il cui talento e l’indiscussa genialità vengono descritte nell’opera. “I primi incontri si sono svolti nel 1982 –ha raccontato Maubert nell’incontro moderato da Stefano Zecchi- io all’epoca mi occupavo d’arte per l’Express e dopo tre anni sono riuscito a mettermi in contatto con lui. In precedenza avevo raccolto molto materiale, ma ero interessato a conoscere il personaggio e la sua storia”. Il libro arriva a poche settimane dall’anniversario del centenario della nascita dell’artista che nelle conversazioni trasmette le sue emozioni costruendo la sua identità attraverso le sue debolezze, “Non era un mostro come si poteva dedurre dalle sue pitture –aggiunge Maubert- era sincero quando diceva di non credere in niente, si definiva nichilista, non voleva apparire, era attento educato e squisito. Ogni tanto mi chiamava e s’interessava a quello che stavo facendo; conduceva una vita molto modesta”. Ha infatti assunto tratti ormai leggendari la storia del suo studio di Reece Mews, smantellato e dettagliatamente ricostruito nella Hugh Lane Gallery di Dublino, polvere e macchie di pittura comprese. “C’era uno studio camera da letto –ricorda l’autore- e un bagno cucina, stanze del caos che si aprivano raramente soprattutto ai critici. Nelle foto ho cercato di rendere il modo di vivere di Bacon”. Sollecitato da Zecchi, il quale non ha esitato ad esprimere critiche verso gli artisti che s’improvvisano tali senza le necessarie conoscenze, l’autore ha spiegato all’attentissima platea le fonti d’ispirazione di uno degli artisti più importanti del Novecento. “Bacon ha cercato di concentrarsi analizzando l’essere umano nella sofferenza, voleva cogliere la visione di se stesso ma non aveva modelli, cercava di rendere molto bene la dissociazione del suo volto; “Scarnificando” l’uomo ha saputo renderlo nelle sue forme. Lo immaginava come carne, nella macelleria di Harrods vedeva esseri umani fatti a pezzi, carne esposta. Aveva una visione estetica della carne, era interessato al riflesso del grasso su di essa. Quando dipingeva non partiva da idee particolari, lo spunto poteva essere magari una poesia di Garcia Lorca ma in itinere la tela si trasformava in altro. La sua era una ricerca non della verità che si fa ma che è impossibile da trovare”. Volti sfigurati che lo stesso Bacon nel libro definisce influenzati dalla perdita di tanti amici: “Provo a trasmettere una realtà dell’immagine nel suo momento più straziante”. “Nel Novecento l’artista ha perso la sua centralità –ha aggiunto Zecchi- si è dimenticato che l’educazione estetica è stata alla base della formazione dell’uomo mentre solo dopo è arrivata l’educazione scientifica. Bacon è stato un protagonista della rivoluzione formale, ha lavorato nella direzione di Picasso; la deformazione è stata la cifra caratteristica, come nel caso di Innocenzo Terzo ripreso da Velasquez il quale è stato un punto di riferimento per Picasso come per lui”. Nel libro infine non manca un curioso ed interessante capitolo che accosta il Bacon pittore ed artista al Francis Bacon filosofo e saggista: “Ho fatto questo parallelo di fantasia –ha spiegato l’autore- perché se non fosse stato pittore sarebbe stato sicuramente un filosofo per la sua intelligenza brillante, per la pertinenza dei suoi interrogativi, per la sua abilità nella conversazione e per la conoscenza della poesia e della letteratura”. Creatività purissima di una mente geniale, il tutto a portata di libro.

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Festival della Mente/ Davide Oldani, la cucina d’autore diventa Pop

Foto B.M.

Foto B.M.

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su Cittadigenova.com 06/09/09)

Alta cucina a basso costo, utopia? Nient’affatto, è la filosofia di Davide Oldani, chef milanese che questa mattina all’interno del Festival della Mente ha raccontato la sua idea di cucina “Pop”. Popolare, creativa e figlia della passione per il proprio mestiere del suo autore. Oldani, orgoglioso discepolo del maestro Gualtiero Marchesi, ha spiegato alla giornalista Camilla Baresani e al pubblico di Sarzana quello che è un vero e proprio manifesto concettuale che va ben al di là della semplice idea di ristorazione. Se il cliente riesce a godere di portate di altissimo livello spendendo 11.50 euro per un pranzo completo, è solo perché alle spalle c’è un lavoro che parte da lontano: “Ho lavorato con grandissimi maestri –racconta Oldani- ma anziché fare le cose in grande ho scelto di tornare alle origini, al mio paese, entrando nel mercato cercando d’imporre la mia idea”. Ecco allora la cucina accessibile a tutte le tasche ma assolutamente personale, a partire da un brand ben preciso nel nome: “D’O” non solo iniziali di Davide Oldani, ma anche lettere che accostate in giapponese significano “via”; il primo passo, quello della cucina tradizionale. “L’idea –ha aggiunto- è quella di far assaggiare nouvelle cousine e cucina destrutturata alla maggior parte delle persone. Io non ho inventato nulla, ho solo riscoperto delle tradizioni sulle quali mi baso applicando nuove idee”. Quelle che ogni giorno gli permettono di riempire il suo locale da 34 coperti e dove per un tavolo si possono attendere alcuni mesi o dove si mangiano solo prodotti di stagione e materie prime della tradizione. Ridurre i costi assicurando la qualità e rinunciando al superfluo; sembra un qualcosa di irrealizzabile e invece non lo è, almeno al “D’O” dove anche le stoviglie sono appositamente studiate: la posata unica che unisce le peculiarità di coltello, forchetta e cucchiaio; il bicchiere di cristallo spesso e più resistente; il piatto da zuppa o la tazzina con cucchiaino che preserva gli aromi del caffè. “Il compito del cuoco è nutrire e dare gusto” aggiunge lo chef la cui promettente carriera di calciatore era stata stroncata da un terribile infortunio, “Ogni passaggio nella preparazione di un piatto ha un perché, come nel classico riso allo zafferano nel quale gli ingredienti vengono cotti separatamente e il tocco finale lo da un elemento stagionale”. L’idea nuova di cucina pop affonda però le radici nella gavetta di Oldani con fuoriclasse come Ducasse e Roux oltre al già citato Marchesi, nell’esperienza maturata negli anni e rielaborata grazie ad applicazione e creatività, ma anche al diretto contatto con la gente: “Il confronto con i clienti è fondamentale, tutti mi portano qualcosa che posso assimilare, non mi sento un cuoco artista”. Tempi di servizio brevissimi, ingredienti sempre nuovi, personale essenziale e preparato; niente di rivoluzionario ma studiato nei minimi dettagli, negli accostamenti e negli equilibri dei sapori che fanno avvicinare la gente. “Anche se l’attesa per i tavoli –fa notare Camilla Baresani- rende il tutto molto Pop-chic”, definizione che piace allo chef e potrebbe essere al centro di nuove idee per un concetto di cucina sempre in evoluzione, nel quale anche il vino diventa secondario: “Perché un piatto ben cucinato non ha bisogno di liquidi” e dove il tartufo, ingrediente expensive per eccellenza, diventa pop se proposto come profumo all’interno di un soufflé. Un ristorante in cui la scarpetta a fine pietanza è incoraggiata e lo chef viaggia in 500. Nessuna utopia, solo gustosissima realtà.

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Festival della Mente/ Roberto Saviano e la forza delle parole

Foto Nicola Giannotti

Foto Nicola Giannotti

di Benedetto Marchese

(Pubblicato su cittadigenova.com e cittadellaspezia.com il 7/9/09)

C’è chi aspetta anche un’ora sotto il sole e chi varca i cancelli della Fortezza Firmafede solo quando la giovane volontaria del Festival della Mente annuncia l’evento speciale: “Roberto Saviano, la libertà comincia con le parole”. Ci sono giovani e pensionati; politici, studenti, operai ed avvocati; immobili sulle sedie o in attesa assiepati ai lati della platea già parecchi minuti prima che l’autore di Gomorra faccia il suo ingresso sul palco, accompagnato dalla scorta e dall’applauso sentito dei duemila presenti. Cala il silenzio sulla Cittadella così come sul resto della città di Sarzana dove in centinaia seguono l’intervento davanti ai megaschermi; mentre lo scrittore inizia il suo monologo e due uomini della scorta si sistemano ai suoi lati. Un quadro quasi irreale che focalizza l’attenzione sulla sua figura in completo nero che contrasta con lo sfondo bianchissimo, in un clima dalla forte carica emozionale sia per il pubblico che per l’ospite più atteso della sesta edizione del Festival. Saviano comincia parlando al plurale, usando il “Noi” che racchiude il gruppo fidatissimo di persone che da anni condividono ogni momento della sua vita: “Per noi è sempre strano incontrare tante gente, i miei colleghi possono salutare i propri lettori, io posso solo guardarli”. E tutti coloro che hanno letto Gomorra, ogni articolo e ogni notizia riguardante la sua storia sono lì, incrociano il suo sguardo; seguono il gesticolare delle mani i cui anelli rappresentano l’unico vezzo di un ragazzo di appena trent’anni condannato all’esilio. “Le mie parole hanno il senso della libertà –continua Saviano- come quelle del fotoreporter Christian Poveda, ucciso per aver realizzato il film “La vida loca” su Le Maras, i narcotrafficanti del Salvador. Si è parlato poco di questo fatto perché si pensa che la gente sappia già tutto, ma non è così e le mafie sono terrorizzate dall’idea che la gente leggendo capisca. La responsabilità maggiore per chi racconta queste cose è arrivare alle persone. Nulla di ciò che scrivo fa paura, loro hanno paura di chi legge”. Il “Loro” che indica indistintamente i responsabili della morte di Poveda come di Anna Politkovskaja, il piccolo Giuseppe di Matteo o Don Peppe Diana. “L’ho difeso dalle calunnie –aggiunge Saviano sul prete ucciso dalla Camorra- per una questione d’onore e per fortuna Pecorella ha chiesto scusa. Spesso il destino è fra la morte e la delegittimazione, la calunnia, come per Padre Puglisi a Palermo. Falcone diceva che la calunnia si distrugge da sola, ma non ci sono mai pallottole senza denigrazioni”. La vergogna della gente nell’aver a che fare con qualcuno che ha “infangato” la propria terra: “La mia è una vita noiosa –aggiunge- ma mi ha permesso di vivere situazioni impensabili, come con i padroni delle case che abbiamo cercato, felicissimi di ospitare i Carabinieri ma non il sottoscritto. Quando ti occupi di certe cose ti si crea un deserto intorno, ma quando parli alle persone le parole cambiano, diventano concrete e i miei lettori hanno deciso che il meccanismo si rompesse. Le mafie sono terrorizzate dalla parole perché sono abituate alla penombra. Non puoi permetterti di scoraggiarti –sottolinea trasmettendo tutta la malinconia di una vita vissuta sotto scorta- ma mi capita spesso perché Gomorra mi ha rovinato la vita per sempre, però lo rifarei”. Parole che colpiscono, frasi già sentite o lette ma che assumono un valore ancora più forte se ascoltate dalla voce diretta di Saviano, che percorrendo il filo interminabile della malavita di casa nostra parte da alcune inchieste svolte negli Usa, nelle quali fra le cinque organizzazioni criminali più potenti figurano Camorra, Mafia e ‘Ndrangheta; per arrivare a Castelvolturno, “Luogo della diaspora degli africani, che ha visto morire Miriam Makeba davanti a poco più di trenta persone. Una morte della quale un po’ mi sento responsabile perché avvenuta in un concerto contro la Camorra”. Lei, un simbolo, perseguitata per trent’anni dal suo paese per una canzone gioiosa ed innocua come Pata Pata, “Perché la gioia mette paura”. Poi il riferimento alle domande poste dal quotidiano la Repubblica a Silvio Berlusconi, fatto senza citare nessuno dei protagonisti: “In passato ho ricevuto più volte attestati di solidarietà dal centrodestra, ora sogno che gli elettori si rendano conto che una risposta è necessaria, c’è bisogno di uno scatto di coscienza. Se non ci uniamo nella legalità non possiamo andare avanti”. L’applauso convinto del pubblico esalta il valore delle parole, come quelle riprese da Danilo Dolci: “Ciascuno cresce solo se sognato” e di Gustav Herling, o le frasi che chiudono l’incontro, questa volta un verso della poetessa polacca Szymborska. “Citare mi piace, mi fa sentire protetto da un esercito di alleati- conclude- “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”, è l’empatia la magia della letteratura”. È più semplicemente la forza delle parole di un pomeriggio da conservare come un qualcosa di speciale.

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Il Festival della Mente e la cucina d’autore, intervista a Carlo Cracco

Carlo Cracco

di Benedetto Marchese

(Pubblicata su Cittadellaspezia il 30/08/2008)

Abituato al suo teatro naturale, la cucina del suo ristorante, ci ha messo qualche minuto ad ambientarsi alle centinaia di persone che hanno affollato l’evento del Festival della Mente dedicato alla cucina d’autore. Ma lui, Carlo Cracco, classe 1965, vicentino trapiantato a Milano, cuoco di fama internazionale celebrato da guide e addetti ai lavori, ha affrontato la platea composta da colleghi, curiosi e appassionati di alta cucina, spiegando i processi lavorativi e intellettuali, che gli permettono di trasmettere emozioni attraverso i suoi piatti. Una cucina “cerebrale e di cuore” appunto, che parte dalle materie prime per fondersi con le alchimie di chi come lui attraverso profumi e sapori riesce a far provare sensazioni uniche ai suoi clienti. Modesto al punto di parlare al plurale perché con lui lavorano quotidianamente oltre trenta persone; capace di spiegare come l’anguria possa andare d’accordo con il sale o l’insalata russa stare pacificamente racchiusa in una glassa di caramello. O meglio ancora come da un semplice tuorlo d’uovo possano nascere capolavori d’ingegneria mentale applicati alla gastronomia; Cracco si è poi concesso con grande disponibilità a Cds per una breve intervista:

Quali insegnamenti ha tratto dalle esperienze con Gualtiero Marchesi, Alain Ducasse o presso l’Enoteca Pinchiorri di Firenze?
“Ho imparato quelli che sono i fondamentali della cucina, anche perché quando ho iniziato non c’erano riviste di settore, trasmissioni televisive dedicate, né Internet nel quale adesso si trova quasi tutto quello che riguarda la cucina. Mentre i libri dei grandi chef uscivano alla fine della loro carriera per cui erano già vecchi. L’unico modo che avevo per imparare e capire cosa faceva un maestro era andare ed imparare. Basi fondamentali che mi hanno permesso di fare tutto il resto. Diciamo che ora è tutto molto più semplice perché gli spunti quotidiani sono moltissimi, sta poi a ciascuno capire quali possono andare bene o meno per il proprio lavoro”.

Canali satellitari, blog, cuochi ospitati nelle trasmissioni più disparate e critici improvvisati.
Possiamo parlare di un’eccessiva spettacolarizzazione del cibo e della cucina?

“Una volta i cuochi erano considerati degli ubriaconi che a sessant’anni avevano esaurito il proprio corso, oggi sanno un minimo parlare e porsi anche in ambiti diversi, quindi la cosa non è negativa. Il problema principale è che bisognerebbe approfittare del momento di visibilità per lasciare un messaggio di qualità, evitando di dedicarsi esclusivamente allo spettacolo fine a se stesso altrimenti si rischia di banalizzare un mondo invece molto serio”.

Dal suo punto di vista, quello di interprete apprezzato, come sta andando la cucina d’autore italiana?
“Sta andando benissimo. Noi al contrario degli spagnoli o dei francesi non abbiamo un leader riconosciuto, cosa che a livello di prestigio ci limita, ma a livello pratico abbiamo la possibilità di avere molti più cuochi, molta più varietà e un movimento che cresce all’unisono. Si parla molto di cucina spagnola, ma in realtà è la cucina di Ferran Adrià, e non può farla nessun altro, il problema è che poi tutti si identificano in quella ma non con gli stessi risultati. Ed è per questo che forse noi siamo più fortunati, anche se probabilmente è un limite per certi aspetti, perché nominano lui e non noi, anche se siamo dieci o quindici di buon livello. ”.

Lei che è ormai un cuoco affermato, vede fra i giovani emergenti qualcuno che si sta distinguendo rispetto agli altri?
“C’è un esercito di bravi cuochi, io mi auguro vivamente col tempo possano uscire tutti. Il vero problema oggi è quello dei camerieri. Oggi come oggi nelle scuole alberghiere su cento alunni, novanta sono cuochi e gli altri camerieri. Ed è un dramma, perché ormai c’è uno squilibrio per il quale tutto ciò che è cucina va a mille, tutto il resto non funziona. Una volta il cuoco era l’ultimo gradino della scala, non era neanche considerato, mentre ora i ruoli si sono del tutto ribaltati. Il cuoco è tale anche solo, mentre il cameriere ha bisogno di una struttura alle spalle. Quella dello chef è ormai una figura a 360°, ci mette la faccia, la tecnica e il nome, ma in queste condizioni fatica a trasmettere il proprio concetto di lavoro a chi poi sta in sala”.

Per chiudere, i grandi cuochi vivono con il pensiero del giudizio: stelle, voti in ventesimi e forchette di merito. Com’è il suo rapporto con le guide?
“Penso che bisognerebbe fare un passo in avanti, così come sono impostate e sviluppate servono a poco, la guida cartacea è obsoleta perché ormai chi la consulta ha molteplici alternative a disposizione. Bisognerebbe andare oltre, ma ci vogliono i mezzi le idee e gli investimenti. Nel frattempo io continuo a fare il mio lavoro”.

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