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L’attesa del tramonto

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di @dettobene

Mentre me ne vado verso i sei gradi del tardo pomeriggio il sole sta scendendo veloce verso la linea dell’orizzonte, quasi a metà fra il Tino da una parte e la Corsica dall’altra. La linea del mare cambia tonalità rapidamente, meritandosi foto, stories e sguardi sognanti, lasciando ancora qualche minuto a chi arriva in ritardo dalla stradina che riporta al paese. Dietro di me lascio almeno una ventina di persone: il signore educato con il teleobiettivo, il tizio che fra una birra e un pezzo di focaccia mi ha impallato il time-lapse, la signora esperta di erbe e piante aromatiche con il marito silenzioso e la nipote che ha riempito la memoria del cellulare. Rimangono anche la comitiva emiliana, la coppietta di ragazzi nell’angolo e quella lombarda – seduta poco prima vicino a me – con lui vessato dal datore di lavoro la vigilia dell’ultimo dell’anno.

Mi allontano probabilmente nel momento migliore ma posso essere soddisfatto. Dopo un piatto di ravioli e una bella chiacchierata ho scelto di salire verso Montemarcello anziché costeggiare il fiume fino a Bocca di Magra. Mi sono goduto la vista da Livorno a Tellaro, le campane e i gabbiani in sottofondo, i minuti senza voci e il tepore del sole da altra stagione, ho dato un’occhiata alla spiaggia di Punta Corvo, e soprattutto mi sono spinto avanti nel “Territorio Comanche” di Arturo Pérez-Reverte. Ho riguardato in lontananza la Capraia e ho pensato al primo progetto per il 2020. Niente male per un pomeriggio di fine decennio.

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Last train to Monterosso (e Vernazza)

Monterosso

Benedetto Marchese (@dettobene)

Non avendo avuto il tempo necessario per organizzare una vacanza vera, ho deciso di spendere questi pochi giorni in cui sono riuscito a spegnere il computer sfruttando una delle ultime occasioni per passare un po’ di tempo al mare, grazie al clima molto estivo di questi primi giorni di settembre. Qualche bagno, un po’ d’aria buona e nessuna fretta di leggere mail o approfondire notizie, viaggiando sui treni regionali per recuperare un po’ di serenità, o meglio, ricordi di periodi più tranquilli, trascorrendo qualche ora fra Vernazza e Monterosso, i miei luoghi del cuore.

Monterosso

Per una quindicina d’anni infatti il malandato Gigante che sovrasta gli scogli di Fegina, mi ha visto crescere estate dopo estate. Ore ed ore trascorse ogni mese di luglio sulla stessa spiaggia oppure in acqua con maschera e fiocina a caccia di polpi. Giornate che finivano dopo le 20.00 quando con gli ombrelloni ormai chiusi e le sdraio vuote scendeva in spiaggia Gianni Brera. Accompagnato e sorretto dai figli arrivava fino a pochi metri dalla riva, toglieva l’accappatoio e s’immergeva lentamente in acqua. Il più delle volte eravamo gli ultimi a fare il bagno e dopo aver gironzolato ancora un po’ tornavo a casa per la cena dicendo “c’era anche quel signore anziano, quello con l’accappatoio”.

Monterosso
Ad eccezione di qualche tedesco era soprattutto la Monterosso delle famiglie di Spezia, Genova, Parma o Milano – alcune incontrate nuovamente con enorme piacere anche in questi giorni – scarseggiava l’acqua e il fenomeno ‘Cinque Terre’ doveva ancora ancora diventare globale. Quella odierna è invece una località sempre unica nel suo fascino ma molto più curata, accogliente (nonostante il prezzo dei posti letto) e completamente votata ad un flusso di turisti in larga parte stranieri. Fa un certo effetto arrivare in treno con americani, australiani, giapponesi e russi, vedere il loro stupore quando la gallerie si aprono su scorci fra i più belli in assoluto, oppure sentirli dialogare con commercianti e bagnini dal buon inglese con accento marcatamente monterossino.

 Monterosso

Un incessante via vai su spiagge e strade che ha incrociato i miei ricordi sovrapposti nel tempo uno dopo l’altro. Il tratto di strada verso casa dopo aver superato la salita che porta al Semaforo sul Mesco; le barche dei pescatori che spesso giungevano a riva con pesci lama, verdesche e orate; il carretto con le acciughe e i totani o l’ex ristorante “Il Gigante” (dove ho imparato a mangiare il pesce) e Villa Montale. Poi, poco distante, il cinema all’aperto con le sue scomodissime poltroncine, “Il Fornaio” con le sue focacce e il chiosco dei gelati, tappa fissa delle passeggiate serali. Più avanti la stazione dove mio papà mi portava a vedere i treni e il lungomare che collega la parte ‘nuova’ cresciuta negli anni Cinquanta al paese vecchio. Un panorama unico, dilatato dalla Palmaria a Punta Mesco, con gli altri paesi da un lato e dall’altro le pareti scoscese che delimitano il confine delle Cinque Terre. Una vista ancora più speciale se apprezzata dalla statua di San Francesco, poco sotto il convento dei Cappuccini con la torre Aurora in primo piano.

Monterosso

Un punto d’osservazione che lascia senza fiato (come la scalinata per raggiungerlo) aprendo la vista sul centro storico, profondamente ferito dall’alluvione del 2011 ma restituito ancora più bello dopo la ricostruzione. Oltre il ponte della stazione, dove si faceva la festa delle acciughe, andavo la mattina con i nonni a caccia di giocattoli quando venivano a trovarci. Ora nelle stradine attorno alla chiesa di San Giovanni Battista domina un brusio che accomuna tutte le sfumature dell’inglese e perfino i gattoni che stazionano davanti ai ristoranti si mettono in posa per scatti che finiranno in ogni parte del mondo.

Monterosso

Per quanto i turisti in tenuta da trekking l’abbiano ormai inserito le Cinque Terre fra le mete imprescindibili dei tour in Italia, con Napoli, Roma e Firenze, Monterosso ha comunque conservato il suo fascino innato e l’atmosfera suggestiva di alcuni dei suoi luoghi speciali. Strade, salite o panorami scoperti di anno in anno e a cui sono molto legato. Ma in questi giorni finalmente estivi non potevo fare a meno di una tappa a Vernazza, altra perla delle Cinque Terre che mi ha visto sgambettare fin da quando ero un bimbetto col caschetto.

Vernazza

Qui non tornavo da diversi anni, da prima dell’alluvione che aveva distrutto senza pietà via Roma e Piazza Marconi, sommerse da fango e detriti ora ricostruite meravigliosamente. Tanto che per chi arriva da fuori l’unica testimonianza di quel tragico ottobre è un pannello fotografico sotto la stazione, il cui intero reportage realizzato da Andrea Barletta si può trovare qui. Ogni giorno, soprattutto in questo periodo, lo vedono le centinaia di persone che scendono dal marciapiede. Si fermano, lo osservano, commentano e poi s’incamminano lungo la discesa che porta nella piazzetta. E’ un flusso continuo, che crea ingorghi davanti a gelaterie e focaccerie disperdendosi solo a pochi metri dal mare, con la chiesa di Santa Margherita da una parte e la passerella verso gli imbarchi e la scogliera dall’altra, dando al contesto una particolare dimensione internazionale.

Vernazza

Lì sulla sinistra c’è ancora il ristorante “Il Gambero Rosso”. Un tempo, con la precedente gestione della famiglia di Agostino, offriva i migliori muscoli ripieni in circolazione, le trofie al pesto, il ‘Tian Vernazza’, lo strepitoso latte fritto e il ‘dolce Andrea’. Nel piatti sotto gli ombrelloni intravedo cose trascurabili tirando avanti di fretta verso gli ultimi metri del porticciolo per godermi Monterosso in lontananza e la torretta del Castello Doria che domina tutto il paese. Decido di non salire fino lassù per tenermi il ricordo dell’ultima visita, ma anche per recuperare il tempo per un bagno che forse qui non ho mai fatto.

foto (39)

Il luogo perfetto è la ‘Spiaggia della tagliata’, mai vista prima perché riscoperta proprio dopo i fatti dell’ottobre 2011. Ci si arriva passando sotto un costone di pietra, una sorta di grotta che porta dietro Vernazza dove si apre uno scenario davvero affascinante. Dal caos di turisti della via principale si passa ad una distesa di sabbia e sassi stranamente non affollata come ci si potrebbe aspettare e raccolta in un’insenatura protetta di roccia e agavi. Mentre il sole di settembre asciuga il sale sulla pelle mi guardo intorno anch’io come gli altri, assaporando la quiete quasi irreale che si respira appena varcato il tunnel sotto le case. Mi godo anche la piacevole novità in un posto di cui credevo di conoscere ogni angolo da una ventina d’anni.

.Vernazza

Ripenso con un po’ di nostalgia ad un giocattolo scovato dentro una barca rovesciata nella piazzetta, alla curiosità nell’osservare i pescatori che preparavano i palamiti e ai viaggi notturni sulla ‘Littorina’ verso Monterosso attesa aggrappato alle gambe dei miei su un binario ventosissimo. Affollato e austero, l’ultimo treno della notte che percorreva gli stessi binari in senso opposto al regionale che fermata dopo fermata torna verso Sarzana.

Vernazza

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Pesto e pesto

Pesto e pesto

(@dettobene)
Vivere in Liguria non significa trovare sempre del buon pesto, anzi. Trattorie, ristoranti e osterie spesso usano prodotti industriali lontani dagli standard minimi di gusto e qualità ai quali siamo abituati.
Ieri ho mangiato fuori casa sia a pranzo che a cena – trattorie molto abbordabili – e in entrambi i casi mi sono capitati dei piatti conditi con pesto. A pranzo le trofie nella foto che non hanno tradito le aspettative. A cena dei panigazzi con del pesto pieno d’aglio, scurissimo e molto pesante che ha rovinato tutto il resto. Stamattina c’ho riflettuto: un pessimo pesto è peggio di un pessimo pasto.

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2 marzo 2014 · 22:21

Un giorno a Borghetto fra distruzione, solidarietà e speranze

di Benedetto Marchese

Mentre sui grandi media nazionali lo spazio dedicato all’alluvione si sta riducendo giorno dopo giorno, in tutti territori straziati dalla furia dell’acqua e del fango si continua a lavorare per ripristinare i servizi essenziali e mettere in sicurezza case, strade e torrenti, in attesa della nuova perturbazione prevista per il fine settimana. Anche a Brugnato e Borghetto di Vara, epicentri della catastrofe che dopo una settimana esatta presentano ancora segni impressionanti di una forza distruttiva senza precedenti.

Danni incalcolabili che si notano uscendo dal vicino casello autostradale (niente pedaggio all’arrivo ma 3,80 euro al ritorno. Non esattamente un gesto di cortesia da parte della Salt verso la gente colpita) in uno scenario da brividi: le strade sono monocromatiche, con l’asfalto coperto da un unico strato di fango; gli unici mezzi utilizzabili sono quelli dei soccorritori mentre gli altri sono accatastati agli angoli delle strade, accartocciati o ribaltati, intrecciati con radici o tronchi d’albero. Altri segni costanti di un paesaggio urbano e naturale completamente stravolto. Già a metà mattinata però l’incrocio principale di Borghetto, dove prima c’era una piazza ed ora resta solo una voragine a dividere i due ponti, è il punto d’incontro di residenti e volontari, uomini della Protezione Civile e dell’Esercito, Vigili del Fuoco e Forze dell’Ordine in un instancabile andirivieni scandito dai rumori delle ruspe e dei camion che caricano e scaricano detriti.

In quel che resta di una tabaccheria, con una parete sventrata dalla piena, è allestito un punto di ristoro con caffè e bottigliette d’acqua per quanti arrivano e ripartono verso i punti del paese nei quali c’è da dare una mano. Alcuni, non senza difficoltà, salgono verso Cassana collegata solo tramite una strada sulla quale passa a stento un’auto e costeggiata da decine di frane pronte ad esplodere nuovamente in caso di altre piogge.
Gli altri si fermano su via 4 novembre, straziata dalla forza del Pogliaschina, il torrente che scorreva a pochi metri dalle case e che nella tragica notte di martedì scorso non ha risparmiato nulla: vite umane, auto, case, cantine e garage.

Borghetto è infatti il centro che ha pagato il contributo più pesante con le sue quattro vittime, l’ultima delle quali l’ottantaduenne Alemanno Fabiani ritrovato proprio nella mattinata della festa di Ognissanti dagli uomini della Protezione Civile di Cogorno.
Fra i mezzi si muovono i piccoli gruppi di volontari, alcuni giunti qui per la prima volta, tutti equipaggiati con pale, stivali e carriole, pronti a trascorrere ore in box auto con la melma fino al ginocchio per sgomberare più locali possibili, pulire cantine e garage, liberare i primi piani delle abitazioni. Luoghi nei quali il segno putrido della distruzione non si ferma al metro e mezzo delle facciate, ma arriva direttamente al soffitto, dando l’idea di quella che è stata una bomba d’acqua inarrestabile. Nei volti di chi arriva c’è uno sgomento comprensibile nell’assistere a quello che sembra un macabro scenario di guerra, che riporta indietro negli anni ai drammi della Seconda Guerra che qui lasciò ferite profonde, ma anche l’encomiabile determinazione nel voler contribuire con tutte le energie possibili.

Ci sono gli Ultras, gli amatori di squadre di calcio e rugby, i ragazzi con i fazzoletti rossi, i gruppi di amici arrivati da ogni zona della provincia, dalla Liguria e da fuori regione. Nel buio di una cantina con l’aria resa irrespirabile dall’odore di cherosene si confondono dialetti ed origini, motivazioni ed energie. Persone che non hanno mai preso in mano una pala che scavano con impegno e sudore, donne e ragazze con il volto segnato dal fango che sollevano secchi pieni di detriti senza la minima smorfia di fastidio. Cercano cose da fare, chiedono, s’informano e talvolta si arrabbiano nello scorgere divise troppo pulite o confrontandosi con personale che coordina i lavori snobbando in alcune occasioni il loro impegno, oppure ascoltando domande banali o inopportune da parte di qualche cronista.

Volontari che si regalano un sorriso ed un bicchiere di vino offerto dai proprietari di una casa che grazie al loro intervento presto tornerà forse ad avere un aspetto riconoscibile. “Posso offrirvi solo questo” spiega una donna che continua a ringraziare un gruppo di ragazzi allungando bicchieri di carta e Dolcetto d’Alba: “Sono tornata qui per i miei genitori –aggiunge- mio padre è anziano ed ha quattro bypass ma non ne vuole sapere di stare fermo”. Si perché pur non avendo l’appeal mediatico di Vernazza o Monterosso, la Val Di Vara è abitata da gente tosta come quella delle Cinque Terre, che non si arrende di fronte ad una calamità di queste proporzioni e non si abbatte per un futuro più che mai incerto e privo di certezze economiche e lavorative.

Molti hanno perso tutto o quasi ma non si spaventano davanti alla prospettiva di dover ripartire da zero. Fra via San Carlo e via Roma nel cuore del borgo, la strada è ormai libera dal fango, si rivedono pietre e piastrelle del selciato, mentre le autobotti distribuiscono acqua potabile e l’ennesima auto viene estratta da un garage. Portata qualche decina di metri più avanti e lasciata in quella che era un’area verde ed ora è un malinconico cimitero di carcasse di macchine ed effetti personali. Fra un camion ribaltato e panchine piegate dall’informe massa marrone affiorano pezzi di quotidianità distrutta: fotografie, indumenti, cd, libri, pacchetti di sigarette e scatolette di tonno. Poco oltre, nel punto in cui il torrente s’incrociava con il Vara si ha una percezione migliore della forza distruttiva che ha attraversato la valle tirando giù ponti e strade, lasciando nel greto del fiume alberi sradicati e pezzi di cemento.

Nel fragore di motoseghe e ruspe, rotto solo dalle sirene dell’ambulanza che soccorre un vigile del fuoco colto da malore, fa impressione sentire alcune risate provenire dal luogo dove fino a lunedì c’erano un campo da pallone e gli spogliatoi in un prefabbricato ora sollevato da terra e piegato su un lato. Fra due auto rovesciate è rimasta in piedi la struttura di un campo da calcetto, anche se il sintetico è stato strappato e spostato come un tappeto di casa piegato malamente in un angolo. All’interno, nel fango, rimbalza il pallone di cinque ragazzini con gli stivali che fra un dribbling e l’altro calciano e segnano nell’unica porta rimasta al proprio posto. Seguiti dallo sguardo esausto e preoccupato di una madre esultano e si prendono in giro come si fa tra amici; in un attimo di normalità e speranza nei giorni dell’apocalisse.

Qui alcune foto

(pubblicato su www.cittadellaspezia.com)

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